psicologia delle tossicodipendenze

Come funzionano le Comunità per Tossicodipendenti (definizione)

 

Quando si parla di comunità definendole terapeutiche ci si riferisce proprio alla terapia medica, cioè a quel ramo della medicina che mira alla guarigione dalle patologie attraverso modi e tecniche predisposte per il caso particolare. Ecco, allora, che sottoporsi ad una terapia significa cercare la strada per la guarigione, attraverso il ritorno ad una situazione di assenza della causa patogena.

A partire dall’entrata in vigore della legge n. 65 del 1975 la tossicodipendenza veniva considerata, per la prima volta nel nostro paese, una vera e propria patologia e i relativi casi affidati ai classici circuiti degli ambulatori e degli ospedali.

Il fenomeno della tossicodipendenza viene considerato alla stregua di un vero e proprio disturbo psicologico. In particolare, la dipendenza è quel meccanismo legato ai bisogni più intimi di un soggetto che prevede il ritorno all’utilizzo di una certa sostanza fino a farne una sorta di stile di vita, a discapito di altri interessi e della coltivazione dei propri rapporti affettivi[1].

Rispetto al classico metodo medico, le strutture terapeutiche hanno sviluppato la propria attività tralasciando la mera somministrazione di sostanze farmaceutiche sostitutive; nonostante ciò, è stata mantenuto il termine terapeutico perché, in ogni caso, è da riconoscersi la natura della tossicodipendenza come patologia e la loro attività si basa su una metodologia, la terapia appunto, che promuova un processo di cambiamento del soggetto.

Il carattere della terapia adottata di volta in volta è dato dagli elementi professionali insiti nel percorso stesso, dalle modalità di cura adottate e dalla distinzione operativa esistente tra operatori sanitari e soggetti ospitati.

Uno studio risalente al 1982 e riconducibile al Gruppo Abele ha preso in esame le varie modalità poste in essere dalle strutture, arrivando alla distinzione fondamentale tra comunità terapeutiche e non[2].

Nel corso del tempo vi è stata spesso una riluttanza da parte delle strutture all’utilizzo del termine terapeutico, nella convinzione che la stessa terapia rimandasse ad un qualche concetto istituzionalizzato; in sostanza, questo riferimento ad un fenomeno normativo veniva rifiutato dalle stesse comunità, che quindi non volevano essere definite come terapeutiche.

In realtà, anche la classificazione effettuata da Abate parte dalla identificazione delle comunità definite terapeutiche rispetto a quelle non terapeutiche; anzi, nel suo approccio, ritiene fondamentale questa distinzione perché mette in luce la concezione di fondo di una struttura[3].

Infatti, vi saranno da un lato operatori che riterranno fondamentale offrire al soggetto ospite un ausilio di tipo terapeutico, e dall’altro vi sarà la visione di chi reputa essenziale la condivisione emotiva del patimento del soggetto.

Secondo Cancrini anche quelle strutture che rifiutano per sé l’appellativo di terapeutiche, in realtà includono dei fini che sono essenzialmente terapeutici sia nella teoria che li definisce, sia nella concezione di tossicodipendenza e cause connesse. In virtù di ciò, Cancrini ritiene si possano definire queste comunità come terapeutiche in maniera implicita, contrapponendole a quelle terapeutiche in modo esplicito, riferendosi a quelle che si riconoscono come tali[4].

In entrambi i casi, comunque, il soggetto in difficoltà viene accolto e sostenuto nella ricerca di un proprio personale percorso di vita che ricalchi effettivamente la sua indole e la sua personalità; in sostanza, si cerca chiaramente ed in modo esplicito di determinare un positivo stravolgimento nella vita di coloro che entrano in comunità.

In realtà, secondo Cagossi le differenze tra le comunità terapeutiche e quelle non terapeutiche si starebbero sfumando, soprattutto dal punto di vista dell’organizzazione.

