L’Esperimento della Prigione di Philip Zimbardo

psicologia stanford

Philip Zimbardo, è stato l’autore di uno dei più famosi esperimenti realizzati nell’ambito della psicologia sociale; è stato proprio grazie a l’Esperimento di Stanford che la sua fama ha raggiunto l’apice del successo.

Durante il suo corso di Psicologia sociale, Zimbardo ha proposto ad un gruppo di studenti del corso di svolgere e approfondire alcuni argomenti salienti della psicologia sociale. Gli studenti guidati da David Jaffe, anch’egli allievo di Zimbardo, hanno deciso di sperimentare, la sensazione della detenzione; per riuscire nel loro intento, hanno organizzato un fine settimana di reclusione, in una falsa prigione. Quando David e il suo gruppo sono ritornati in aula, hanno riportato la loro esperienza; da qui è scaturito l’interesse di Zimbardo per il tema dell’imprigionamento. Si accorse, che quello che gli studenti avevano sperimentato, meritava di essere approfondito.

Il dott. Zimbardo, insieme ai suoi colleghi, decide così di mettere a punto un disegno sperimentale, con il quale, cerca di interpretare e spiegare “la cattiveria”, il perché le persone buone finiscono con il compiere cattive azioni, addirittura malvagie e perfino demoniache.

Riprodurre la vita carceraria nel seminterrato dell’edificio di Psicologia dell’Università di Stanford, a Palo Alto California, era l’unica soluzione per analizzare le trasformazioni del carattere di natura situazionale.

Con l’aiuto di Carl Prescott, ex detenuto, è stata costruita una vera e propria prigione; il suo contributo è stato utile per ideare molti elementi dell’Esperimento per simulare un equivalente funzionale della detenzione in un vero carcere. Carlo aveva sperimentato, realisticamente, quella che è un’esperienza di reclusione; dopo aver scontato 17 anni era recentemente uscito da soli 4 mesi dal penitenziario di Stato di San Quintino. Il suo intenso vissuto all’interno di un carcere ha permesso di realizzare la prigione composta da: celle per i reclusi, locale per le guardie, spazio comune e cella di isolamento. Nella cella ogni detenuto possedeva una branda con materasso, una coperta, un cuscino e riportava il numero di identificazione. Per impedire la percezione del trascorrere del tempo mancavano finestre e orologi. L’unica fessura nel muro, permetteva alle videocamere di riprendere e di videoregistrare ciò che accadeva tra guardie e prigionieri. E’ stato istallato un impianto di citofoni che oltre a permettere ai ricercatori di ascoltare quanto veniva detto nelle celle, dava loro la possibilità di dare eventuali comunicazioni.

Accurato nei dettagli, l’esperimento può avere inizio.

 

È stata un’inserzione, sul giornale locale, a “reclutare” quelle che sarebbero state, le “cavie” del famoso esperimento del dott. Zimbardo; il compenso di 15 dollari al giorno, per due settimane, motivò più di 100 persone a rispondere all’annuncio. Tutti coloro che risposero all’inserzione sono stati intervistati e sottoposti a test di personalità. Ne sono stati scelti 24: tutti di sesso maschile definiti stabili psicologicamente, senza disabilità fisiche né trascorsi di reclusione. Giovani maschi, intelligenti e di media estrazione sociale. In una seconda selezione tra 24 soggetti, 18 furono coinvolte nel caso mentre i restanti 6 rimasero a disposizione.

Il ruolo che ognuno dei partecipanti era chiamato a svolgere è stato deciso in modo casuale, mediante il lancio di una moneta. Ad una metà di loro, è stato affidato il ruolo di guardie, suddivise in tre turni di otto ore, che una volta terminato, gli permetteva di ritornare alla loro vita normale; agli altri 9 partecipanti era stato assegnato il ruolo di carcerato.

Zimbardo insieme ai suoi collaboratori, hanno meticolosamente condotto l’esperimento curando ogni minimo particolare per far sì che la prigione di Stanford rispecchiasse l’organizzazione abituale delle prigioni dell’epoca.

