Come affrontare il Trauma del Bambino Adottato

adozione_0Ogni trauma si svolge in due tempi: passato-presente e presente-passato. Le origini del trauma nel bambino adottato rimandano agli inizi della sua vita, al periodo in cui l’esposizione al trauma è intensa e violenta segnata da angosce di annientamento e disorientamento.

Il bambino adottato è un bambino danneggiato che sperimenta una frattura nel corso della sua esistenza. La continuità, la stabilità sono due aspetti fondamentali dell’esistenza, in quanto forniscono all’uomo il senso di affidabilità, dell’autonomia; nel momento in cui vengono a mancare subentra uno stravolgimento che lede lo sviluppo e l’evoluzione del soggetto.

Il bambino adottato è un bambino deprivato, che ha subito cure carenti e discontinue, talvolta scarsa stimolazione, malnutrizione, sperimentando un dolore insopportabile che lo porterà a non legarsi, a non sentirsi parte di niente e nessuno, neanche di se stesso. Il bambino in molti casi non percependo su di sé affetto e attenzione risponderà con assenza e disinvestimento ad ogni esperienza. A scuola questi bambini incontrano spesso problemi di apprendimento, in quanto risultano impermeabili ad ogni stimolazione. Può anche verificarsi una difficoltà a ricordare a causa dei traumi passati che inibiscono o danneggiano il ricordo e la capacità di unire emozionalmente le esperienze di vita.

Capita che molti bambini dopo l’adozione mostrino grande capacità di adattamento e svariati interessi, ma poi regrediscono e il loro comportamento appare senza anima, meccanico. Il bambino adottato in alcuni casi è svantaggiato in quanto non accettato da chi lo ha generato, e già nel periodo precedente alla nascita non ha avuto la possibilità di sperimentare l’accoglienza, l’amore e la carica di aspettative di cui è comunemente investito il nascituro.

I bambini deprivati per far fronte a situazioni di sofferenza e angoscia sono costretti ad attivare delle difese distruttive e a introdurre al proprio interno oggetti fragili e deboli che non fanno altro che riprodurre nuovamente l’esperienza di deprivazione. Paradossalmente è più agevole per il bambino misurarsi e confrontarsi con situazioni di distanza affettiva verso le quali ha maturato salde strategie difensive, illudendosi di poterle controllare. Infatti molti dei bambini e ragazzi adottati manifestano disagio quando vivono in un ambiente affettivamente caldo e accogliente, e tendono ad abbandonare essendo stati loro stessi abbandonati.

Un contesto accogliente e amorevole per il bambino o il ragazzo è estremamente faticoso da gestire ed assimilare, perché molto diverso da quello a cui era abituato precedentemente. La nuova condizione emotiva si presenta, perciò, estranea e sconosciuta.

In molti casi si manifestano comportamenti violenti e oppositivi, che rimarcano le modalità dell’abbandono precedentemente subito; in alcuni casi i bambini maltrattati tendono a identificarsi con bisogni sadici e crudeli per avallare ulteriormente la loro convinzione che mette in luce la cattiveria degli adulti. Con i comportamenti violenti, tentano di allontanare da sé angosciosi sentimenti di perdita e in molti casi arrivano a pensare che l’abbandono sia stato determinato dai propri impulsi aggressivi.

Il bambino adottato è un bambino abbandonato perché lasciato in una solitudine non solo propria, ma che raccoglie anche la solitudine del genitore adottivo. Rispetto a quest’ultimo, il bambino si sente straniero perché porta con sé delle caratteristiche, dei legami che non appartengono al nucleo familiare di cui farà parte, così come anche può presentare sentimenti ed emozioni diverse dal sentire comuni del nuovo gruppo familiare.

