Come affrontare l’ansia nel luogo di lavoro

– ANSIA E STRESS NELLA VITA ORGANIZZATIVA

 

“Le istituzioni sono il mezzo di cui i loro singoli membri si servono per rafforzare i meccanismi individuali di difesa contro l’ansia, e in particolare contro il riaffiorare delle primordiali ansie paranoidi e depressive” (Jaques).

La vita organizzativa è pervasa da ansietà, inerenti la dimensione operativa, cioè tutte quelle azioni che permettono il raggiungimento degli scopi organizzativi, sia la dimensione relazionale, cioè il lavorare visto dal punto di vista dei rapporti interpersonali. Infatti, le organizzazioni, essendo in ultima analisi, costituite da individui, sono uno dei luoghi ideali in cui i membri sperimentano nuovamente i meccanismi di difesa utilizzati nell’infanzia, introducendo così la dimensione dell’inconscio.

Nel contesto postindustriale nel quale ci troviamo si è molto esposti ai giochi dell’inconscio: la condizione di incertezza dovuta ai non ben definiti confini organizzativi, ai non ben chiari ruoli richiesti e alla continua pressione all’essere flessibili ci costringe a sperimentare uno stress che andrà ad interferire inevitabilmente sulla nostra efficienza sul lavoro. In questo scenario l’individuo perde la sua centralità, il suo “baricentro”, indebolendosi e impoverendosi fino ad arrivare a disconoscere il valore della vita e la preziosità di se stesso, quando arriva a tentare il suicidio. Se ciò si verifica si può dire che l’uomo, sottoposto a situazioni stressanti ed altamente faticose per la sua persona, giunge a depauperare le sue energie e le sue risorse interne, si sente privo di forza, di interesse e di volontà, fino in certi casi a desiderare di morire, per liberarsi dall’angoscia del vivere. Spesso l’uomo di oggi, a seguito dell’iperattività, dei soprusi o violenze e delle ingiustizie a cui è sottoposto quotidianamente, si ammala sino a cadere nella depressione, la forma di malessere psichico più diffusa ai giorni nostri, che rappresenta una dichiarazione di inanità e insoddisfazione del nostro vivere. Quando l’individuo cade nel vortice della depressione difficilmente ne esce in tempi brevi e con facile successo e le conseguenze del suo malessere comportano disfunzioni e disagi sia in ambito personale che professionale. Lo stress protratto, infatti, si manifesta principalmente con ansia e angoscia e quando diventa depressione si evidenzia con sintomi di apatia e abulia, bassa capacità di concentrazione, disinteresse, inattività e umore depresso.

Il termine stress è stato introdotto da Selye (1956), che l’ha definito “una reazione non specifica esibita dall’individuo quando deve affrontare un’esigenza o adattarsi a una novità”. Per “reazione non specifica” si intende uno stato di attivazione del sistema nervoso vegetativo e del sistema endocrino che interviene di fronte a stimoli stressanti di diversa natura. Lo stress è, di per sé, una reazione psicologica, adattiva, caratteristica della vita, che può tuttavia assumere un significato patogenetico quando è prodotta in modo troppo intenso e/o per lunghi periodi di tempo e/o non si accompagna a risposte sufficientemente efficaci. Viene così postulata l’esistenza di una risposta organica alla richiesta ambientale. Secondo questa teoria, lo stress è la reazione del corpo a eventi quotidiani e al modo in cui li percepiamo; ogni richiesta, o fattore stressante, sconvolge l’equilibrio dell’organismo e la risposta è un tentativo di raggiungere l’omeostasi, ossia di ristabilire questo equlibrio. Selye ha descritto le fasi di una “sindrome generale di adattamento”. Quando lo stress perdura nel tempo, tale sindrome consiste in tre fasi tipiche:

  1. Reazione di allarme: comprende lo shock iniziale di fronte all’evento stressante e la successiva mobilitazione dei meccanismi fisici di difesa. Questa reazione di allarme è chiaramente manifestata dalla presenza di segni obiettivi e soggettivi fondati, dal punto di vista organico, sul sistema nervoso e su quello endocrino. Tali meccanismi di allarme e di difesa contribuiscono a mantenere l’omeostasi dell’organismo nonostante i vari mutamenti provocati dagli stressori.
  2. Resistenza: si tenta di ristabilire un nuovo equilibrio e un nuovo adattamento alla situazione modificata dall’agente stressante. Tale adattamento positivo è possibile e può avvenire sia perché lo stressor diminuisce la sua azione perturbatrice, sia perché la risposta comportamentale del soggetto consente di adottare misure efficaci, scaricando inoltre la tensione provocata dallo stress. Se però lo sforzo adattivo tipico della fase di resistenza non dà risultati nel tempo o intervengono in periodi ravvicinati nuovi agenti stressanti, allora si può instaurare la fase di esaurimento.
  3. Esaurimento: L’individuo viene sopraffatto da stress ripetuti e/o cronici e non è più in grado di reagire con meccanismi di allarme che, per definizione, non possono essere permanentemente e stabilmente attivati.

