L’analisi personale dello psicoanalista secondo Freud

LA TERAPIA PERSONALE NELLA FORMAZIONE

Freud e le prime intuizioni
All’inizio del 1937 Sigmund Freud scrive il saggio “Analisi terminabile e interminabile” (Freud, 1937). Questo scritto apparentemente tecnico, in realtà rappresenta una riflessione attorno ad un ampia varietà di problemi, relativi alle basi della psicoanalisi. Di conseguenza affronta sul piano teorico e pratico una serie di dubbi e problematiche associati alla terapia.

Uno dei problemi presi in esame in questo saggio è quello relativo alla durata dell’analisi e alla sua fine, associate alle “caratteristiche peculiari dell’analista”. Secondo Freud l’analisi è influenzata sia dal “modo d’essere dell’Io del paziente”, sia dalla personalità e dalla formazione dell’analista.

Di conseguenza viene attribuita un’importanza fondamentale a quest’ultimo punto e Freud propone a tale scopo due metodi pratici:(Carrara & Zanda, 1992)“che il futuro analista si sottoponga a un’analisi personale e che successivamente si rifaccia periodicamente “oggetto di analisi”. Entrambi questi suggerimenti sono esposti un po’ frettolosamente e sono oggi difficilmente accettabili nella forma in cui Freud li propone: lo scopo dell’analisi personale (“per motivi pratici… breve”)
verrebbe raggiunto quando l’allievo si convince pienamente dell’esistenza dell’inconscio, e la sua ovvia incompiutezza sarebbe compensata da nuove analisi da intraprendere “ogni cinque anni”.

L’analisi didattica diventerebbe per definizione interminabile come interminabile è “l’analisi terapeutica del malato” (Carrara & Zanda, 1992, p.83).

Secondo Freud ogni analista dovrebbe quindi a intervalli di circa cinque anni sottoporsi nuovamente ad analisi, con lo scopo di mantenere la propria sensibilità. La terapia personale inoltre conferisce conoscenze, attitudini e abilità di pensiero che sono indispensabili per una buona pratica clinica.

Freud aveva pensato che l’analisi personale potesse essere l’unico mezzo grazie al quale si potessero acquisire le tecniche basilari della pratica clinica, come ad esempio il modo in cui lavorare quando si presenta il transfert (Mace, 2001).

In questo mio lavoro sono partita da Freud, in quanto egli “per primo si è dovuto porre il problema
della formazione di un terapeuta” (Mancini & Perdighe, 2010, p.5).

Secondo Freud infatti l’analisi personale aveva un’utile funzione: quella di far acquisire al terapeuta una percezione maggiore del tipo di reazioni che possono scaturire dal rapporto col paziente. Questo significava essere in grado di superare le difese e riuscire a riconoscere le variabili personali del futuro terapeuta, permettendo a questi di poter operare un controllo su di esse. Fare ciò metterebbe il terapeuta nella condizione di lavorare senza condizionare i suoi processi di pensiero con le motivazioni personali.

Quindi per Freud l’analisi è intesa con l’obiettivo di far giungere il futuro terapeuta alla conoscenza, e non come cura; così facendo l’analisi diventa quello strumento in grado di aiutare il terapeuta ad arrivare alla conoscenza di se stesso e a superare le proprie difese, liberandolo così dalle influenze delle sue variabili personali che interferirebbero con la pratica clinica.

Da Freud in poi la terapia personale entra a far parte della formazione degli psicoterapeuti, con due scopi: sia come strumento per apprendere abilità specifiche e sia come strumento per porre rimedio alle difficoltà, che possono presentarsi con qualche allievo che non riesce a raggiungere prestazioni soddisfacenti e standard indispensabili e per sopperire a qualche carenza di una qualche abilità o qualità che tende a inficiare la performance (Mancini & Perdighe, 2010).

Occorre, a questo punto, fare una distinzione molto importante in psicoanalisi tra tre mezzi per la formazione, che devono cooperare complessivamente; il primo, l’analisi propria dell’analista, o analisi personale-terapeutica condotta presso un analista con una fondata esperienza; il secondo, la formazione teorica attraverso letture, frequentazioni di corsi, partecipazioni a seminari e dove possibile anche a sedute dell’associazione psicanalitica, questa potrebbe essere espressa anche con il termine analisi didattica; terzo, la pratica analitica o supervisione clinica, sotto il controllo di un analista particolarmente affidabile e sperimentato. Ciò che distingue l’analisi didattica, dall’analisi terapeutica, non è la sua tecnica diversa, infatti, durante l’analisi didattica l’analizzando deve apprendere qualcosa.

La giusta analisi didattica non si distingue per nulla dalla terapeutica. Come potrebbe mai il futuro analista apprendere altrimenti la tecnica giusta, se non avesse appreso esattamente dall’esperienza come applicarla in seguito. Ne deriva che solo dai risultati dell’analisi dipende che in un caso determinato si tratti un’analisi didattica e non di un’analisi terapeutica, cioè se sussistono l’intenzione e l’adeguamento all’esercizio professionale dell’analisi da parte dell’analista (Rath, 2012).

Masci (1988) afferma che “nel 1923 Ferenczi è il primo a porgere l’accento su una non differenza tra analisi didattica e analisi terapeutica, sottolineando che la prima deve andare più a fondo e quindi probabilmente deve durare più a lungo. Un anno dopo (1924) vengono pubblicate a Berlino le prime regole dell’analisi didattica. Essa viene fissata in un tempo minimo di sei mesi mentre non viene indicato il limite massimo”. L’allievo, cioè, non soltanto deve imparare ma deve anche realizzare un
cambiamento interiore, e la divergenza rispetto a un normale percorso analitico risulterà evidente se considereremo che la trasformazione non mira a un generico sviluppo, come avviene invece per il paziente, ma è tesa nella direzione di una professionalità (Carotenuto, 1982).

 

di Federica Briganti

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