Cosa succede nel cervello quando entri in empatia

cervello empatia
I moderni studi sulle basi neurali dell’empatia potrebbero aiutare a chiarire i meccanismi patogenetici sottostanti ad un ampio spettro di disturbi neuropsichiatrici ed aiutare nello sviluppo di adeguate tecniche di intervento terapeutico.

Per empatia si intende, secondo la definizione dello psicoterapeuta Carl Rogers “la percezione del sistema interiore di un altro individuo con l’accuratezza e le componenti emotive e di significato che gli appartengono come se uno fosse la persona in oggetto, ma tuttavia senza mai perdere la condizione del come se”.

L’empatia implica dunque l’entrare in sintonia con l’altro, l’immedesimarsi nel suo stato d’animo mediante/grazie l’attivazione del sistema dei neuroni specchio.

L’empatia si differenzia dalla teoria della mente o mentalizzazione, che, denota la capacità di una persona di rappresentarsi cognitivamente gli stati mentali degli altri, compresi i loro stati affettivi, senza necessariamente esserne/diventare emotivamente coinvolti. Il termine empatia denota invece la capacità di condividere i sentimenti degli altri.

Gli studi hanno suggerito l’ipotesi di una forte sovrapposizione tra le regioni cerebrali che rispondono alle esperienze di dolore in prima persona e la percezione del dolore negli altri, ipotesi che oggigiorno ha ricevuto una sempre maggiore validazione a seguito di risultati simili riportati da diversi gruppi di ricerca.

A differenza dell’aspetto di imitazione e di contagio emotivo legato all’empatia, la capacità di mentalizzazione si sviluppa più tardi, in seguito alla maturazione delle funzioni esecutive superiori legate allo sviluppo della corteccia associativa prefrontale che continua a maturare dalla nascita all’adolescenza.

La capacità di assumere la prospettiva dell’altro ci permette di superare il nostro abituale egocentrismo, di adattare i nostri comportamenti alle aspettative degli altri e quindi rendere soddisfacenti le relazioni interpersonali.[1]

La mancanza di empatia è l’aspetto che caratterizza ed accomuna i disturbi di personalità inclusi nel cluster B, tra cui il disturbo borderline, che si caratterizza anche per la disregolazione emotiva, ossia l’incapacità dell’individuo di reagire in maniera adeguata alle situazioni o ai contesti sociali e interpersonali, e in modo efficace rispetto agli obiettivi che intende perseguire.

Di fronte ad eventi stressanti, il grado di vulnerabilità di ciascun individuo all’esposizione a tali eventi, determina il grado di ripercussione degli eventi stessi sulla sua salute mentale.

Gli studi sulla regolazione e disregolazione emotiva spiegano tale variabilità individuale.

La conoscenza del funzionamento dei processi di regolazione delle emozioni implica il riferimento al requisito essenziale della flessibilità emotiva e comportamentale, che la stessa definizione di regolazione richiama e che facilita l’adattamento dell’individuo ai contesti e agli eventi della vita. Tale flessibilità è il portato di condizioni, capacità e processi diversi, a cui in caso di assenza o carenza possono corrispondere differenti modi di espressione della disregolazione, che è correlata ad una maggiore rigidità e ad una minore capacità adattiva. Si è più flessibili quando non si è dominati da un unico stato emotivo, ma si dispone invece di un repertorio vario ed ampio e si è capaci di accedervi, per cui l’individuo non ha difficoltà a percepire, vivere, esprimere emozioni diverse. l’individuo può essere dominato in maniera sproporzionata da una particolare emozione ignorandone altre, e trovarsi così in una condizione di fissità che se perdurante e invasiva può facilmente condurre a processi disregolatori .Ad esempio è più facile che si riescano a superare esperienze traumatiche se si è in grado di uscire dallo stato emotivo intenso e pervasivo da esse provocato e non si rimane in una condizione di fissità emotiva che può accompagnarsi ad azioni e pensieri ricorrenti e generalizzati, diversamente da ciò che può accadere ad un giovane che in famiglia ha subìto maltrattamenti e rimane fermo nelle sue reazioni emotive – di rabbia, paura, delusione –. Questa fissità può portarlo a coltivare idee ricorrenti di azioni vendicative verso gli adulti e ad evitare anche interazioni affettive positive, precludendosi così esperienze relazionali che potrebbero aiutarlo ad affrontare la sofferenza.