La prigione doveva essere una sorpresa solo per coloro a cui era stato assegnato il ruolo di prigionieri; quest’ultimi, infatti, dovevano rendersi reperibili a casa propria nel giorno che sarebbe iniziato l’esperimento, una domenica qualsiasi.

Ad essere informati erano invece le guardie che, avendo partecipato a un meeting di orientamento, erano stati istruiti sulla situazione generale della prigione, informati sulle mansioni e avevano predisposto, deliberatamente, le regole necessarie per il mantenimento dell’ordine, ma sempre con l’avvertenza che abusi e punizioni fisiche dovevano essere evitate; si doveva creare un’atmosfera psicologica, un’atmosfera di arbitrarietà.

 

4.1 Luogo, reclutamento e abbigliamento: influenza dei fattori situazionali

 

L’esperimento, vero e proprio, inizia la mattina del 15 agosto, una domenica “sorprendente” tanto quanto “realistica”; grazie alla collaborazione della polizia della città di Palo Alto, Zimbardo riesce a mettere in scena un “vero e proprio arresto di massa per le strade della città”[1].

Ignari di quel che sta per accadere, i prigionieri, prelevati dalle proprie abitazioni dai poliziotti in divisa, sono stati portati alla sede della polizia dove vengono sottoposti a rituali di degradazione verosimili a quelli in uso per gli arresti veri “fotografati e schedati, e poi bendati, denudati, cosparsi di disinfettante, e di nuovo fotografati[2]”.

Ora sono pronti per entrare nella prigione simulata all’interno del dipartimento di psicologia dell’università di Stanford; un camiciotto di cotone con un numero di identificazione sia sul petto che sulla schiena, diviene la loro uniforme da galeotto. Non era concesso nessun indumento intimo, perché così ogni qual volta che si sedevano erano costretti ad assumere pose “femminili”; per nascondere le differenze delle loro capigliature dovevano portare in testa una calza di nylon. Per ricordare di continuo la loro condizione avevano arrotolata intorno alla caviglia una pesante catena: “d’ora in poi non saranno più chiamati per nome, ma con il numero che li “identifica”[3]; difatti proprio il numero subordina l’identità personale di ogni prigioniero.

Le guardie erano le uniche persone ad essere informate di quello che stava per accadere e anche per loro era stata studiata una particolare immagine pubblica: indossavano una divisa, avevano un fischietto da poliziotto attorno al collo, e non mancava il manganello. Tutti indossavano degli occhiali a specchio, in modo da occultare lo sguardo.

Oltre al potere delle regole, trattate successivamente, e dei ruoli, le forze situazionali affermano il proprio potere grazie all’adozione di uniformi, o comunque sia grazie a tutti i travestimenti che favoriscono l’anonimato e riducono la consapevolezza personale. Non a caso infatti, nell’Esperimento di Stanford, i due gruppi avevano uniformi diverse ma identiche all’interno di ogni gruppo: solo così si potevano promuovere sentimenti di anonimia, diminuire il senso di individualità e aumentare l’identità di gruppo. Erano proprio le uniformi a conferire alle guardie un’identità comune, e quindi quest’ultime erano indotte più facilmente a comportarsi in modi antisociali. Quando, infatti si agisce in un ambiente che trasmette anonimato i fattori di responsabilità sociale dell’attore si riducono: viene eliminato il pensiero del giudizio sociale, in quanto “nessuno sa chi sono davvero” e quindi non prendendosi cura del giudizio altrui, si elimina anche l’approvazione sociale.

Il fattore ‘gruppo’, difatti è fondamentale: in esso l’individuo, in questo contesto le guardie, si sentono protetti, deresponsabilizzato, fino a perdere, talora, la propria identità e ad assumere un ‘io’ collettivo responsabilizzando il ricercatore.