Si riconosce unanimemente che ogni percorso terapeutico si articola in varie fasi e che la sua durata è legata a diversi fattori e, quindi, non prevedibile a priori; sono cadute ormai le riserve rispetto l’intervento di figure professionali, il cui ruolo è ritenuto rilevante nella rielaborazione della propria sofferenza e del proprio percorso in comunità.

Il raggiungimento degli obiettivi legati alla terapia non si verifica secondo un caso fortuito, ma segue precisi meccanismi e tappe predisposti anticipatamente; si può dunque ritenere che ogni comunità che abbia una sua identità di funzioni e che sia dotata di una certa struttura, riunisca in sé elementi terapeutici e non, in base ai fini connessi alla specifica fase che si affronta e anche tenendo conto delle qualità del lavoro che il gruppo pone in essere e delle caratteristiche personali del soggetto interessato[5].

Ovviamente non si deve guardare alla esperienza in comunità in un modo meramente schematico e, anzi, si deve riconoscere che ogni struttura pone in essere un intento rieducativo, a volte esplicito a volte implicito.

In ogni caso, il tempo vissuto in comunità può essere ritenuto a tutti gli effetti terapia; Cagossi definisce, infatti, la terapia come l’esperienza delimitata temporalmente, nata in virtù di una richiesta di sostegno e fondata su un rapporto fiduciario tra operatore e soggetto in difficoltà.

La comunità terapeutica nel suo complesso rappresenta un ambiente tipico per la terapia, grazie alla presenza dell’elemento della convivenza e della condivisione del quotidiano fra soggetti che vi fanno parte.

Certamente possono esservi diverse tipologie di strutture, ma in tutte vi è la concezione di uno spazio di confronto in cui gli ospiti organizzano dal punto di vista pratico la condivisione di questa esperienza e maturano un approccio emotivo, insieme al superamento di eventuali conflitti personali.

Sugarman si è occupato dell’analisi relativa al processo della terapia adottata rispettivamente nelle strutture terapeutiche di tipo democratico e quelle, invece, di tipo gerarchico[6].

Gli elementi comuni od ogni esperienza terapeutica sono senz’altro rappresentati dall’adozione di regole e limitazioni nelle condotte dei soggetti ospiti e dalla previsione di una sorta di punizione che può andare da un mero richiamo fino all’espulsione del soggetto dalla struttura.

Ma veniamo alle differenze. Nelle comunità terapeutiche di tipo democratico sono solitamente previste determinate regole che sono state formulate in via collaborativa attraverso un processo a cui partecipa il gruppo. Nelle comunità di tipo gerarchico, invece, è previsto che vengano rispettate le regole prestabilite su cui il gruppo non ha alcuna possibilità di intervenire.

Ovviamente tutte le strutture terapeutiche si devono fondare su una organizzazione interna e su delle regole di convivenza che tutto il gruppo deve rispettare. Le regole perseguono essenzialmente lo scopo di garantire la pacifica convivenza e la possibilità che il programma di lavoro venga rispettato, associando a ciascuno un proprio specifico ruolo.

Ma questo non è tutto. Le regole assolvono anche ad un ruolo di metodo vero e proprio.

Infatti, la previsione di un regolamento chiaro e l’associazione di sanzioni predefinite che corrispondano ad eventuali inosservanze, ha come effetto anche quello di provocare un controllo di ciascun soggetto verso i propri compagni. Anche questo meccanismo è regolamentato perché lasciarlo alla libera iniziativa del gruppo porterebbe a dei rischi di abusi che non sarebbero di certo nello spirito della comunità[7].

Dunque, un sistema di controllo reciproco dovrà avvenire secondo le regole dettate dagli operatori, che predisporranno un vero e proprio sistema basato anche sulla attribuzione di premi rispetto a comportamenti virtuosi.

Si capisce bene che anche una funzione di questo tipo è fondamentalmente basata sulla concezione e sul modo di vivere del gruppo; Cagossi rileva delle importanti differenze fra comunità rispetto alla idea di gruppo.

