Non riconosco i miei movimenti: il significato dell’anosognosia

Articolo di Carmen Colasuonno

A partire dalle scoperte di Babinski molti ricercatori hanno tentato di dare una spiegazione all’anosognosia, che si è rivelata, nel tempo, un fenomeno molto complesso.
In circostanze fisiologiche ottimali gli individui sani non hanno difficoltà a riconoscere i propri movimenti e a sapere quando e come hanno messo in atto un’azione.

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Tuttavia, questa normale attività può essere “interrotta” a seguito di un trauma cranico o di un ictus. L’anosognosia per emiplegia, infatti, può essere definita come un disturbo, che si verifica di solito a seguito di un ictus nell’emisfero cerebrale destro, in cui il soggetto che ne è affetto non è consapevole del proprio deficit motorio consistente in una paralisi della metà sinistra del corpo. I pazienti affermano di essere capaci di svolgere azioni in maniera normale malgrado la loro ovvia paralisi, fino ad arrivare anche ad affermare di aver eseguito un’azione richiesta nonostante l’arto in esame sia, in realtà, rimasto fermo (Preston, et al., 2014). Essi sopravvalutano le proprie capacità motorie,
credendo che non ci sia niente di anomalo nel loro funzionamento corporeo.

Il modo in cui l’anosognosia per emiplegia si manifesta non è uguale in tutti i casi studiati e ciò ha portato a scoprire l’esistenza di numerosi sottotipi del disturbo. Ad esempio, alcuni pazienti non si rendono semplicemente conto delle conseguenze del deficit (che in questo caso è riconosciuto dal soggetto), altri non hanno consapevolezza della loro disabilità nonostante vi siano prove della sua presenza, altri ancora possono essere inconsapevoli di un problema (come la paralisi dell’arto superiore) ma ne riconoscono un altro (come la paralisi dell’arto inferiore).

L’inconsapevolezza può essere presente sia a livello verbale (anosognosia esplicita) che a livello comportamentale (anosognosia implicita), nel senso che un soggetto può ammettere di essere affetto da emiplegia ma cerca in tutti i modi di camminare o di mettere in atto compiti fisici chiaramente impossibili, oppure nega l’esistenza della paralisi ma rimane sempre a letto (Jenkinson, et al., 2010). Inoltre, i soggetti affetti da anosognosia per emiplegia mostrano pochissime reazioni emozionalmente esagerate, quali episodi di pianti disperati o crolli emotivi, sono eccessivamente ottimisti e/o mostrano indifferenza nei riguardi della loro condizione. In generale, essi mostrano un range apparentemente normale di emozioni negative e positive (Turnbull, et al., 2005) ma tendono a direzionare le loro risposte emotive verso
altri oggetti piuttosto che verso il proprio deficit motorio. Queste scoperte suggeriscono quindi la presenza, nel soggetto, di una consapevolezza implicita della disabilità motoria propria della patologia, di cui discuterò in maniera approfondita più avanti.

Nonostante anni di ricerca sull’anosognosia per emiplegia, non si ha ancora un’adeguata spiegazione capace di render ragione a tutte le manifestazioni cliniche, emozionali, cognitive e neuroanatomiche del disturbo. L’eterogenea presentazione della malattia è uno dei fattori che ha messo in difficoltà la comprensione della stessa, unita ad una mancata unanimità delle interpretazioni delle specifiche caratteristiche. Tuttavia, essa può essere, in un certo modo, compresa grazie all’utilizzo di un modello di controllo motorio proposto da Blakemore e colleghi (2002) secondo il quale nel momento in cui intendiamo effettuare un movimento, il nostro cervello crea una previsione riguardo le conseguenze di questo movimento e del feedback sensoriale, successivamente viene affidato ad una struttura di confronto il compito di rilevare gli errori tra il movimento previsto e quello realmente messo in atto (Haggard, 2005).

 

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