La Psicologia del Male

philip-zimbardo-male
La Deumanizzazione: la negazione dell’umanità dell’altro

Quando erroneamente riteniamo gli altri come diversi da noi, quindi che non abbiano i nostri stessi sentimenti, pensieri, valori, non facciamo altro che attenuare il processo psicologico della deumanizzazione, una delle cose peggiori che possiamo fare ad altri essere umani: privarli della loro umanità rendendoli privi di valori. Proprio nel carcere è immersa tale malvagità; tramite meccanismi psicologici di intellettualizzazione, di rifiuto e l’isolamento dell’emozione ogni qualità umana del detenuto è stata sminuita per poi cancellarla del tutto. Tra guardie e detenuti si sono istaurate le presunte relazioni deumanizzate che sono oggettivizzanti, analitiche e prive di contenuto emotivo o empatico. Sono l’opposto di quelle relazioni umane, caratterizzate da soggettività, personalità ed emozione. Utilizzando i termini di Martin Buber, “le relazioni umanizzate sono “io-tu”, mentre quelle deumanizzate sono “io-ciò”[1]. La relazione “io- ciò” si può considerare mutabile perché col tempo, l’agente deumanizzante risucchiato dalla negatività dell’esperienza, cambia l’io istituendo una relazione “ciò-ciò” fra oggetti, o fra chi agisce e la vittima.  L’esperimento Carcerario di Stanford ha creato un’ecologia della deumanizzazione in egual modo di come avviene nelle vere prigionie; tutto è incominciato con la perdita della libertà, per passare alla perdita della privacy e della propria identità personale. La loro normale realtà è stata sostituita con un’altra ben diversa che li costringeva a vivere in una cella anonima senza uno spazio personale.

Il detenuto rinchiuso non è più pienamente umano, ma considerato infetto.

Nel secondo capitolo, parlando dell’autostima, abbiamo evidenziato l’importanza del giudizio altrui per la nostra personalità e per incrementare sempre più anche l’autoefficacia. È “Cosi forte”, il nostro fondamentale bisogno di approvazione sociale[2] tanto da indurci a conformarci persino ai comportamenti più assurdi, per noi, ma giudicati positivamente per gli estranei che ci circondano. Non è detto che perché lo consideriamo “bisogno fondamentale” significa che una volta ottenuto ci appaga facendoci provare l’ebbrezza della perfezione; difatti, in base ai casi può assumere prospettive positive tanto quanto negative.

Tenendo in considerazione il nostro contesto, possiamo percepire come il fondamentale bisogno umano di appartenenza viene dal desiderio di stare con gli altri, di cooperare e di accettare le norme del gruppo. Fin qui, non c’è niente di preoccupante, anzi il bisogno di appartenenza è da ammirare dal momento che pur di evitare l’isolamento sociale siamo disposti a tutto. Tuttavia, l’esperimento carcerario di Stanford mostra che, lo stesso bisogno di appartenenza può anche essere pervertito in eccessivo conformismo, acquiescenza e ostilità fra ingroup e outgroup vale a dire che tendiamo esclusivamente di valorizzare in modo eccessivo il proprio gruppo di appartenenza disprezzando quello degli altri.

 

Tale pervertimento dell’umana perfettibilità prende di mira i seguenti bisogni:

a.      Bisogno di coerenza e razionalità: apparentemente dà alla nostra vita una direzione sana e saggia eppure, nel caso dei detenuti, obblighi dissonanti li hanno costretti a razionalizzare decisioni sbagliate: restare in carcere quando avrebbero dovuto rinunciare; nel caso delle guardie: giustificare i propri abusi.

b.      Bisogno di conoscere e comprendere il nostro ambiente e il nostro rapporto con esso ci conduce alla curiosità: l’ambiente più arbitrario e capriccioso è, più corrompe il bisogno di sapere e intendere per far spazio alla frustrazione e all’autoisolamento.

c.      Bisogno di stimoli: ci motiva all’esplorazione di posti, situazioni nuove e all’assunzione di rischi avventurosi; ma se ci ritroviamo in un contesto stabile, la noia, come già abbiamo spiegato sopra, ci motiverà ad agire per far sì che il tempo passi più velocemente.

d.       Bisogno di più coesione per rispettare i ruoli istituzionali; si parla di una coesione che passa per il rispetto dei ruoli istituzionali che deve essere accompagnata da un impegno straordinario anche davanti a crisi e tensioni. Difatti, il ruolo conferito alle guardie, di mantenere l’ordine rispettando le regole da loro imposte, ha evidenziato drammatici cambiamenti in tutti gli aspetti del loro comportamento, pensiero e sentire. Le guardie tiranniche provavano piacere per il potere da loro esercitato ed erano diventate anche molto creative nel trovare metodi umilianti che ulteriormente sottomettevano i prigionieri; d’altronde l’agire in modo crudele ha aumentato la loro autostima diventata dipendente dal rispetto del ruolo del gruppo di appartenenza. Ad ogni ruolo sono associate aspettative diverse: il bisogno di dover rispettare il proprio ruolo, contrariamente delle guardie, aveva reso i prigionieri come robot disumanizzati.