Gli agenti o le richieste che evocano il pattern dio risposta allo stress sono chiamati stressor. Non tutti gli stressor sono di natura esclusivamente fisica. L’arousal psicologico è uno dei più frequenti attivatori. Selye (1991) ha sottolineato che emozioni quali l’amore, l’odio, la gioia, la rabbia, la sfida o la paura, così come i pensieri, evocano una risposta allo stress. Anche se nelle società semplici l’effetto di lotta (affrontare lo stress) o di fuga (evitarlo) sarebbe stato sufficiente a far fronte allo stress, nelle nostre società complesse questa non è in genere una risposta funzionale nella maggior parte delle situazioni stressanti. Oggi si tende piuttosto a tenersi dentro lo stress e gli ormoni in eccesso spesso giungono a livelli tossici.

Lo stress diventa distress quando la risposta è troppo intensa e dura troppo a lungo. Dopo un’iniziale reazione di allarme, il corpo si attiva e tenta di resistere allo stress. Quando il periodo di stress è prolungato, i meccanismi di adattamento finiscono con l’esaurirsi e il corpo non ha più risorse; se non riesce ad adattarsi con successo alla causa di stress, compaiono delle reazioni di allarme, anche se il danno è irreversibile. Il corpo ha consumato tutta la sua energia di adattamento, stato questo che a volte viene definito in termini di burnout. Lo stress cronico può infine provocare seri problemi di salute. Anche se questo modello focalizza l’attenzione sulle manifestazioni fisiche dello stress, come mal di testa, reazioni d’ansia visibili, depressione ecc., il suo maggior limite è che una particolare risposta non è immancabilmente una manifestazione di stress.

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La definizione transazionale dello stress avanzata da Richard Lazarus considera lo stress psicologico come la relazione tra la persona e l’ambiente da questa valutato come gravoso, o eccedente le proprie risorse e rischioso per il proprio benessere. La definizione è basata sul modello di interazione persona-ambiente e tiene conto delle variabili situazionali, delle caratteristiche della persona e della valutazione che essa compie della situazione. Sia la percezione della richiesta ambientale da parte della persona, sia la percezione della propria capacità di rispondere alla richiesta determinano l’effetto dello stressor.

Un aspetto chiave della concezione dello stress proposta da Lazarus e collaboratori è la valutazione. Lazarus distingue tre componenti dello stress: ogni singola situazione viene valutata secondo il livello di danno (laddove il danno psicologico già esiste), minaccia (se il danno è prevedibile) e sfida (quando la risposta alle richieste è messa in atto con fiducia). La sfida è spesso accompagnata da una “prestazione fuori dal comune” e da un “senso di euforia”: malgrado l’apparente difficoltà l’individuo riesce a mobilitare e dispiegare le proprie risorse di coping. La risposta che un individuo mette in atto di fronte ad una situazione stressante dipende pertanto dal modo in cui tale situazione viene valutata (Lazarus, 1966, 1993). Le percezioni precedono e mediano la risposta emotiva e fisiologica dello stress. Gli stress potenziali diventano stress reali soltanto quando sono percepiti come minaccia. Sia Lazarus che Bandura (1982) considerano uno stato mentale positivo come un abase importante per combattere lo stress e facilitare il coping: mentre Lazarus centra l’attenzione sul coping anticipatorio in cui vengono valutate situazione e risorse, Bandura afferma che le persone evitano i compiti “superiori a quelle che percepiscono essere le proprie capacità di coping” (1982). Ciò che determina se un individuo percepisce quello che accade come minaccia o come sfida è la valutazione che questi dà della propria abilità di far fronte all’ambiente e superare il pericolo.

Anche la vita organizzativa è pervasa da ansietà, inerenti sia la dimensione operativa (azioni e decisioni che dovrebbero consentire di raggiungere gli obiettivi prefissati), sia la dimensione relazionale (intreccio di sentimenti ed emozioni che scaturiscono dalla collaborazione e dal confronto tra gli individui, dal loro lavorare assieme in vista degli stessi obiettivi).

L’ansietà insita nelle organizzazioni è legata ai temi della vulnerabilità, della provvisorietà; il senso di incertezza che può accompagnare lo svolgimento dei compiti di lavoro non sfugge quasi mai alla “compagnia” dell’ansia. Le fonti di ansia sono principalmente quattro:

Le frontiere organizzative: le frontiere dell’organizzazione hanno la funzione primaria di proteggere l’attività operativa dalle influenze esercitate dall’ambiente esterno. Quando le frontiere sono mal disegnate o mal gestite possono creare stress o ansietà, in quanto viene a mancare la necessaria barriera protettiva all’incertezza o alla turbolenza esterna.

L’esercizio del potere: la dimensione del potere rappresenta un punto nodale particolarmente insidioso, in quanto l’esecuzione di ogni tipo di lavoro, dal più semplice al più complesso, pone pericolosi interrogativi in tema di potere (chiedere o rifiutare un consiglio, rendersi disponibile, prendere tempo).

