Il Significato di Cervello Plastico: Psicologia e Neuroscienze

Il termine “plasticità” si riferisce solitamente alla capacità di una sostanza di subire trasformazioni rilevanti e stabili nel tempo. Ne deriva che l’impiego scientifico di questo concetto ha trovato una più ovvia collocazione in campi come la fisica e l’ingegneria, allo scopo di descrivere particolari proprietà fisiche e meccaniche concernenti alcuni materiali. Solamente in tempi più recenti il termine “plasticità” ha trovato applicazione anche nel campo anatomico e biologico, per riferirsi alla capacità espressa dal sistema nervoso di modificare la struttura e le proprie funzioni durante la vita, come risultato dell’esposizione a determinate esperienze ambientali. Il concetto di plasticità cerebrale viene utilizzato per riferirsi alle trasformazioni che avvengono a diversi livelli del sistema nervoso: dagli eventi di tipo molecolare, come i cambiamenti nell’espressione genica, al comportamento (Kolb et al., 2010).

 

Il Significato di Cervello Plastico

Attualmente, le forme di plasticità maggiormente conosciute riguardano: la plasticità sinaptica, intesa come la capacità del sistema nervoso di modificare l’intensità delle relazioni interneuronali (sinapsi), di instaurarne di nuove e di eliminarne alcune; la neurogenesi, che implica la nascita e la proliferazione di nuovi neuroni nel cervello e la trasformazione funzionale compensativa, ossia la capacità del cervello di riorganizzare i percorsi neuronali attraverso l’attivazione di circuiti alternativi. A porre le prime basi per quella che diventerà la teoria della plasticità neuronale fu Vincenzo Malacarne (1780), che condusse alcune sperimentazioni con lo scopo di mettere in relazione il meccanismo dell’apprendimento con il tessuto cerebrale.

Attraverso l’impiego di coppie di giovani animali provenienti dalla stessa cucciolata e sottoponendo uno solo di essi ad una sorta di “educazione”, osservò che l’esercizio continuo delle facoltà intellettuali influiva sullo sviluppo di alcune parti del cervello ed in particolare sulle circonvoluzioni cerebrali dell’animale gemello sottoposto ad 8 addestramento, che si espandevano maggiormente rispetto all’altro.

In maniera analoga Charles Darwin (1871) giunse a simili conclusioni osservando il cervello di volume ridotto nel coniglio domestico rispetto a quello degli omologhi selvatici: i primi da numerose generazioni non avevano più esercitato il cervello ed i sensi per adattarsi alle necessità ambientali. Tali osservazioni rappresentavano delle anticipazioni del successivo pensiero neuroscientifico, tuttavia, restavano ancora sconosciuti i meccanismi che stavano alla base della plasticità: la “struttura” del tessuto cerebrale in cui si osservavano modificazioni e la modalità di trasmissione dell’impulso nervoso. All’epoca si contrapponevano in particolare le teorie di due scienziati: Golgi (1891), il principale sostenitore della “teoria reticolare”, il quale ipotizzava il sistema nervoso come un insieme continuo ed ininterrotto di tutti i suoi elementi e Cajal (1909), che all’opposto, era il principale esponente della “teoria del neurone”, la quale sosteneva che i neuroni, separati gli uni dagli altri, potessero comunicare con quelli contigui mediante aree specializzate chiamate “sinapsi”.

Il primo neuroscienziato ad impiegare esplicitamente il termine “plasticità” con un significato molto simile a quello odierno fu Ernesto Lugaro (1906), sostenitore della teoria del neurone, che oltre l’importanza della modificabilità morfologica dello stesso nei meccanismi di apprendimento, intuì anche il ruolo ricoperto dai processi chimici implicati nella trasmissione sinaptica (Berlucchi, 2002). Nel 1948 Jerzy Konorski introduce autorevolmente il concetto di “plasticità neuronale” all’interno del lessico delle neuroscienze. Egli non si limitò a definire il concetto di plasticità neuronale, ma avanzò ipotesi sui meccanismi che la sottendono, che sono da ricercare nella riorganizzazione delle connessioni sinaptiche, una proprietà fondamentale del sistema nervoso degli animali superiori e che può essere considerata il meccanismo comune nei processi di apprendimento, memoria, sviluppo cerebrale e recupero che si osserva in seguito ad una lesione cerebrale (Butchel, 1978).

di Cinzia Governatori

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