Si è più flessibili anche quando si è in grado di attivare l’emozione considerata tipica e appropriata ad una determinata situazione. In caso contrario, l’individuo non si sintonizza con il contesto e le sue regole, ed esprime stati emotivi dissonanti rispetto a ciò che sarebbe adeguato e comunemente ci si aspetterebbe in quella occasione. La flessibilità si può esprimere pure come passaggio graduale da uno stato emozionale all’altro. Ancora, si è più flessibili quando si riesce a modulare l’intensità e la durata delle emozioni di fronte ad un evento scatenante, in modo da non esserne dominati.

Dal punto di vista interpersonale e collettivo questa modulazione risulta particolarmente importante per le emozioni negative, per evitare che diventino distruttive o che compromettano la capacità di mettere in atto soluzioni socialmente accettabili, come in casi estremi si verifica in diversi delitti passionali, anche premeditati, quando emozioni come la rabbia, la gelosia, l’umiliazione, la vergogna sono vissute con tale intensità, e a volte durata, da offuscare la valutazione di soluzioni effettive e realistiche. Si può ricorrere così ad azioni violente che scaricano una tensione emotiva mal dominata, di fatto non affrontando il problema. La condizione di equilibrio tra l’ipo e l’ipercontrollo dell’intensità emotiva che caratterizza i processi regolatori non è statica, ma dinamica e può avere vari gradi di efficacia. La capacità di controllo è ottimale quando la persona è in grado sia di attivare che di contenere l’emozione, tenendo conto della situazione; infatti, ciò che è adeguato in un contesto, potrebbe risultare disadattivo in un altro.

Tra i fattori importanti per comprendere i processi regolatori, vi è l’ambiente, in riferimento alla qualità sia delle relazioni significative e della rete sociale, sia al tipo delle esperienze di vita stressanti.

La qualità delle relazioni significative è fondamentale dai primi momenti di vita, in quanto il bambino ancora non dotato di capacità autoregolatorie ha inizialmente bisogno di essere etero regolato. Lo sviluppo delle capacità autoregolatorie può avvenire se la crescita si verifica in un contesto interattivo che promuove le emozioni positive (gioia, sorpresa, curiosità), aiuta la codifica dei segnali emotivi interni fornendo una denominazione alle espressioni comportamentali (per esempio, la madre chiede al bambino corrucciato, se è arrabbiato) e facilita l’espressione delle emozioni. In questo percorso, dunque, come ampiamente sottolineato dagli studiosi che si ricollegano alla teoria dell’attaccamento di Bowlby, hanno un ruolo importante le figure significative di riferimento (caregiver) e la possibilità di avere con loro esperienze affettive basate sull’ascolto e sulla capacità e attitudine ad accettare e sintonizzarsi con gli stati emotivi del bambino. Se ciò non si verifica, si può andare incontro a difficoltà nel riconoscere i propri vissuti emotivi e/o a controllarne le espressioni in modo adattivo alle situazioni e ai contesti di vita, a maggior ragione quando i bambini vivono in famiglie conflittuali e contesti maltrattanti. Sebbene le prime esperienze vissute in famiglia lasciano una traccia fondamentale che può influenzare anche i successivi processi di adattamento, anche altri contesti sociali di vita possono svolgere un ruolo importante nella regolazione delle emozioni.