La dinamica di ruolo: l’incertezza sulla presa di ruolo può indurre ad esempio a sottovalutarsi e a non ritenersi all’altezza dei compiti affidati, sostenendo in tal caso le istanze superegoiche di autoaccusa e di punizione che, non potendo proporsi come impulso positivo verso l’azione, vengono proiettate verso l’esterno attribuendo ad altri il ruolo di persecutori.

Le nuove tecnologie: le tecnologie spesso comportano nuovi stress che in passato non eravamo abituati ad affrontare. Queste offrono quotidianamente nuove forme di comunicazione, di divertimento e di lavoro, tuttavia, può anche stressare enormemente: spesso le apparecchiature sono difficili da capire, e senza un adeguato apprendimento sarà molto difficile poter usare correttamente un prodotto tecnologico, e questa incapacità provocherà un notevole stress nel lavoratore.

Si ha in questi casi l’attivazione di un processo di progressivo disimpegno dal proprio ruolo nell’organizzazione: gli individui si allontanano dalla realtà lavorativa e si creano un mondo alternativo in cui gli eventi possono essere affrontati con modalità difensive quali la fantasia di onnipotenza, la dipendenza o la negazione. Altre cause importanti attivatrici di stress sono lo sviluppo di carriera e le relazioni di lavoro con i vertici, con i dipendenti, ma anche con i colleghi.

Se l’ansietà che si crea nel contesto lavorativo è troppo grande, troppo difficile da controllare e da rielaborare, gli individui la fuggiranno, cioè tenderanno ad abbandonare il loro ruolo nell’organizzazione. Il ruolo è, infatti, l’elemento che dà forma alla visione oggettiva della realtà di lavoro, per cui se gli individui non possono tollerare la situazione di lavoro avranno bisogno di fuggire dal ruolo per fuggire dalla realtà per costruire un mondo fantastico nel quale i legami sono distorti e modellati a proprio piacimento. L’organizzazione deve riconoscere che al suo interno s’innescano meccanismi irrazionali, perché solo così si potranno gestire in un’ottica costruttiva. La cultura riparativa avrà la possibilità di esprimersi al meglio là dove gli individui: ”riconosceranno nell’organizzazione un mezzo per il raggiungimento di obiettivi comuni, attraverso una ben chiara definizione della mission dell’organizzazione e del suo significato; avranno consapevolezza dei contenuti di lavoro come intreccio di risorse sia tecniche che umane; accetteranno l’emergere di ostilità come esperienza normale. I manager di un’organizzazione riparativa si fanno carico delle azioni che preoccupano gli altri e sono capaci di legarsi emotivamente al conseguimento dei risultati.” (Hirschhorn). In tali organizzazioni, gli individui hanno la consapevolezza dei propri successi e fallimenti, degli aspetti positivi e negativi ed evitano di fare proiezioni dei propri sentimenti di ostilità sugli altri. Essi sono in grado di apprendere dalla propria esperienza perché sono in grado di “ripensarla”. Il processo di autoriflessione, infatti, permette di riconoscere e, in qualche modo, gestire quelle forze irrazionali che a volte non permettono di lavorare bene.

Una situazione di stress o di ansia psicosociale, se ripetuta e prolungata nel tempo, aumenta il logoramento individuale e produce danni funzionali strutturali: l’affrontare un problema complesso (ad esempio il tentativo di adattarsi ad una situazione psicosociale poco gradita o ostica) comporta l’attivazione di meccanismi di risposta identici a quelli dello stress che si manifestano di fronte ad una situazione fisica estremamente nociva.

La reazione allo stress dipende dal modo in cui il soggetto interpreta e valuta il significato di un evento pericoloso e potenzialmente dannoso, che è basato sulle esperienze personali dell’individuo, su tratti specifici di personalità, valori, circostanze di vita, abilità, intelligenza, addestramento e cultura. I meccanismi di stress che s’innescano dopo un licenziamento, un divorzio o la perdita di una persona cara saturano le difese dell’individuo, esponendo a gravi rischi la sua integrità psichica. Da uno studio condotto dai ricercatori dell’equipe di Carlo Faravelli, dell’Università di Firenze, è emerso che nell’anno successivo a questo tipo di eventi stressanti, decuplica il pericolo di ammalarsi di depressione e disturbi ansiosi: l’organismo riesce ad adattarsi completamente alle esigenze e alle sollecitudini dell’ambiente, solo alcuni eventi particolarmente gravi (lutti, perdite, incidenti) e stress psicosociali (licenziamento) o fisici (fatica eccessiva, digiuno prolungato), possono portare a risposte patologiche”. L’analisi di 2.500 soggetti di diverse età e sesso ha mostrato che le disgrazie più dannose sono quelle irrimediabili, come la morte di un genitore o un figlio.

Un esercizio per gestire le emozioni

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