Come Curare con l’Etnopsicoterapia

Sogno una psicoterapia compatibile col mondo come sta andando: un mondo aperto, poliglotta, cosmopolita, ricco di esseri che non intendono scomparire. Sogno una psicoterapia che sappia integrare le famiglie, gli esperti, che provengano da professioni “psi” o da altre discipline, le divinità-in particolare quelle degli altri- gli invisibili, gli oggetti terapeutici. Sogno una psicoterapia che accetti di trasformare realmente lo spazio delle sessioni in un luogo di dibattito contraddittorio, come lo è la scena pubblica. Sogno una psicoterapia che includa dei testimoni, degli stranieri, che istituisca dei modi per vigilare e proteggersi dagli abusi. Sogno una psicoterapia che, ammettendo la modernità nella sua complessità, non dimentichi le lezioni della storia, che si ricordi delle comunità di un tempo in cui l’efficacia era valutata dagli utenti..Sogno una psicoterapia che non sia paralizzata davanti alla psicanalisi, che accetti di pensare a delle parole scomparse: “dimenticare” per esempio.., che sappia descrivere la sua operatività in termini di concentrazione”, “conciliazione”, “negoziazione”, e “diplomazia”… una psicoterapia, infine, che non fingerebbe di ignorare che è terapeutica proprio perché è sociale, proprio perché è politica. (Nathan, 2006, pp. 27-28)

Nonostante all’inizio della storia di questo ambito disciplinare e operativo (la seconda metà del secolo scorso) non vi fosse distinzione tra “etnopsichiatria”, “etnopsicoterapia” e “etnopsicoanalisi”, è possibile oggi definire l’etnopsichiatria come l’insieme delle acquisizioni teoriche e pratiche scaturite dall’attrito generato dalla applicazione dei saper-fare psichiatrici, psicologici, psicoterapeutici e psicoanalitici a rappresentanti di culture altre. Questo approccio ha trovato nell’etnopsicoterapia una modalità di intervento non farmacologico che utilizza la parola in setting specifici per rispondere al disagio psichico.

Il punto di partenza dell’etnopsicoterapia è la necessità di adottare un orizzonte plurale, dove diversità che intendono restare tali possono interagire tra loro in pace o in conflitto, cercando i modi per non entrare tra loro in guerra. Non viene privilegiata l’una o l’altra concezione di ciò che chiamiamo psiche, l’una o l’altra via di cura. Il lavoro quindi non è con un singolo ma con un gruppo o con una molteplicità di vie ed interpretazioni; è in questa prospettiva che l’etnopsichiatria si propone di creare un set ed un setting dove possano presentarsi quelli che Coppo chiama “gli invisibili” (psiche, antenati, spiriti..) dell’uno e dell’altro. Questo significa che nel setting vengono accettati garanti che non fanno necessariamente parte del mondo della scienza e del suo metodo e che l’etnopsicoterapia non porta in sé la soluzione ma indica la strada per incontrare le risorse in grado di risolvere il problema. Di suo propone “solo” una visione generale degli umani nel mondo in grado di comprendere vite diverse. Fondamentale è lo spazio di incertezza  che lascia posto alla specifica realtà del paziente e del suo gruppo, sottraendolo all’imposizione autoritaria di una verità e una via di cura istituzionalizzate.

Non si tratta di strumentare il terapeuta col maggior numero di nozioni proveniente dalle varie discipline perché saturi di risposte la domanda portata dal paziente e dal suo gruppo; ma di metterlo in condizione di evocare, o fare parlare, rappresentanti di mondi diversi, in modo che negli interstizi tra alterità in relazione si possa manifestare la possibile via di uscita.  (Coppo, 2013, p. 183)

In questo sta la funzione diplomatica del terapeuta che dovrà poter tollerare la presenza in situazioni, interpretazioni e pratiche altre rispetto a quelli che l’ha formato; sostenuto in questo dalla funzione di mediazione dei mediatori linguistici, culturali o etnoclinici. Si tratterà poi di stabilire, a partire dalle interazioni avviate in situazione, quale dei modelli presenti adottare (provvisoriamente) per cercare di stabilire connessioni tra il funzionamento psichico del paziente e le prescrizioni del terapeuta, in modo che siano accettate e condivise, atte a rendere possibile l’avvio della modificazione dello stato patologico.