Le persone possono diventare malvagie quando si creano quelle situazioni che bloccano, sospendono o distorcono i controlli cognitivi che normalmente guidano il comportamento secondo modalità socialmente desiderabili e personalmente accettabili. La sospensione del controllo cognitivo, difatti ha molteplici conseguenze, fra cui la sospensione di coscienza, senso di responsabilità personale e moralità.

 

La parte più lunga e più intensa dell’esperimento prende avvio con la lettura delle “regole” che sanciscono il comportamento, dei reclusi, nelle due settimane successive. Vengono lette lentamente e articolate con chiarezza in modo da poter esser chiare per tutti i detenuti.

Le diciassette regole sono:

  1. Deve regnare il silenzio soprattutto durante i periodi di riposo, durante i pasti e ogniqualvolta si trovino fuori dal cortile;
  2. Si deve mangiare solo all’ora dei pasti e si deve finire tutto il pasto;
  3. Tutte le attività della prigione devono coinvolgere tutti i detenuti, nessuno escluso;
  4. I prigionieri devono sempre pulire la propria cella: letti rifatti e pavimenti immacolati;
  5. Assolutamente vietato spostare, deturpare o danneggiare pareti, finestre e qualsiasi proprietà della prigione;
  6. Accendere o spegnere la luce in cella non è competenza dei detenuti;
  7. Nessun nome dovrà riecheggiare all’interno della prigione: i detenuti devono rivolgersi l’uno all’altro solo con il numero di matricola;
  8. I detenuti devono sempre rivolgersi alle guardie chiamandole “signor agente penitenziario”;
  9. La situazione che stanno vivendo non deve mai essere chiamata ne pensata in termini di “esperimento” o “simulazione”: sono reclusi fino al loro rilascio
  10. Solo 5 i minuti che sono concessi per i servizi igienici e anche lì saranno controllati dalle guardie;
  11. Assolutamente vietato fumare nelle celle: quello che era un vizio, nella realtà esterna, è divenuto un privilegio.
  12. Tutte le lettere in arrivo o in partenza saranno sempre controllate e se necessario sottoposte a censura;
  13. I detenuti potranno incontrare un visitatore all’ingresso del cortile ma non saranno mai lasciati soli dal momento che la guardia oltre a sorvegliare potrà porre fine alla visita a sua discrezione;
  14. Alzarsi in piedi ogniqualvolta entrino nell’edificio il Direttore, il sovrintendente della prigione o qualunque altro visitatore;
  15. Anche gli ordini seguono una loro gerarchia: l’ordine di una guardia annulla qualunque ordine scritto. Gli ordini sia scritti sia quelli della guardia si annullano per privilegiare l’ordine del Direttore. Gli ordini del sovrintendente della prigione sono supremi;
  16. I detenuti hanno l’obbligo di riferire alle guardie ogni violazione delle regole;
  17. Il mancato rispetto di qualunque regola, precedentemente elencata, è severamente punita.

La lettura di queste direttive, evidenzia l’estremo piacere delle guardie di pensare seriamente a questo luogo come una vera e propria comunità carceraria; per vivere armoniosamente i detenuti devono dimostrare un appropriato ravvedimento, comportarsi bene e onorare le regole stabilite da persone ragionevoli, almeno così si reputavano le guardie.

I detenuti, contrariamente delle guardie, non hanno provato emozioni altrettanto piacevoli, in quanto è risultato abbastanza difficile sottomettersi a tale complesso di norme, soprattutto se vige la tesi dell’innata dignità umana.

Tale principio della sacralità della dignità umana, ha determinato, anticipatamente, la fine dell’Esperimento che è durato solo 6 giorni.

L’esperimento non si è concluso solo per questo motivo; infatti due sono state considerate le moventi precipitanti che hanno stabilito l’anticipata conclusione:

  • L’escalation, alquanto eccessiva delle aggressioni sia fisiche che psichiche perpetrate dalle guardie nei confronti dei prigionieri: dalle videoregistrazione si è evidenziata la “scelleratezza” di tali abusi “talvolta cosi simili a modelli nazisti”[4];
  • La presa di posizione assunta da Christina Maslach, psicologa inserita nello staff dei ricercatori[5] ha messo in discussione l’esperimento dal punto di vista etico. Occorre chiarire che, tale affermazione è solo in parte vera. L’etica può essere definita sia “assoluta” che “relativa”.

