Autostima: Come Migliorarla

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Perché è così fondamentale piacere a noi stessi?

Se non si vuole soffrire è opportuno valutarsi positivamente perché molte delle emozioni negative come depressione, solitudine, vergogna sono associate a una bassa autostima. Valutarsi positivamente, quindi, alimenta sempre più la fiducia in se stessi, indispensabile, perché ci offre quella spinta in più per far fronte alle iniziative dove l’esito è ancora incerto. Questa fiducia, deve soprattutto spronarci nelle scommesse sulla propria persona; tale scommessa ci stimola ad abbandonare strade collaudate per andare alla ricerca di strade nuove, a “persistere nei nostri tentativi quando siamo già incorsi in qualche fallimento”. [1]

La Definizione di Autostima

Importante per la storia della psicologia, è stata l’opera di William James pubblicata nel 1890.  L’opera “Principles of Phychology” per decenni venne utilizzata come manuale di studio per gli psicologi nordamericani. William James, filosofo e psicologo statunitense di origine Irlandese così scrive:

“Così il nostro “sentimento di noi stessi” in questo mondo dipende interamente da ciò che ci aspettiamo di essere e fare. Ciò è determinato dal rapporto delle nostre attualità con le nostre supposte potenzialità; una frazione nella quale le nostre pretese sono il denominatore e il numeratore del nostro successo: così, Autostima = Successo / Pretese. Tale frazione può essere aumentata sia diminuendo il denominatore che aumentando il numeratore”.[2]

 

Risulta ormai chiaro, la rilevanza dell’autostima per proiettare un alone positivo sugli schemi di sé specifici di una persona e sui sé possibili.

L’autostima, dunque, cammina di pari passo con l’autovalutazione. È l’insieme dei giudizi complessivi che una persona dà di se stessa; la percezione del proprio valore.  Considerandola una valutazione soggettiva, si basa sulle esperienze, consapevolezze individuali che abbiamo sperimentano nella nostra storia di vita; si parla quindi di un’autopercezione di questa storia.

Al giorno d’oggi, la stragrande maggioranza delle persone si percepisce sempre un gradino più sopra rispetto tutti gli altri individui; tendono ad utilizzare, per autodescriversi, quasi sempre il superlativo relativo.  Il nostro mondo moderno sembra sia diventato come la fittizia Lake Wobegon descritta dall’umorista Garrison Keillor, dove “tutte le donne sono forti, tutti gli uomini sono belli e tutti i bambini hanno un’intelligenza superiore alla media [3]“. Essendo eccessivamente ottimista di poter essere più felice nei confronti della propria vita in futuro, gran parte della popolazione, si forma una convinzione che genera felicità nel presente.

L’autovalutazione soddisfa il necessario bisogno di sapere di che pasta siamo fatti e quanto valiamo e per far sì, che abbia un forte impatto sull’autostima deve selezionare quegli scopi che sono importanti per l’individuo, vale a dire che, ogni persona starà bene quando l’autostima arriverà a livelli eclatanti in quegli ambiti considerati fondamentali per la nostra autostima.

Ma, in base a quale processo, differenziamo gli scopi?

La strategia è molto semplice e consiste di autovalutarsi, prima di stabilire gli scopi importanti e quindi selezionare i nostri talenti e le nostre carenze. Nel caso di autovalutazione positiva, convinciamo noi stessi che lo scopo è importante e ciò comporterà l’innalzamento dell’autostima; se l’autovalutazione risulta negativa attribuiamo allo scopo scarsa rilevanza e di conseguenza evitiamo di far subire alla nostra autostima dei grossi contraccolpi, dunque “questo è davvero un brillante espediente per difendere l’autostima”. [4] È opportuno precisare che, per operazioni selettive di questo genere esistono dei limiti proprio perché, stabilire l’importanza degli scopi non è tutta soggettiva e quindi individuale ma molti degli scopi vengono appresi in uno stadio precoce del processo di socializzazione, quando l’individuo non possiede la capacità di comprendere se è dotato di quei requisiti necessari per soddisfarli. Non potendo del tutto selezionare gli ambiti favorevoli per innalzare la propria autostima, l’individuo tenderà a dare valore supremo alle abilità, qualità in cui riesce meglio disprezzando l’incompetenza di altre attività.

Altra caratteristica principale dell’autostima è la sua mutabilità, in quanto è determinata anche da eventi esterni ma molti esperimenti evidenziano che le persone sono solite a chiamare in causa i fattori esterni quando i profitti si trasformano in perdite. L’attribuire a se stessi il successo e negare ogni responsabilità per l’insuccesso, è uno degli errori (o bias) più potenti di cui abbiano dato prova le persone.

Il fenomeno, appena esplicitato, è incentrato sugli stili attributivi a favore del sé.