In alcune tale concetto è considerato un banco di prova e di raffronto, in cui si applica la funzione terapeutica sul piano del cambiamento del proprio io; in altre comunità, invece, nel gruppo è fortemente inteso un senso di appartenenza e in ciascun soggetto è presente l’effetto di identificarsi con esso, intendendolo anche come strumento di mediazione tra la propria persona e il mondo esterno.

Il meccanismo psicologico che vede un soggetto aderire alle norme comportamentali previste in una comunità reca con sé una modifica del proprio modo di comportarsi; ovviamente, soprattutto inizialmente, questa influenza e adesione è meramente formale perché dettata dalle condizioni ambientali della comunità e smetterebbe immediatamente di essere se il soggetto cambiasse ambiente[8].

In ogni caso, anche questa funzione per certi versi fittizia ha un’importanza fondamentale visto che getta le basi perché con il tempo possa attuarsi un autentico processo di maturazione personale.

La vita in comunità si basa sul concetto di aiuto fra residenti; l’idea di mutuo soccorso si esplica sia nel sostegno reciproco nel cercare di superare i conflitti personali, sia nella disponibilità a ben accogliere i nuovi ospiti.

In questa esperienza di aiuto e disponibilità reciproci è racchiusa una fondamentale prova di accettazione e comprensione dell’altro e un meccanismo di confronto con la realtà esterna che deriva dal riconoscersi nelle sofferenze dell’altro.

Ad esempio, rientra nel meccanismo di sostegno reciproco la pratica di confrontarsi attraverso il racconto ad uno dei soggetti del gruppo di come i suoi comportamenti vengano recepiti e tradotti all’esterno, per avere un riscontro diretto delle proprie azioni.

Questa particolare analisi è importante nel tentativo di elaborare e poi superare eventuali difficoltà di comunicazione, che sono spesso frequenti nel confronto fra soggetti che partono da una condizione di forte difficoltà.

Ecco allora che le norme comportamentali assolvono anche ad una funzione di esternazione dei propri sentimenti, oltre che di controllo fine a sé stesso. Il soggetto che entra in comunità, nella maggior parte dei casi, avrà alle spalle esperienze di grossi conflitti personali con i propri affetti e allora la rieducazione alla corretta espressione del proprio sentire è fondamentale nel percorso di cambiamento di ciascuno[9].

Altra funzione importantissima della terapia è quella di offrire validi esempi in cui il soggetto possa identificarsi e beneficiare della spinta propulsiva di un certo percorso positivo; questo è il motivo per cui molte strutture prevedono al loro interno la presenza di ex tossicodipendenti che con la loro esperienza rappresentino la prova concreta che un vero cambiamento ed una rinascita sono possibili[10].

In molte comunità è centrale, poi, l’effetto terapeutico che deriva dal porre in essere una vera e propria attività produttiva; in effetti, il lavoro consente certamente all’individuo di conquistarsi un proprio ruolo sociale attraverso il riconoscimento delle sue competenze e capacità.

Crippa ritiene che l’attività lavorativa all’interno di una struttura consiste nel prendere coscienza del fatto che si hanno delle capacità e si può riuscire bene in determinati ambiti, anche collaborando con altri e imparando, quindi, a gestire un confronto con modi di fare diversi dai propri e con eventuali difficoltà nella realizzazione di un qualsiasi progetto.

È importante che gli ospiti della struttura si confrontino in modo diretto con le loro capacità e attitudini in un contesto sicuro e controllato come quello della comunità, che in questi casi farà da filtro e da banco di prova rispetto a condotte che in futuro dovranno auspicabilmente essere poste in essere nella realtà esterna.

Sempre a proposito dei rapporti con l’esterno, ogni struttura terapeutica prevede tutte le misure per assicurare la giusta separazione tra i residenti e i contatti con l’esterno, soprattutto per quanto riguarda attività che potrebbero portare alla possibilità di procurarsi sostanze stupefacenti o, in ogni caso, relazioni con soggetti che potrebbero avere un’influenza negativa[11].