In termini assoluti l’Esperimento Carcerario di Stanford non può essere definito etico: difatti uno standard etico assoluto postula che, “essendo la vita umana sacra, non la si deve in alcun modo svilire, nemmeno involontariamente”[6]. Non esiste alcuna giustificazione nemmeno nel caso della ricerca, neanche per gli esperimenti soprattutto se, quest’ultimi provocano sofferenza umana. Non sono assolutamente, da definire etiche, quelle azioni che causano sofferenza, anche se compiute in nome della scienza: dose di sofferenza degli esseri umani, nell’Esperimento di Zimbardo c’è ne stata ben tanta, causando stress e disturbo emotivo cosi estremo nei prigionieri. La sofferenza d’altronde, non ha risparmiato nessuno dei partecipanti: anche le guardie, quando si sono rese conto di ciò che avevano fatto, si sono sentite angosciate: tolti gli occhiali scuri, hanno potuto vedere e percepire l’umiliazione causata a persone che sicuramente, non avevano fatto nulla di male per meritare simile crudeltà.

Gli sperimentatori stessi, hanno contribuito a non rendere etico l’esperimento, dal momento che, notando i disturbi di estrema gravità, hanno preferito non interromperlo: erano desiderosi di salvaguardare, a tutti i costi, l’integrità e la stabilità del loro carcere, soprattutto Zimbardo che, oltre ad essere il responsabile della ricerca ricoprì anche il ruolo di sovrintendente penitenziario. Stabilendo una chiusura anticipata dell’Esperimento, Christina Maslach ha fatto notare al Dott. Zimbardo che l’esperimento era riuscito sin troppo bene nel creare alcune delle peggiori condizioni delle vare carceri ma la situazione disumana, al suo interno, riporta, solo ed esclusivamente risultati ottenuti a prezzo di sofferenze.

Contrariamente, alla prospettiva dell’etica assoluta, uno standard etico relativo ammette applicazioni contingenti, vale a dire che si possono utilizzare inganni, stimoli emotivi o altre situazioni di condizionamento basta che, l’eventuale impatto negativo, di tali procedure sia transitorio e non permanga oltre i limiti dell’esperimento. Adottando tale visione il nostro esperimento si è conformato a un modello di questo genere. Qui assume importanza la dichiarazione di “consenso informato”[7], nella quale era stata, chiaramente specificata, un’intrusione della privacy di ognuno dei partecipanti che comportava per i detenuti, una dieta appena adeguata e la “perdita” di alcuni diritti civili. Tale contratto, doveva onorarsi, per due settimane al meglio delle loro capacità.

La dimostrazione che ha confermato come etico l’Esperimento Carcerario di Stanford, è stata data dal “process debriefing”[8] ; difatti, anche dopo la fine dell’Esperimento, il Dott.Zimbardo si è interessato ai pensieri, alle emozioni di coloro che avevano partecipato all’esperimento. Difatti, grazie alle lunghe sessioni di debriefing i partecipanti hanno potuto esprimere esplicitamente ciò che avevano provato intensamente durante i giorni dell’Esperimento; lo scopo era finalizzato per comprendere di più quel “anomalo” comportamento in un contesto nuovo ed estraneo. La fase di debriefing, era stata necessaria per stabilire, in coloro che avevano partecipato all’Esperimento, una condizione emotiva più equilibrata, simile a quella   che avevano presentato all’inizio della ricerca. Ciò, è stato possibile grazie alla loro solida base psicologica e personale, alla quale sono tranquillamente ri-tornati una volta conclusa la ricerca: infatti non a caso erano stati accuratamente selezionati come idonei all’Esperimento perché erano sia normali che sani.

