Come parlare con un malato terminale

“Date al dolore la parola:
il dolore che non parla sussurra al cuore affranto
e gli dice di spezzarsi”.
(Macbeth IV, 3 W. Shakespeare)Un operatore, uno psicologo, un medico o un sanitario, nell’approccio con il paziente oncologico deve essere necessariamente in grado di capire l’ammalato, di comprenderne i bisogni e soddisfare quelli che rientrano nelle proprie competenze e

possibilità, attivando un intervento che si inserisca in un lavoro multidisciplinare di equipe, partendo però da un ascolto attivo non solo del paziente ma anche dell’intera famiglia del malato che attraversa il dramma del cancro.

Quello che le persone pensano del loro dolore e le convinzioni e le aspettative che hanno su di esso influenzano la loro esperienza di dolore e determinano le loro risposte emotive e comportamentali.

Il processo comunicativo con il malato e il suo entourage familiare si interfaccia con la comunicazione che intercorre all’interno dell‟equipe curante e tra questa e altri operatori che interagiscono a diverso titolo come consulenti esterni, ad esempio.
Porre attenzione ai diversi sistemi comunicativi è importante al fine di ridurre i rischi di confusione e frammentazione che solitamente acuiscono il disagio del malato e di chi è coinvolto nell‟esperienza della terminalità.
L’ascolto autentico con un paziente affetto da cancro ci mette in contatto con la ricchezza dell‟individuo che è accanto a noi e dobbiamo porci in una posizione di accettazione, di coinvolgimento, partecipazione e anche di riconoscimento, perché
come ha detto il professor Nanetti, quello che ci differenzia da un uomo in punto di morte è il tempo.
Sulle esperienze quotidiane nel mio tirocinio per il corso di perfezionamento è emerso un approfondimento della dimensione spirituale che riguardi sia i malati che gli operatori che lavorano nei reparti oncologici o negli hospice.
Con dimensione spirituale intendo prestare attenzione a tutte le dimensioni della persona, nel dolore “totale” inteso come dolore fisico, emozionale, sociale e spirituale.
Bisogna essere consapevoli che i sintomi di sofferenza fisica e interiore richiedono la stessa attenzione, che spesso coesistono e anzi, si potenziano a vicenda. Bisogna prima di tutto restituire nei reparti ospedalieri il senso di dignità dell‟uomo
prima di tutto e non vedere solamente la malattia da curare, per questo occorre un ascolto che sia critico ed empatico in maniera equilibrata per avere la consapevolezza dentro se stessi di ciò che l‟altro vuole comunicarci e che magari  non dice. Sta a noi elaborare il messaggio che l’altro ci invia, direttamente o indirettamente, spesso con una richiesta o un appello.
Stando a contatto con la sofferenza delle persone si impara ad ascoltare di più, a incoraggiare, a compiere anche i servizi più umili per aiutare l‟altro, a non fuggire dalla realtà quotidiana.

Riporto un esempio di come un buon grado di assertività e soprattutto un ascolto attivo a mio avviso possano essere utili in un colloquio con un paziente affetto da cancro.

La paziente in questione era una signora che doveva subire una mastectomia per un cancro al seno ed in un colloquio, con il suo oncologo prima e con il chirurgo poi, non era riuscita a chiedere cose che per lei erano imbarazzanti e difficili da accettare ed esprimere a voce alta:

  • Che cosa comporterà la mia operazione?
  • Mi sentirò ancora una donna?
  • Devo dire qualcosa di importante ai miei figli?

Dopo i colloqui la signora riferiva di aver capito in cosa consisteva l‟operazione ma non era riuscita a chiedere nulla perché nei colloqui venivano usati troppi tecnicismi e non c’era alcun riferimento a lei come persona ma solo alla malattia.
L’espressione che ha usato è stata: “Io non sono la mia malattia”. Purtroppo spesso assistiamo ad una asimmetria tra il medico e il paziente perché il medico conosce e il malato no e questo è portatore di paura.

Asimmetria necessaria per una definizione e limitazione dei ruoli all‟interno della relazione, ma, con un ascolto attivo, le richieste della signora, in parte implicite e in altre dirette, dovrebbero essere accolte e rielaborate perché chi ascolta non può
limitarsi al solo comportamento ricettivo, ma occorre adoperarsi per un processo di scambio di messaggi con l‟emittente per arrivare ad un miglioramento della qualità della vita del paziente con una riduzione del disagio emotivo, con la chiarezza delle
informazioni e la capacità di assumere un ruolo attivo nonostante la prognosi infausta, riappropriarsi quindi della funzione centrale della consapevolezza, in quanto qualità non esclusivamente intellettuale, ma anche radicata nell’esperienza
emotiva come diceva Rogers.

Rivedendo quella signora dopo qualche tempo per alcuni controlli di routine mi riferisce:
“Un giorno mentre mi stavo lavando
il figlio più piccolo è entrato in bagno,
mi ha guardata ed ha detto
– Anche senza un seno sei bella lo stesso e poi sei la mia mamma -.
Non sono riuscita a trattenere le lacrime e
oggi mi sento molto più tranquilla”.

Credo che la valorizzazione della dignità della persona che intendeva Rogers non sia altro che questo.

di Paola Di Donato

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