La storia di Francesco, un ragazzo di vent’anni e adottato all’età di dieci è un chiaro esempio della situazione emotiva che si viene a determinare nella vita di un ragazzino adottato:

“Quando mi metto a confronto con i sentimenti dei miei familiari, sto male, perché li sento estranei; quando mia nonna stava male, i miei cugini soffrivano per lei, io non riuscivo a fare come loro; c’era qualcosa di estraneo, io mi sentivo estraneo, non ero come loro. Guardavo mia madre, lei soffriva per sua madre, ma io non ci riuscivo. C’è qualcosa che appartiene alla carne, ai muscoli al sangue che ti scorre nelle vene che non mi apparteneva; non so esprimere ciò che sento e mi sento anche a disagio ad esprimerlo. Quando lei soffriva mi arrabbiavo. Il suo dolore mi cadeva addosso e mi impressionava; era qualcosa che non mi apparteneva, lei soffriva per sua madre; ma cos’era soffrire per una madre per me? No, non riesco ad essere affettuoso con lei, le sue carezze le accolgo sempre con disagio, non mi appartengono perché fino a dieci anni non le ho avute e non stanno nel mio corpo di bambino. Con mia madre ci sono sempre stati litigi, da lei mi sono sempre sentito giudicato. Il suo parere è estraneo, non sento provenire da noi, me e lei insieme. È difficile dire tutto questo, ma gli anni trascorsi da solo non mi hanno dato le confidenza di per sentirci sulla stessa sponda. Io le voglio bene ma non ce la faccio ad esprimerlo, io mi sento come se percorressi un sentiero che non è il mio, mi sento artificiale, estraneo. Nell’adolescenza io la contraddicevo sempre per definizione, perché sentivo in ogni cosa che diceva che esprimeva un giudizio su di me, anche se ragionavo che non era così; mi ribellavo perché mi era insopportabile essere valutato come un estraneo, ma chi ero io per lei veramente?” (Lucariello, 2008)

Il bambino adottato a causa delle deprivazioni subite, sviluppa il bisogno di recuperare e riprendere atteggiamenti di freddezza emozionale più noti e sicuri per evitare di essere pervasi dal dolore. Inoltre è mancato il contenimento emotivo all’inizio della sua vita, e si ritrova pervaso da emozioni indefinibili e danneggiato nella capacità di conservare pensieri, sentimenti e ricordi. Il bambino adottato ha altrove i propri bisogni, in quanto le sue origini, spesso sconosciute, sono in tutto e per tutto estranee alla sua nuova condizione di vita e alla famiglia che lo accoglierà; viene sentito come nato con l’adozione per cui su di lui si riflettono tutte le aspettative dei genitori adottivi, ma molto spesso, l’adattamento del bambino è un adeguamento al bambino ideale presente nella mente dei genitori adottivi.

Occorre un’ integrazione tra i contenuti della nuova famiglia con il passato del bambino, a cui spesso viene negato il diritto di mantenere il contatto con le proprie origini e con la propria storia. Il bambino adottato non può contare su nessuno che vegli sulla sua storia, che gli garantisca una continuità, il suo destino viene deciso da altri. Quando il bambino entra in un contesto familiare nuovo, soprattutto quando ha altre esperienze di affido alle spalle, perde improvvisamente i riferimenti precedentemente costruiti. Spesso accade che egli non venga informato di quanto gli succederà, dove andrà, ma la preoccupazione di chi si è fino ad allora occupato di lui è legata solo al fatto che è preferibile che vada in una famiglia in cui stia bene e in cui riesca a dimenticare esperienze traumatiche che lo hanno segnato in passato. Il bambino adottato è un abbandonato che abbandona a sua volta, agisce lo stesso dramma che ha subito da spettatore degli eventi, abbandona i posti, le persone conosciute, le abitudini.

Nell’adozione occorre che i futuri genitori siano capaci di rêverie materna, ossia la disponibilità a integrare le proprie fantasie con quelle del bambino, generando un legame affettivo che consenta al bambino di elaborare il lutto legato alla perdita del mondo sconosciuto da cui proviene. Così è possibile costruire una storia comune che mantenga in sé memorie e fantasie sulla storia del bambino, quelle dei genitori sul suo passato reale e quelle che essi avevano quando il bambino esisteva solo nella loro mente. È probabile che così facendo bambino e genitori adottivi possano organizzare e metabolizzare il trauma.[1]

17 Luccarello S., Portato da una cometa, il viaggio dell’adozione, Guida, Napoli 2008

di Federica Visconti

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