I partecipanti, hanno apportato risultati positivi con il process debriefing, perché consapevoli che sia il periodo, sia il contesto che i travestimenti dell’Esperimento Carcerario di Stanford dovevano fare parte di uno script[9] da lasciare alle spalle, senza “rievocarlo” nel futuro una volta terminata la loro avventura nella prigione simulata.  Indispensabile dunque è stato il debriefing, perché tramite esso sono immerse quelle caratteristiche salienti della situazione che li aveva influenzati; solo cosi, guardie e detenuti si sono riusciti a liberare, non sola da quella colpa che li aveva condannati come essere brutali, capaci di azioni malvagi ma ha trovato per loro  una giustificazione a quel comportamento crudele.

Si può concludere, che le forze situazionali, con le quali, sia guardie che detenuti, si sono costantemente scontrati nel contesto della “prigione simulata”, hanno contribuito in maniera rilevante sullo sviluppo di patologie.

All’inizio dell’esperimento non c’erano differenze tra i due gruppi e dopo poche settimane della fine dell’esperimento non vi erano più somiglianze.

 

4.2 Significati emersi dall’Esperimento

 

“L’esperimento si è rivelato un’efficace illustrazione del ruolo potenzialmente tossico dei cattivi sistemi e delle cattive situazioni nell’indurre brave persone a comportarsi in modi patologici, estranei alla loro natura”[10]; considerata da sempre salda, ora la frontiera tra bene e male si è invece dimostrata piuttosto permeabile; la linea tra bene e male è così definita da Zimbardo “quite permeable”.

Nonostante non si è trattato di un “vero carcere”, si sono rilevati quei tratti psicologici essenziali della detenzione; mediante vari controlli sperimentali è stato possibile trarre conclusioni, che non sarebbero emerse in contesti del mondo reale.

La nostra natura può essere modificata, sia verso il lato buono, innocente, sia verso quello cattivo, perverso.

L’essere umano, per sua natura, tende ad essere illuso di non essere “mostro” e vive con la stessa illusione che mai e poi mai potrà esserlo; sicuri della nostra piena umanità, viviamo con la certezza che non potrebbe capitarci di frequentare la follia del male.

Nascondendosi dietro a preconcetti egocentrici che ingenerano l’illusione di essere speciali, egoisticamente confermiamo la nostra superiorità, sempre al di sopra della media in quei test di personalità.  La maggior parte di noi conosce se stesso, o meglio pensa di conoscersi, basandosi sulle proprie limitate esperienze nelle situazioni abituali, nelle quali, regole, leggi e linee di condotta sono considerate script.

I “self-serving bias”, falsando la conoscenza di noi stessi, ci permettono di   mantenere e migliorare l’autostima ma gli stessi bias basati sulla percezione illusoria di essere sempre e comunque fantastici, possono causare problemi di adattamento: non a caso, modificando la percezione di quello che siamo veramente, ci impediscono di assumere quella prospettiva di vedere quanto siamo simili agli altri. Non si riesce dunque, ad assumere la consapevolezza che proprio tutti gli individui, possono comportarsi male in certe situazione nefaste. Considerando sempre la nostra persona al di sopra della media, non si prendono per niente in considerazione le precauzioni elementari che sono essenziali se si vogliono evitare quelle conseguenze indesiderate del nostro comportamento anomalo. Questo estremo giudizio positivo della nostra personalità inibisce la razionalità che, giustamente si basa sull’assunto che nessun essere vivente al mondo può considerarsi forte e immune a certe cose, a certi cambiamenti e comportamenti.

Pensando in questi termini assoluti positivi della propria personalità, i partecipanti dell’Esperimento Carcerario sono stati considerati più bestie che uomini: nessun essere vivente al mondo si sarebbe potuto comportare in quel modo brutale, nessun uomo avrebbe potuto fare tali atrocità ad un altro uomo. Considerandosi delle buone persone, si pecca di presunzione quando si pensa di non poter mai fare del male, cose cattive; non a caso proprio gran parte del male è commesso da gente convinta di fare del bene.

 “L’occasione fa l’uomo ladro”[11].

