La Psicoterapia Cambia l’attività del Cervello

 

Diverse ricerche sperimentali hanno indagato gli effetti biologici nei pazienti con disturbi d’ansia successivi a trattamenti cognitivo-comportamentali o psicofarmacologici. Ad aprire questo nuovo filone di ricerca è probabilmente l’articolo di Baxter e collaboratori
del 1992, in cui vengono descritte le modificazioni metaboliche cerebrali in pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) attraverso l’utilizzo della tomografia a emissione di positroni (PET). Il DOC è caratterizzato da ossessioni e compulsioni ricorrenti,
sufficientemente gravi da causare disagio marcato o menomazione significativa.

Cosa sono le ossessioni?

Le ossessioni riguardano idee, pensieri, impulsi o immagini persistenti, vissute in maniera egodistonica e che il soggetto cerca solitamente di ignorare o di neutralizzare tramite altri pensieri o azioni; le compulsioni sono comportamenti ripetitivi o azioni mentali il cui
scopo è quello di prevenire o ridurre l’ansia o il disagio.

Come la psicoterapia migliora l’attività del cervello in caso di Disturbo Ossessivo Compulsivo?

Questo primo studio è stato effettuato in due gruppi composti complessivamente da 18 pazienti, di cui uno sottoposto a trattamento psicofarmacologico con fluoxetina, un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (SSRI) e l’altro a terapia comportamentale a base di tecniche di esposizione e prevenzione della risposta. Dopo la conclusione del trattamento, nei pazienti trattati sia farmacologicamente che con psicoterapia, i cambiamenti in percentuale dei sintomi correlavano in modo significativo
con la riduzione del metabolismo del glucosio in ambedue i gruppi. In particolare, i risultati hanno mostrato che entrambe le terapie usate generano un decremento significativo del consumo locale di glucosio a livello della testa del nucleo caudato destro, sia nei pazienti sottoposti a trattamento farmacologico che in quelli trattati con psicoterapia, in contrapposizione all’aumento metabolico solitamente riscontrato nei pazienti prima del trattamento (Rauch et al.,1994), oltre a una riduzione nella correlazione del metabolismo tra nucleo caudato destro e quello della corteccia orbitofrontale, del giro del cingolo e del talamo.

Dalla lettura dei risultati emersi da questo studio, la modificazione neurofunzionale osservata produrrebbe una riduzione della relazione funzionale patologica tra le aree cerebrali della corteccia orbitofrontale, i gangli della base e il talamo, alla base dei sintomi clinici caratterizzanti il DOC.

 

Bisogna però aggiungere che l’ipotesi dell’iperattivazione cerebrale viene sostenuta da alcuni autori ma disapprovata da altri, i
quali considerano alla base del disturbo non tanto un’iperattività delle aree cerebrali citate, quanto piuttosto una incapacità a spegnerla (Hinds et al., 2012). Nonostante l’esistenza di queste ipotesi in parte discordanti, l’aspetto interessante rimane l’osservazione dell’esistenza di un vero e proprio circuito cerebrale alla base di tale disturbo, capace di attivarsi intensamente durante le manifestazioni ossessive. Tale
risultati si integrano inoltre pienamente con l’ipotesi neurochimica alla base dell’utilizzo del farmaco antidepressivo suggerente, che manifesta un ruolo interattivo all’interno del sistema serotoninergico: tali strutture cerebrali, che collegano la parte frontale del cervello con strutture più profonde, utilizzano infatti come messaggero chimico la serotonina.

Lo studio di Neuroimaging di Schwartz

Attraverso la stessa metodica di neuroimaging, il gruppo di ricerca condotto da Schwartz, ha valutato 9 soggetti con diagnosi di DOC prima e dopo un trattamento di dieci settimane con terapia cognitivo-comportamentale (Schwartz et al., 1996).

La psicoterapia è stata condotta con l’obiettivo di fornire una modalità più funzionale nella gestione dei pensieri intrusivi che costituiscono il cuore della patologia, favorendo nei pazienti una rivalutazione cognitiva di tali pensieri come sintomi del proprio disturbo
cerebrale, aumentando la presa di coscienza della possibilità di poter compiere una scelta critica nella reazione che segue a questi pensieri, insegnando tecniche capaci di creare una maggiore distanza tra l’esperienza soggettiva e quella dei sintomi della patologia, così da diminuire il bisogno di controllarli tramite i comportamenti compulsivi (Greeson, 2009).

Le rilevanti correlazioni dell’attività cerebrale nell’emisfero destro, in particolare tra la corteccia della circonvoluzione orbitofrontale e la testa del nucleo caudato e tra la corteccia del giro orbitario e il talamo identificate nelle acquisizioni PET prima della psicoterapia, sono significativamente diminuite nei pazienti che hanno risposto al trattamento, confermando i dati dello studio descritto precedentemente.

L’efficacia del metodo con pazienti resistenti al farmaco

Yamanishi e colleghi (2009), hanno invece tentato di indagare gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale in un campione di quarantacinque pazienti resistenti al trattamento farmacologico con un antidepressivo SSRI, combinando l’utilizzo della SPECT, capace di misurare l’attività metabolica regionale a livello cerebrale, con l’elevata risoluzione spaziale della MRI, in modo da ottenere una localizzazione più precisa dell’attività cerebrale misurata dalla metodica nucleare. Anche in questo caso, i pazienti che hanno risposto con successo al trattamento psicoterapeutico hanno mostrato un significativo decremento, a sinistra, dell’attività nella corteccia prefrontale mediale e a destra in quella orbitofrontale e nella corteccia frontale inferiore.

Considerando che i pazienti reclutati in questo studio erano tutti resistenti agli SSRI, dal confronto con i pazienti che hanno risposto positivamente alla terapia ne è emerso che il miglioramento dei sintomi correla significativamente con l’iperattivazione della corteccia
orbitofrontale sinistra osservata prima del trattamento. Difatti, i soggetti trattati con SSRI avevano mostrato un ipometabolismo in quest’area, correlata con la risposta clinica al trattamento farmacologico (Rauch et al., 2002) facendo ipotizzare che l’iperattivazione
della corteccia orbitofrontale fosse coinvolta nella mancata risposta al trattamento con i farmaci. In tal senso, lo studio del metabolismo di quest’area cerebrale potrebbe fornire un valido contributo nella scelta del tipo di trattamento da consigliare nel DOC.

Dall’insieme dei risultati ottenuti, si potrebbe sostenere che l’eccesso di legame nel funzionamento di alcune aree cerebrali sia strettamente correlato al disturbo clinico e in particolare, che la normalizzazione del funzionamento del nucleo caudato, rendendo più indipendente la corteccia orbitofrontale, dei gangli della base e del talamo, costituisca la chiave della risoluzione della sintomatologia, ottenibile sia con la tecnica psicoterapeutica che con somministrazione farmacologica (Porto et al., 2009).

di Cinzia Governatori

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