In modo analogo, le persone quando spiegano le proprie vittorie, i propri successi, se ne attribuiscono il merito riuscendo a conservare positivamente la propria immagine. Salvaguardare sempre e comunque il proprio sé implica tenere alta l’autostima e risulta meno deprimente imputare rifiuti e insuccessi a qualcosa di esterno, persino al pregiudizio altrui, piuttosto che considerare se stessi immeritevoli.

Adoperando i self-serving bias, la stragrande maggioranza delle persone, percependosi in modo eccessivamente positivo, si considera migliore della media. Ci troviamo dinanzi persone con un buon senso ridotto se consideriamo le parole di un filosofo cinese del VI secolo a.C., Lao-tzu- “L’uomo di buon senso non agisce oltre le proprie possibilità, non spende oltre le proprie possibilità, non sopravvaluta le proprie possibilità”. [5]

Parte dell’esperienza quotidiana si basa sulla tendenza a conferire il merito dei successi che conseguiamo alle nostre capacità e al nostro impegno, scaricando invece gli insuccessi all’esterno.

È consuetudine, considerare, frutto delle nostre ottime qualità e azioni, tutto ciò che di bello ci accade; viceversa, per quelle cattive accusiamo la sfortuna, la difficoltà del compito cautelando così le nostre doti e qualità. È risaputo infatti, che sono sempre meno, se non rare le persone capaci di assumersi le responsabilità delle loro azioni.

Tuttavia, non sempre è possibile liberarsi dal carico della responsabilità e ricondurre i fallimenti a cause esterne. Se proprio siamo costretti ad attribuirci i nostri fallimenti, si preferiscono le cause interne contingenti (stanchezza, indisposizione) piuttosto che far riferimento a quelle più stabili (incapacità, stupidità) e la stessa mancanza di impegno è preferibile alla mancanza di capacità. La mancanza di intelligenza, infatti, è tra le più odiate e pur di evitare questo tipo di attribuzione siamo disposti a giustificarci facendo riferimento a cause permanenti, come ad esempio un handicap fisico o dei problemi emotivi. Per avere le “spalle coperte” e ricondurre il fallimento all’handicap, adottiamo delle cautele preventive: noi stessi diventiamo gli ideatori, gli artefici di condizioni di partenza “svantaggiose” così evitiamo di far quello che più detestiamo: ricondurre il fallimento alla nostra incapacità.

La psicologia sociale, chiama queste strategie preventive, operazioni di Self-handicapping. Tale operazione è molto controproducente dal punto di vista dello specifico successo da conseguire dal momento che il self-handicapping riduce le peculiari probabilità di successo.

L’autostima è più importante di uno specifico successo o fallimento.

Già, nel primo capitolo, abbiamo chiarito l’importanza dei confronti sociali per lo sviluppo del concetto di sé; ugual importanza assumono nella difesa della nostra autostima; il confronto verso il basso (confrontarsi con chi è meno fortunato di noi) fa sì che disgrazie e fallimenti altrui diventino un ottimo appiglio per difendere la nostra autostima. Come si ricorderà, esiste anche la tendenza per i confronti verso l’alto, con persone più fortunate, più competenti di noi; questi confronti non fanno altro che motivarci in una conoscenza di noi più profonda e soprattutto ci fanno apprendere qualcosa in più grazie all’esempio altrui. Viviamo tutto cosi serenamente, solo se la nostra autostima non si sente minacciata; contrariamente ricorriamo a paragonarci con chi sta peggio di noi per confortarci che poi non siamo così tanto male. Noi stessi capiremo, come quando e con chi, confrontarci: tutto dipenderà dal grado di minaccia percepito dall’autostima. Una situazione è avvertita come minacciosa per l’autostima se mette a repentaglio qualche scopo molto importante per l’autostima stessa. Affermando ciò si riesce a capire, almeno in parte, perché le relazioni sentimentali o di amicizia tra persone con aree di competenza distinte, sono più pacifiche, a differenza di quelle persone con aree di competenza simili. Due partner complementari, difatti, difficilmente entreranno in competizione e i sentimenti di invidia e gelosia non gli apparteranno; ciascuno sarà contento per i successi dell’altro o diversamente dispiaciuto per i suoi fallimenti.

Riconosciuta la mutevolezza dell’autostima possiamo classificarla in:

  • Alta e bassa autostima
  • Autostima stabile e autostima instabile
  • Autostima globale e autostima specifica

[1] Miceli M. L’autostima collana “farsi un’idea”, Bologna il Mulino, 1998 pp. 39

[2] James W., Principles of Psycgology, vol 1, Cosimo Classic, 2007, pp. 310

[3] Fenomeno noto il Lake Wobegon Effect- Myers D. G. Psicologia Sociale a cura di Marta E., Lanz M., Milano McGrawHill, 2009, pp. 89

[4] Miceli M, L’autostima, collana “farsi un’idea”, il Mulino Bologna, 1998 pp. 43

[5] Myers D.G- Psicologia Sociale a cura di Elena Marta, Margherita Lanz, Milano, McGraw-Hill, 2009, pp 90

Articolo di Giulia Mucimarra

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