La convinzione di essere “l’eccezione alla regola”, oltre ad essere statisticamente irragionevole, in quanto è meglio ricordare che la maggior parte di noi sta nella media, non fà altro che rendere le persone, sempre più vulnerabili alle forze situazionali, perché si finisce con il sottovalutare il potere di tale forze situazionali, sopravvalutando eccessivamente, noi stessi.

Solo riconoscendosi come un unico volume appartenente allo stesso libro e scritto da un unico autore, ci permetterà ad ammettere la nostra vulnerabilità alle forze situazionali; l’umiltà, difatti, prendendo il sopravvento sull’orgoglio ingiustificato ci aiuterà a tollerare l’idea ragionevole, di essere tutti soggetti, in egual quantità, alle stesse forze dinamiche della condizione umana.

Qualunque atto commesso da qualunque essere umano, per quanto orrendo sia, può commetterlo chiunque di noi, nelle circostanze situazionali giuste o sbagliate.

Le situazioni contano.

Le persone difatti, non a caso, sono continuamente in uno stato di interazione dinamica con le situazioni. Il ritenere di possedere una personalità stabile nel tempo e nello spazio, è pura illusione dal momento che, il carattere della persona e la stessa personalità possono essere trasformate dal fatto di ritrovarsi in situazioni che scatenano potenti forze.

Non è sufficiente, considerare semplicemente le disposizioni individuali e situazionali per comprendere quei schemi comportamentali complessi, ma è rilevante prendere in considerazione i “sistemi” di potere.

Riprendo in considerazione, ciò che abbiamo argomentato nel terzo capitolo, i sistemi di potere creano, non solo gerarchie di dominio, ma generano e modellano le condizioni situazionali ed essendo tali sistemi di ordine superiore, esercitano un pervasivo dominio dall’alto verso il basso. Non a caso, per definire il comportamento di individui che esercitano professioni di pubblico servizio, quali poliziotti, soldati e agenti penitenziari, utilizziamo vocaboli come aberrante, illegale o immorale; addirittura li collochiamo da una parte della frontiera stagna tra male e bene, considerandole come alcune mele marce e quindi contrapposte dalla parte occupata da mele buone. Ma come già sappiamo non esiste alcuna ripartizione tra bene e male, perché, soprattutto dopo l’esperimento del Dott. Zimbardo, abbiamo definito tale barriera “quite permeable”.

Tale “permeabilità” non viene accettata dai guardiani del sistema, che vogliono isolare il problema per distogliere l’attenzione e la colpa di chi sta al vertice, che considerati i veri responsabili, oltre a creare condizioni di lavoro insostenibili, non esercitano una corretta sorveglianza. È “l’élite del potere”, definiti i fabbricanti di cesti che agisce dietro le quinte; loro sono gli artefici che predispongono gran parte delle condizioni di vita per tutti noi, nei vari contesti situazionali; noi dobbiamo solo attenerci alle loro decisioni.

E’ proprio il Sistema ad includere la situazione; sono i Sistemi che, nel corso del tempo finiscono per avere un fondamento storico e una struttura di potere che governa e orienta il comportamento di quelle molteplici persone che rientrano nella sua sfera di influenza. Le situazioni non fanno altro che, essere manipolate dai Sistemi, considerati come macchine che creano i contesti situazionali che influenzano l’agire umano di quanti sono sotto il controllo.

Ne guardie ne detenuti potevano essere pensati o definiti come “mele marce” prima di quella simulazione carceraria; c’è da dire che lo sono diventati dove aver subito cosi gravemente l’impatto di ritrovarsi in un “cattivo cesto” contenente ruoli, regole, norme, anonimato e processi di deumanizzazione.

Proprio le regole imposte ai detenuti, esplicitate sopra, rappresentano il contributo del Sistema mirato alla creazione di un complesso di condizioni situazionali che avrebbero sfidato quei valori, atteggiamenti e caratteristiche di personalità che ogni partecipante, aveva messo in gioco nel contesto eccezionale dell’esperimento.