Infatti, la possibilità di sperimentare diversi modi di stare e di interagire con gli altri, specie con i coetanei, può fin dai primi anni di vita agevolare l’acquisizione di regole sociali implicite su quali emozioni esprimere, in che modo e con chi. Questi apprendimenti hanno ripercussioni anche sullo sviluppo e la ricchezza delle competenze emotivo sociali dell’individuo, in quanto l’attitudine a regolare le proprie emozioni facilita l’ascolto di se stessi e degli altri e l’attuazione di comportamenti adeguati. Al contrario, la difficoltà di regolazione delle emozioni sembra essere alla base di problemi comportamentali come aggressività, violenza, delinquenza, abusi, sia in adolescenza, sia in età adulta nei confronti dei partners. In vari casi è inoltre percepita come indizio di scarsa capacità empatica, che appare un significativo predittore di bullismo; mentre risulta che i giovani che sanno empatizzare riescono più facilmente a stabilire e mantenere rapporti di amicizia con i coetanei, a manifestare comportamenti prosociali e altruistici, evitando quelli aggressivi

Insieme alle esperienze relazionali basilari, ad aumentare il rischio di andare incontro a una condizione di disregolazione emotiva possono intervenire eventi traumatici vissuti nel corso dello sviluppo. Tuttavia, per capire i possibili impatti individuali dell’evento traumatico è essenziale considerare l’interrelazione complessa delle varie risorse in campo – personali, sociali, relazionali –, attivabili per fronteggiare l’evento. A tale interrelazione si associa la variabilità individuale osservabile nelle reazioni allo stress, come anche evidenziato da quell’ampia area di ricerca che ha approfondito il tema delle strategie di coping, che per alcuni autori si intersecano in maniera più o meno ampia alle strategie di regolazione delle emozioni.

basti ricordare come sia emersa l’implicazione di varie aree cerebrali (fra cui l’amigdala e le regioni prefrontali coinvolte nel controllo cognitivo) e come vi siano differenze nell’attivazione corticale in relazione al temperamento (caratteristiche bio-psicologiche della persona), alla fase del ciclo di vita e alla psicopatologia. Ad esempio, approfondendo in una prospettiva evolutiva le differenze individuali nell’asimmetria della attivazione frontale, è stata riscontrata una loro presenza fin dal primo anno di vita e queste differenze sembrano predire la reattività personale a successivi eventi stressanti. Anche a proposito dei disturbi psicopatologici sono state rilevate alterazioni della normale attività corticale, come nella depressione e nell’ansia; e lesioni o disfunzioni in specifiche aree cerebrali implicate nella regolazione delle emozioni, come nel Disturbo Borderline di Personalità (BPD). [2]

I processi di regolazione e disregolazione emotiva concorrono a spiegare e determinare la plasticità cerebrale, intesa come risposta adattativa a stimolazioni-sollecitazioni che porta alla riorganizzazione dei circuiti nervosi e migliora le funzioni (psichiche).

Sulla base della plasticità il cervello è potenziato dall’esperienza, è capace di apprendere, ricordare e rigenerare dopo le lesioni.

Le basi anatomiche che si accompagnano alle modificazioni plastiche del cervello sono:

  • aumento di ramificazioni neuronali
  • incremento di sinapsi
  • formazione di nuovi circuiti neuronali
  • neurogenesi

La plasticità cerebrale è la potenzialità del cervello di variare funzione e struttura non solo durante il suo periodo di sviluppo, ma anche durante la vita adulta. Durante lo sviluppo avviene principalmente una selezione di circuiti neuronali con l’eliminazione di altri, all’inizio ugualmente probabili. Ciò avviene su base genetica e su segnali interni (attività elettrica neuronale e fattori neurotrofici);  il numero di neuroni viene drasticamente ridotto per morte neuronale; successivamente rimane sostanzialmente stabile, mentre gli alberi dendritici, le terminazioni assoniche e le loro connessioni possono subire ancora variazioni. Sia nel sistema nervoso periferico sia in quello centrale, inoltre, sono state descritte variazioni spontanee dei contatti sinaptici. Ogni processo di apprendimento e ogni stato di pensiero, implicano a livello strutturale o funzionale una variazione di qualche circuito nervoso. L’espressione di uso quotidiano «cambiare idea» ha un suo corrispondente neurobiologico ben preciso, e significa «cambiare il proprio cervello». Le variazioni dei circuiti nervosi riguardano anche la “resilienza”. Con questo termine si indica la capacità di un individuo di far fronte al normale stress della vita e riprendersi dai problemi. La riuscita dell’elaborazione di eventi di vita traumatici si può apprendere ed è considerata un processo dinamico, una capacità, che si può anche perdere nuovamente. Gli studi su persone apparentemente mentalmente resistenti e su animali da laboratorio rivelano un quadro ancora più chiaro di ciò che avviene nel cervello e anche nella periferia dell’organismo. Non sempre lo stress è un veleno per il corpo e l’anima. Analogamente allo sport, lo stress acuto stimola il sistema nervoso centrale ad affrontare una minaccia e cercare un modo appropriato per farlo. Se la minaccia, tuttavia, diventa un pericolo continuo, l’”essere costantemente in guardia” modifica i meccanismi di regolazione cerebrali. La tensione costante procura quindi non solo problemi psicologici, ma aumenta il rischio di disturbi del sistema cardiovascolare.