George Devereux a proposito dell’etnopsichiatra:

Egli ha anche un altro compito da svolgere, un compito del quale cominciamo appena a prendere coscienza davvero: quello di mettere a punto l’insegnamento e la pratica di una psicoterapia culturalmente neutra, cioè paragonabile alla psicoterapia analitica che è affettivamente neutrale … In breve, abbiamo bisogno soprattutto di un sistema di psicoterapia che non si fondi sul contenuto di una cultura particolare … ma sulla percezione corretta della natura della Cultura come tale: […] psicoterapia metaculturale  (Devereux, 1952, pp. 106-107)

Secondo quanto scritto da Piero Coppo e Leila Pisani in Etnopsichiatria: elementi per un percorso formativo per etnopsicoterapeuti  (2008) gli etnopsicoterapeuti dovrebbero:

  • essere in grado di riconoscere le origini storiche e disciplinari che formano il cuore della cultura di cui fanno parte e che li ha cresciuti, e in particolare delle teorie e pratiche psicoterapeutiche, psicoanalitiche e antropologiche, in modo da divenire capaci di riconoscerne il valore e la specificità;
  • disporre di una conoscenza, anche se in termini generali, dei criteri locali di “normalità” e delle categorie nosologiche locali, e quindi di come si strutturano nei sistemi di cura adottati dai diversi popoli, in modo da poter distinguere tra manifestazioni “normali” e “anormali” del singolo individuo sullo sfondo della sua (e non del terapeuta) cultura d’origine;
  • conoscere gli elementi principali della teoria generale delle culture, per poter giungere al senso e all’uso di categorie e funzioni culturali specifiche, così come si presentano nelle loro declinazioni locali; questo punto è indissolubilmente legato a quello successivo ovvero, essendo impossibile individuare i contenuti specifici di tutte le culture, gli etnoterapeuti devono acquisire i principi fondamentali della contiguità tra psiche individuale e contesto culturale di riferimento, principi fondamentali che dovrebbero fondarsi sul riconoscimento sistematico del significato generale e della variabilità della cultura piuttosto che sulla conoscenza dei contesti specifici. (Devereux, 1951)
  • essere allenati, attraverso l’esposizione a situazioni alloculturali e insieme attraverso un lavoro personale sui propri attaccamenti e determinanti culturali, a controllare il loro controtransfert culturale, con l’obiettivo di acquisire una propria neutralità culturale; posizione che consente una psicoterapia culturalmente neutra. In entopsicoterapia la questione del transfert o del controtransfert non riguarda solo i fantasmi famigliari del paziente o i movimenti affettivi del terapeuta in quanto persone singole, ma anche il movimento affettivo dell’uno e dell’altro verso il mondo che l’altro rappresenta, movimento che occorre saper leggere e controllare. Il paziente può credere in altri dei, avere un’altra idea dei rapporti di genere, non credere alle verità della scienza, può quindi prendere posizioni che mettono in crisi l’identità culturale del terapeuta. Apprendere a lavorare con il proprio controtransfert culturale significa dunque aver preso coscienza dei propri attaccamenti e delle loro radici, ed è questo processo di svelamento a sé di se stesso come soggetto culturale a costituire parte centrale dell’addestramento all’etnopsicoterapia;
  • essere allenati a lavorare con la lingua, principale oggetto culturale attivo dell’altro, anche avvalendosi dell’opera di mediatori linguistici ed etnoclinici; ciò vuol dire, per esempio, prendere atto dell’impossibilità di riferirsi in modo obbligato all’universalità strutturante del complesso di Edipo; e, dal punto di vista pratico, sperimentare altri setting che non siano l’esportazione letterale di quelli classici.
  • essere formati a distinguere, anche attraverso una autoanalisi assistita, tra “identità etnica” come realtà sociale e “personalità etnica” come realtà psichica (in parte cosciente ma in gran parte inconscia, diversificata nelle sue forme in seno a una data cultura per via dell’educazione, degli attaccamenti infantili e dei loro successivi rimaneggiamenti), ciò che consente di tracciare una linea di demarcazione rispetto a eventuali derive culturaliste (dato che è possibile cambiare identità etnica, per esempio convertendosi a un altro sistema religioso; la distinzione tra identità e personalità etnica ha permesso la definizione di inconscio etnico inteso come quella parte di inconscio che una persona ha in comune con la maggior parte dei membri della sua cultura: ogni individuo ne dispone, oltre all’inconscio idiosincrasico.

di Alessia Maccarrone

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