Sicuramente la Situazione ha tirato fuori il peggio di quei volontari trasformandoli alcuni in perpetratori di male e altri in vittime, ma non solo: ad essere “trasformato” è stato anche il Dott.Zimbardo che nonostante adulto e ricercatore esperto, ricordava la sua infanzia trascorsa per strada e la sua capacità già da ragazzo del Bronx, di capire al volo le situazioni e immaginare scenari di azione per sopravvivere nel ghetto. Possiamo dire, di essere in presenza di un self-serving bias errato, dal momento che è bastata solo una settimana per trasformare questo adulto con nota esperienza concreta, in una figura d’autorità da sempre odiata: caporione autoritario arrogante. Si, perché questo era diventato: quell’astrazione in carne e ossa. Il duplice ruolo di ricercatore e di sovrintendente, aveva prodotto una confusione di identità: ritrovarsi in una Situazione crudele, sconosciuta e nuova, all’interno di un potente Sistema, non permette a qualsiasi individuo di mantenere stabile e intatta la propria personalità, anzi risulterebbe alquanto difficile riconoscere la stessa e solita immagine se la si vede riflessa in uno specchio di ciò che si è diventati. È cosa del tutto rara non ricredersi sul proprio potere interiore, sul nostro senso personale di facoltà d’azione (agency) quando ci ritroviamo dinanzi forze situazionali esterne come quelle che operavano nell’esperimento Carcerario di Stanford.

Quanto detto è ciò che accade all’interno della “prigione simulata”: dopo meno di tre giorni in questa strana situazione le persone che impersonano le guardie si sono spinte ampiamente oltre la pura recitazione di un ruolo. Hanno interiorizzato la mentalità tipica di alcune autentiche guardie carcerarie bloccando deliberatamente quei sentimenti di simpatia e rispetto per coloro che erano considerati detenuti: interiorizzando difatti, ostilità e atteggiamenti negativi, hanno incominciato a trattarli anche verbalmente parlando, nel modo più freddo e duro possibile.

L’incremento dell’autorità fa dimenticare che si tratta solo di un esperimento: la spersonalizzazione dei detenuti oltre a comportare il progressivo aumento della deumanizzazione ha fatto sì che le guardie si facessero condizionare dal loro ruolo. Cosi riferisce una guardia a proposito: “mentre diventavo sempre più rabbioso, non mi ponevo più domande su questo comportamento. Non potendo permettere che la cosa mi influenzasse, ho incominciato a nascondermi sempre più dietro al mio ruolo. Era l’unico modo per non soffrire. Non riuscivo a controllare ciò che stava accadendo, ma non mi passava neppure per la testa di rinunciare”[12].

È stata la noia dei tediosi turni di otto ore ha indurre le guardie a distrarsi usando i detenuti come diversivo; d’altro canto risultava più eccitante il dominare che negoziare. L’autorità regola, le regole sono l’autorità; la norma evangelica di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse stato a te, vale per gli altri, no per noi stessi: infatti raramente, prima di compiere qualsiasi azione pensiamo al precetto religioso.

Si può dedurre che il gioco di ruolo è diventato interiorizzazione del ruolo: i caratteri e le identità dei ruoli immaginari sono stati appieno assunti dagli attori.

Anche per i detenuti avviene tale interiorizzazione del ruolo. La maggior parte di essi sembra aver completamente accettato le premesse della situazione; si sono ormai calati con riluttanza, ma alla fine con condiscendenza, nel proprio ruolo altamente strutturato. Recitano il proprio ruolo applicando il metodo Stanislavskij: “continuano a recitare il proprio ruolo anche quando sono lontani dal palcoscenico o dalla macchina da presa, e il ruolo ha finito per corrodere la loro identità”[13].

Designando se stessi con il numero di matricola rispondono immediatamente a quelle domande, il più delle volte ridicole, basate sulla loro identità anonima, per esempio quelle relative alla natura dei loro reati.

Subire una perdita di identità personale, un continuo controllo arbitrario del proprio comportamento ha prodotto una sindrome di passività, dipendenza e depressione che possiamo considerarla “impotenza appresa”.