Questo tipo di controlli e precauzioni sono importanti soprattutto all’inizio del percorso terapeutico, ma con il tempo e con i primi segnali positivi delle condizioni del soggetto è fondamentale anche favorire un certo reinserimento nella società, per cui saranno man mano previsti dei contatti con l’esterno, anche se sottoposti a sorveglianza.

La comunità terapeutica è spesso una struttura isolata perché si cerca di raggiungere una certa autonomia del gruppo anche dal punto di vista gestionale; così spesso sono gli stessi residenti che provvedono alla manutenzione e ad ogni altro aspetto attinente profili pratici della vita in comunità[12].

In alcuni casi si riesce addirittura a raggiungere una autonomia finanziaria della struttura grazie all’attività lavorativa degli ospiti stessi.

Queste modalità stimolano la dinamica di gruppo e favoriscono la assunzione di responsabilità dei soggetti residenti e lo sviluppo di interessi da coltivare in comunità.

Ai fini terapeutici rileva anche il centro decisionale; nelle comunità di tipo gerarchico  questo potere è affidato, secondo un criterio verticistico, a quelli che ricoprono posizioni di responsabilità, mentre nelle strutture di tipo democratico le decisioni sono affidate all’insieme degli operatori e degli ospiti, che di concerto valuteranno i presupposti e le implicazioni di ogni determinazione.

Nelle comunità di tipo gerarchico può succedere, in casi particolarmente critici, che i soggetti in difficoltà vengano intercettati e reclutati utilizzando metodi autoritari e impositivi; questo può avvenire soprattutto in casi in cui siano presenti elementi di violenza o autodistruttività, per cui sia difficile intervenire con metodi più soft. Ad esempio, è ritenuto un metodo autoritario quello che prevede la disposizione di una misura di sicurezza oppure nei casi in cui sia prevista una pena detentiva alternativa alla comunità terapeutica[13].

In effetti l’uso di questi strumenti è criticato da parte delle comunità di tipo democratico perché ritenuto lesivo della libertà individuale.

Da un po’ di tempo va affermandosi nelle strutture terapeutiche una pratica di counselling che coinvolge gli ospiti e, a volte, anche i familiari. Si tratta di un’attività fornita da terapeuti professionisti e si estrinseca in una vera e propria terapia per mezzo di un dialogo con l’utente; ogni programma sarà previsto dal terapeuta a partire dal caso specifico riguardante l’esperienza individuale di ciascuno. L’obiettivo sarà quello di individuare con chiarezza i reali sentimenti e conflitti presenti nel soggetto, analizzare le proprie contraddizioni e i propri limiti, cercando di superarli oppure di accettarli.

Sarà importante, in ogni caso, costruire un proprio personale progetto di vita, se del caso adeguandolo ai limiti e alle contraddizioni che si vivono. Questo tipo di processo è fondamentale soprattutto negli stadi avanzati o finali della terapia.

Nella esperienza in comunità ha un valore terapeutico anche lo svago; si tenga conto che spesso gli utenti sono dei giovani che non hanno mai imparato un concetto sano del divertimento perché sempre confuso con l’uso di droghe, per cui l’utilizzo del tempo libero diventa un momento cruciale per la realizzazione di un altro passo verso la guarigione.

Quasi sempre nella vita comunitaria vengono introdotti dei riti quotidiani e in questa loro ripetizione essi assumeranno una valenza simbolica e un riferimento nella giornata dei residenti. Si tratterà, volta per volta, di assemblee mattutine, della enunciazione corale del credo e dei valori della comunità oppure confronti sul futuro.

La partecipazione a questi riti sviluppa nel soggetto un forte senso di appartenenza al gruppo e, pian piano, determina come effetto quello di far propri certi atteggiamenti e certe pratiche.

Abbiamo già anticipato che la permanenza in comunità è scandita in fasi; la suddivisione del programma terapeutico varia a seconda del tipo di struttura e dalla metodologia applicata, ma solitamente si ha una fase iniziale di accoglienza a cui segue una fase in comunità detta protetta, poi uno stadio di svincolo in un contesto protetto e, infine, la parte che prevede il vero e proprio reinserimento.