Lo stress cronico porta nel lungo periodo alla depressione e al burnout. Sia ippocampo, sia amigdala possiedono un numero considerevole di recettori del cortisolo ad alta affinità, che reagiscono rapidamente allo stress acuto. I recettori corrispondenti nel lobo frontale, il nostro strumento per la pianificazione e le reazioni controllate, hanno un’affinità genericamente minore. Entrano in azione solo dopo che la prima grossa ondata di reazione allo stress attraverso il cortisolo nell’ippocampo e nell’amigdala è decaduta. Con questi due tipi di recettori, il cervello crea una sorta di tampone. Fino ad un certo livello di stress, gli stimoli attivano i memorizzatori che faciliteranno la reazione la volta successiva. Da lì in poi – in presenza di tensione costante – sono infine occupati anche i recettori a bassa affinità e la memoria non riesce più ad utilizzare questa sovrastrimolazione.  Lo stress a breve termine costringe le cellule staminali neurali a fornire neuroni aggiuntivi, pronti per l’uso nel giro di due settimane – nel caso in cui ritornino gli psico-attacchi.

Lo stress cronico non solo riduce la formazione di nuove cellule nervose, ma sopprime anche il collegamento delle fibre nervose e taglia l’albero dendritico dei neuroni. In caso di costante carico elevato, il complesso sistema di controllo dello stress è compromesso. Con un ippocampo contratto e un’amigdala crescente, la centrale di comando dell’organismo non riesce più a stimare l’entità della minaccia in modo corretto: nei pazienti fobici, tutto diventa una minaccia, in caso di burnout e depressione, la reazione ricade nel medesimo rischio. Sembra che gli eventi stressanti della vita si riflettano nell’espressione di determinati geni , sotto forma di diversa metilazione di specifici segmenti di DNA. Nei topi accuditi dalla proprie madri, i recettori per la gestione dello stress nell’ippocampo sono molto meno metilati rispetto agli animali della stessa specie con madri surrogato. La loro risposta allo stress è quindi molto più lenta. Questa osservazione è vera non solo per gli animali a quattro zampe. Risultati recenti mostrano che lungo tutto l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) i processi di metilazione contribuiscono a modellare la risposta allo stress e alle successive distribuzioni ormonali. Il totale evitamento di qualunque tipo di stress non fa bene allo sviluppo e al comportamento sociale. Ciò che rende le persone resilienti è da ricondurre ai geni. Coloro che, come gli animali da laboratorio sanno adattarsi ad un ambiente in rapida evoluzione, mostrano probabilmente un altro modello epigenetico nei centri di gestione dello stress del proprio cervello. Il neurobiologo Eric Nestler della Mount Sinai School of Medicine spera di riconoscerli dai tipici schemi di metilazione dei recettori ormonali. In ogni caso, non sembra esserci alcuna proprietà innata per natura, bensì un tratto caratteriale che nel corso della vita può cambiare sempre.

La resilienza del cervello rispetto al danno cerebrale è descritta in termini di “riserva cognitiva”.

[1] Silani G., Emozioni sociali. Le basi neurofisiologiche dell’empatia e del comportamento di aiuto, in Rivista internazionale di filosofia e psicologia, 2013

[2] Puddu L, Raffagnino L.,  Regolazione e disregolazione emotiva: apporti conoscitivi e applicativi per la psicologia forense, Psicologia e Giustizia, Università degli studi di Firenze, 2013

di Alessandra Serio

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