Il concetto di impotenza appresa nasce dagli studi effettuati sugli animali da parte del ricercatore Martin Seligman che successivamente ha notato alcune somiglianze di impotenza appresa anche in situazioni che coinvolgono le persone. I cani, cosi come gli esseri umani, quando sperimentano eventi negativi sui quali non hanno alcun controllo imparano a sentirsi impotenti e rassegnati.

Proprio per questo i detenuti sono diventati irrazionalmente obbedienti a qualsiasi richiesta delle guardie e cedevano sempre più ai capricci del crescente potere degli agenti.

[1] David G. Myers- a cura di Elena Marta, Margherita Lanz, McGraw-Hill, marzo 2009, Milano pp. 48

 

[2] Philip Zimbardo- Effetto Lucifero cattivi si diventa? – Raffaello Cortina editore, collana diretta da Giulio Giorello, titolo originale: “The Lucifer Effect. How Good People turn evil” 2007 Philip Zimbardo traduzione di Margherita Botto; prefazione all’edizione italiana di Roberto Escobar-Milano prima edizione 2008- pp. 13

 

[3] Philip Zimbardo- Effetto Lucifero Cattivi si diventa? – Raffaello Cortina editore, collana diretta da Giulio Giorello, titolo originale: “The Lucifer Effect. How Good People turn evil” 2007 Philip Zimbardo traduzione di Margherita Botto; prefazione all’edizione italiana di Roberto Escobar-Milano prima edizione 2008- pp. 8

 

[4] Philip Zimbardo- Effetto Lucifero Cattivi si diventa? – Raffaello cortina editore, collana diretta da Giulio Giorello, titolo originale: “The Lucifer Effect. How Good People turn evil” 2007 Philip Zimbardo traduzione di Margherita Botto; prefazione all’edizione italiana di Roberto Escobar-Milano prima edizione 2008 pp. 14

 

[5] Per condurre alcune interviste alle guardie e prigionieri.

 

[6] Philip Zimbardo- Effetto Lucifero Cattivi si diventa? – Raffaello cortina editore, collana diretta da Giulio Giorello, titolo originale: “The Lucifer Effect. How Good People turn evil” 2007 Philip Zimbardo traduzione di Margherita Botto; prefazione all’edizione italiana di Roberto Escobar-Milano prima edizione 2008- pp. 352

 

[7] Contratto firmato, prima dell’esperimento, dai partecipanti. In questo contratto c’erano riportate tutte le informazioni sulla ricerca, i servizi garantiti, e non garantiti, per il periodo dell’esperimento e il pagamento pattuito

[8] Intervento psicologico-clinico, condotto da uno psicologo esperto che si effettua dopo un avvenimento, considerato potenzialmente traumatico. Il suo scopo è quello di eliminare o alleviare le conseguenze emotive spesso originate da questo tipo di esperienze

[9] “copione” che si basa sulla nostra conoscenza di certi eventi che si ripetono sempre uguali.

[10] Philip Zimbardo- Effetto Lucifero Cattivi si diventa? – Raffaello Cortina editore, collana diretta da Giulio Giorello, titolo originale: “The Lucifer Effect. How Good People turn evil” 2007 Philip Zimbardo traduzione di Margherita Botto; prefazione all’edizione italiana di Roberto Escobar-Milano prima edizione 2008-  pp. 293

 

[11] Meglio tardi che… Mario di Antonella Sciocchetti, editore Geva 2006 pp. 58

[12] Parole di Vandy – guardia dal potere dominante – op.cit. pp. 127

[13] Philip Zimbardo- Effetto Lucifero Cattivi si diventa? – Raffaello Cortina editore, collana diretta da Giulio Giorello, titolo originale: “The Lucifer Effect. How Good People turn evil” 2007 Philip Zimbardo traduzione di Margherita Botto; prefazione all’edizione italiana di Roberto Escobar-Milano prima edizione 2008- pp. 214

di Giulia Mucimarra

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