Si può passare da una fase all’altra all’ottenimento di determinati risultati da parte del soggetto e valutati opportunamente dagli operatori; tale passaggio, a seconda delle modalità previste da ciascuna comunità, segnerà il trasferimento ad una diversa struttura oppure l’assegnazione di un differente ruolo all’ospite[14].

Per definire una comunità come terapeutica è necessario, oltre all’utilizzo di effettive competenze professionali specifiche, anche l’approccio metodologico complessivo che sia finalizzato ad ottenere un concreto cambiamento dell’indole del soggetto residente.

Questo obiettivo potrà essere monitorato e verificato in situazioni concrete, in base al modo di porsi nelle relazioni e in diverse altre situazioni poste in essere nel controllato contesto comunitario.

Nel combattere la tossicodipendenza è fondamentale la funzione rieducativa insita nella terapia e la sua risposta a quel disagio sofferto dai soggetti che smarriscono il senso della loro vita.

Questo tipo di funzione è presente, anzi centrale, in ogni tipo di comunità perché imprescindibile in ogni percorso che sia intrapreso da un soggetto tossicodipendente.

Si tratta di un approccio di tipo globale perché concerne l’interezza della relazione che il soggetto instaura con la sua persona e con la realtà esterna.

La terapia vera e propria consta di un piano che ingloba profili medici, culturali in senso lato e psicologici e questi debbono essere valutati attraverso una visione unica e complessiva della personalità del soggetto, al fine di approntare un programma rieducativo efficace.

Il fenomeno della dipendenza da sostanze stupefacenti presenta importanti profili di complessità che è necessario tentare di risolvere per arrivare ad individuare anche la più opportuna modalità terapeutica per il caso specifico.

Dal punto di vista strettamente medico, la tossicodipendenza è considerata una patologia per cui le viene assegnato un paino di intervento a partire dal momento della diagnosi, seguito dalla fase di prognosi e poi di cura vera e propria.

Anche il profilo psicoterapeutico si fa rientrare nella sfera medica, anzi è a questa associata in molte strutture che prevedono interventi complessi relativamente alla rieducazione del soggetto.

In realtà, anche in quelle comunità che non abbracciano pienamente il profilo medico viene seguito questo senso di intervento. Solitamente, esse non partono da una considerazione globale della situazione del soggetto, ma programmano una tipologia di intervento mirato ad uno specifico ambito, che sia quello psichico, del comportamento verso se stessi oppure delle relazioni con gli altri[15].

A seconda della dimensione in cui si interviene prevarrà la terapia di tipo psicologico introspettivo oppure quella fondata sull’analisi della dinamica relazionale.

Ovviamente il primo obiettivo a cui tende la terapia è quello di annullare il ricorso all’uso della droga, ma ciò da solo non può dirsi pienamente sufficiente, perché per creare nel soggetto una condizione psicofisica  stabile e durevole nel tempo occorre anche analizzare e superare i conflitti alla base di certi comportamenti; è necessario, altresì, suscitare degli stimoli nel soggetto e creare le condizioni perché questi imposti la sua nuova vita attraverso una prospettiva esistenziale sana che tenga conto della sua indole e personalità.

Linkus ritiene fondamentale che il tossicodipendente prenda consapevolezza di essere fondamentalmente impotente nei confronti della droga; a partire da questa convinzione si può costruire un percorso di uscita dalla dipendenza[16].

Cagossi spiega molto bene questo processo, definendolo come il tentativo di formare un soggetto adulto, capace di relazionarsi con il proprio io e con gli altri in modo sano e di affrontare la sua realtà psicologica, affettiva e professionale senza sentire il bisogno di quella spinta motivazionale effimera che si riconduce all’uso della droga[17].

Sempre Linkus ritiene che è certamente importante il fine del cambiamento nella vita del soggetto tossicodipendente, ma non deve essere considerato come fine a se stesso, né come rapportato ad un certo lasso temporale.