È Il potere del sistema ha definire le norme, implicite o esplicite che prescrivono come agire; è lo stesso potere ad assegnare  i ruoli cui gli individui devono attenersi supportandoli e legittimandoli dal punto di vista delle risorse e dell’ideologia delle regole dell’agire.

e.      Bisogno di allentamento o rimozione della responsabilità individuale, vale a dire il comportamento eteronomico o eterodiretto che si ottiene quanto l’individuo interpreta il suo agire non come suo ma come diretto dalle norme a lui esterne, imposte dalla situazione o dalla struttura gerarchica nella quale si trova inserito.

f.        Il bisogno di diffondere la responsabilità: il venire meno del dovere di intervenire dinanzi a una emergenza. Consapevoli della presenza di altri “soccorritori”, in questo caso del Dott.Zimbardo, le guardie dividono, con lui, la propria responsabilità che li conduce alla totale indifferenza nei confronti di quell’angoscia comprovata dai detenuti.

g.      Bisogno di arricchire la consapevolezza della propria autoefficacia.

Per comprendere meglio questo ultimo bisogno, dobbiamo fare riferimento al costrutto di autoefficacia, elaborato da Albert Bandura ampiamente elaborato nel nostro secondo capitolo.

Bandura parla di autoefficacia riferendosi alle aspettative che una persona ha di padroneggiare con successo alcune situazioni; difatti la convinzione del Dott. Zimbardo, o meglio la sua consapevolezza era basata sull’estrema fiducia in se stesso di poter essere all’altezza di affrontare, assolvere e nonché risolvere specifiche situazioni per poter dimostrare l’alchimia delle trasformazioni del carattere ottenuta da un complesso di variabili situazionali in un ambiente carcerario. Conferma di tali tesi è stata data, da guardie e detenuti i partecipanti dell’esperimento Carcerario di Stanford; hanno potuto sperimentare come le caratteristiche esterne di un contesto istituzionale prevalgono sui fattori disposizionali. È facile riconoscere il proprio senso di sé se basato sulle esperienze quotidiane di quelle situazioni abituali che implicano leggi e linee di condotta cogenti; ma il problema sorge quando si presentano situazioni del tutto nuove e quindi sconosciute. La percezione della propria autoefficacia delle guardie e dei detenuti, nonostante l’ambiente inesplorato, ha influenzato gli obiettivi da raggiungere e i rischi, correlati per realizzarli: infatti maggiore è il senso della propria autoefficacia percepita, più elevati sono gli obiettivi da pervenire e tanto più intensi diventano gli sforzi.

Dopo aver esplorato le debolezze, le fragilità e le trasformazioni del carattere umano possiamo concludere considerando il male, un esercizio del potere imposto sugli altri in una situazione in cui non ci sente responsabili delle proprie azioni.

Le azioni mostruose sono il risultato di quello che Zimbardo chiama Effetto Lucifero, protagonista della metamorfosi da principe degli angeli a genio del male assoluto.

L’interazione tra tre differenti fattori determina l’effetto Lucifero: possiamo affermare che il singolo individuo, si fa trasformare dalla situazione nella quale si trova inserito. Questa interazione disposizionale e situazionale si fa influenzare dal sistema sociale che definendo norme esplicite, prescriva il come agire di ogni singolo individuo fornendogli i ruoli precisi a cui gli individui devono attenersi.

I risultati ottenuti dall’esperimento carcerario di Stanford, sottolineano il peso del sistema nel determinare l’effetto Lucifero. Le situazioni creano le mele marce e La condizione di normalizzazione della violenza e la deumanizzazione dell’altro e di se stessi.

Cattivi sistemi, d’altronde non possono che creare cattive situazioni, pertanto i cattivi comportamento non si possono considerare il risultato dell’agire delle mele marce.

Si può giungere alla conclusione che individui buoni possono commettere azioni malvagie ma la causa da cui dipendono certi comportamenti maligni si deve ricercare nelle “variabili situazionali” e non nella disposizione delle persone. Riconosciuta la permeabilità della barriera del bene e del male, non esistono persone tutte buone contrapposte a persone tutte cattive. La natura umana è estremamente flessibile.

Tutto dipende dalle variabili situazionali che si sperimentano.

[1] Raimon Panikkar., Mito, Simbolo, Culto. Mistero ed Ermeneutica tomo 1, 2008, Milano, Jaca Book, pp. 331

[2]  Il bisogno di essere accettati, di piacere, di essere rispettati

di Giulia Mucimarra

Scrivi a Igor Vitale