Infatti spesso succede che si raggiungano dei traguardi che però non reggono alla prova del tempo, oppure si conquista una presa di coscienza da parte del soggetto, ma a cui non corrisponde un relativo completo cambiamento di rotta nell’approccio agli eventi. In ogni caso, la valutazione dei risultati raggiunti va sempre rapportata alla situazione di partenza; in alcuni casi che presentano degli elementi patologici particolari, come ad esempio un soggetto sieropositivo, bisogna partire dalla considerazione che il concetto di guarigione andrà inteso come il ripristino di quelle condizioni che potranno consentire una serena impostazione della propria vita affettiva e professionale, pur accettando i limiti connessi alla condizione personale che si vive e, anzi, modificando la modalità di approccio con la realtà[18].

Dunque, per far sì che l’intervento terapeutico sia il più possibile completo e comprendente i vari ambiti dell’esperienza del tossicodipendente, è necessario che si proceda inizialmente ad una profonda analisi e comprensione della storia personale su cui si vuole intervenire[19]: solo così si potranno interpretare i bisogni del soggetto e tentare di progettare il domani nella maniera più autentica possibile.

La funzione di rieducazione legata alla terapia sarà tanto più effettiva quanto più si introdurranno elementi sia di vissuto dell’esperienza comunitaria, sia di elaborazione e analisi di questo quotidiano. Così sarà fondamentale la pratica del counselling e, in generale, gli spazi dedicati all’approfondimento in gruppo da un lato, e dall’altro l’attenzione alla introspezione personale. La pratica dell’uno si intreccia a quella dell’altro aspetto, perché se non connessi sarebbero ininfluenti nei confronti della realtà.

Dall’insieme di queste riflessioni emerge l’importanza del ruolo dell’educatore nelle comunità, rispetto al mero tecnico che si occupa di uno specifico disturbo; a loro il fondamentale compito di comporre l’insieme degli elementi oggetto di analisi e valutare complessivamente la particolare vicenda esistenziale.

di Linda Rago

[1] M. BONETTI, R. BORTINO, Tossicodipendenza e doppia diagnosi: la relazione d’aiuto in cominità, F. Angeli, Milano, 2005, pp. 37 ss.

[2] L. BUFFONE, Manuale di metodologia operativa per gli operatori dei servizi sociali. 2012, pp. 241ss.

[3] M. SANTERINI, P. TRIANI, Pedagogia sociale per educatori, Educatt, Milano, 2007, pp. 164 ss.

[4] M. PALUMBO, C. TORRIGIANI, La comunità terapeutica…, op. cit., pp. 48 ss.

[5] M. FERRI, ‎A. SAPONARO, ‎M. SANZA, Cocaina e servizi per le dipendenze patologiche, F. Angeli, Milano, 2010, pp. 60 ss.

[6] M. FERRI, ‎A. SAPONARO, ‎M. SANZA, Cocaina e servizi …, op. cit., pp. 60 ss.

[7] psicologiaeterapia.it/ospedali%20cliniche/comunita_terapeutiche.htm

[8] M. SANTERINI, P. TRIANI, Pedagogia sociale per educatori, op. cit., pp. 164 ss.

[9] www.comunitaterapeutiche.it/…/informazioni-sui-diversi-tipi-di-droga.ht

[10] Ibidem.

[11] M. PALUMBO, C. TORRIGIANI, La comunità terapeutica…, op. cit., pp. 56 ss.

[12] M. PALUMBO, C. TORRIGIANI, La comunità terapeutica…, op. cit., pp. 56 ss.

[13] psicologiaeterapia.it/ospedali%20cliniche/comunita_terapeutiche.htm.

[14] www.comunitaterapeutiche.it

[15] M. FERRI, ‎A. SAPONARO, ‎M. SANZA, Cocaina e…, op. cit., pp. 60 ss.

[16] M. SANTERINI, P. TRIANI, Pedagogia sociale…, op. cit., pp. 164 ss.

[17] Ibidem.

[18] M. SANTERINI, P. TRIANI, Pedagogia sociale…, op. cit., pp. 166 ss.

[19] Ibidem.

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