Abuso Sessuale Infantile: psicologia, definizione, conseguenze

DEFINIZIONE DI ABUSO SESSUALE

L’esigenza di delineare in dettaglio cosa può o non può esser identificato come “abuso” ha evidenziato le varie sfaccettature del problema e la complessità intrinseca che lega molteplici costrutti psicologici, giuridici, medici e sociologici in un concetto tutt’altro che lineare. Si tratta di descrivere oggettivamente quali comportamenti messi in pratica da un individuo siano ritenuti inappropriati, nel senso che potrebbero mettere in pericolo l’integrità fisica e psicologica dell’abusato, ma è altresì necessario valutare gli effetti che questi comportamenti provocano sul minore, tenendo conto di una prospettiva generale da applicare specificatamente ad ogni caso presentato. Da un punto di vista sia medico sia legale, prove concrete e palesi di maltrattamento sono maggiormente tenute in considerazione poiché facilmente registrabili e foriere di sdegno, soprattutto durante un caso legale. Questa predilezione va a scapito del maltrattamento psicologico; per questo motivo, tutte le definizioni dovrebbero tener conto di entrambi gli aspetti: da una parte, devono elencare minuziosamente gli atti compromettenti, dall’altra, devono spaziare in un’area più soggettiva che tenga conto del vissuto del minore e di come questi comportamenti influenzino il suo benessere. Compito non facile, dato che «l’impatto di una qualsiasi azione che un essere umano compie nei confronti di un altro essere umano non è in relazione lineare con la natura dell’azione stessa»[1] (Gullotta & Cutica, 2009), poiché un numero sostanziale di variabili, tra cui la famiglia, la cultura, lo sviluppo, potrebbero non determinare cambiamenti essenziali in un determinato soggetto, quando invece potrebbero provocare ferite traumatiche in un altro. Questo processo di interiorizzazione degli eventi è costituito dalla resilienza, composta da un insieme di fattori che entrano in gioco quando l’individuo affronta eventi stressanti o traumatici e ne determinano il grado e il tipo di influenza sul soggetto. Una resilienza ottimale si definisce in base a due tipi di fattori, vale a dire i fattori psicosociali e i fattori individuali, e bisognerebbe favorirne lo sviluppo e la competenza poiché aiuterebbe a ridurre gli effetti di rischio. Ad oggi, la definizione di abuso sessuale proposta da H. Kempe sembra essere quella più completa ed esaustiva; egli, infatti, considera abuso su minori «il coinvolgimento di bambini e adolescenti in attività sessuali che essi ancora non comprendono completamente, alle quali non sono in grado di acconsentire con totale consapevolezza o che sono tali da violare tabù vigenti nella società circa i ruoli familiari»[2]. Questo include pedofilia, stupro, incesto, e qualunque altro atto di violenza sessuale, o comunque tutte le situazioni in cui un minore viene sfruttato per il soddisfacimento sessuale di un adulto, o se questi è coinvolto in attività sessuali non appropriate per il suo sviluppo psico-fisico o se vi si ritrova senza aver avuto la capacità o la possibilità di esprimere alcun consenso.

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Premesso ciò, si possono distinguere quattro principali forme di maltrattamento minorile[3] (Cicchetti & Cohen, 2006), spesso co-presenti:

 

  1. L’abuso fisico, rappresentato da azioni fisiche dolorose volontariamente inflitte al minore.
  2. La trascuratezza, che sta nel non saper fornire supporto ai bisogni base del minore in ambito fisico, educativo o emotivo, mostrando disinteresse o ritardo nell’intervento.
  3. L’abuso emotivo, in cui le funzioni di supporto del caregiver vengono a mancare o sono avverse alle richieste emotive del minore; questo tipo di abuso è quasi sempre presente.
  4. L’abuso sessuale, che comprende atti sessuali (carezze, rapporti sessuali, esibizionismo, sfruttamento della prostituzione o produzione di materiale pornografico) ai danni del minore. Inoltre, possono distinguersi diversi gradi di invasività a seconda della durata degli abusi (che possono essere episodi isolati o perdurare a lungo) o in relazione al ruolo svolto dal minore abusato, e cioè attivo o passivo. Il ruolo attivo rimanda ad atti effettivamente compiuti dall’adulto sul minore, mentre il ruolo passivo vede il minore come spettatore di comportamenti sessuali.

 

In Italia, la Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza ha steso delle linee guida sugli abusi in età evolutiva con lo scopo di chiarire gli standard per rilevare, diagnosticare e trattare gli abusi sui minori (SINPIA, 2007) e, in merito agli abusi sessuali, presenta una distinzione a seconda del rapporto che intercorre tra l’abusante e l’abusato: intrafamiliare, commesso dal genitore, da un parente convivente (o meno) con il minore o da un amico di famiglia; extrafamiliare, compiuto da un soggetto estraneo al minore e/o alla famiglia; perifamiliare, che comprende quello istituzionale, di strada, a fini di lucro e da parte di gruppi organizzati. Tra gli abusi sessuali intrafamiliari, la SINPIA riconosce un sottogruppo di denunce infondate e rimarca soprattutto gli effetti negativi sulla psiche del minore derivanti dal coinvolgimento in tali accuse. Situazioni di questo tipo si verificano generalmente durante casi di separazioni conflittuali in cui i coniugi tentano di screditare l’altro per ottenere l’affidamento dei figli. Blush e Ross (1987) hanno trovato una definizione per questo fenomeno, detto Sindrome da accuse sessuali in divorzio, che accade prevalentemente in una famiglia disfunzionale in cui un coniuge denigra l’ex compagno e, contemporaneamente, dipinge un’immagine di sé affidabile e rassicurante. Questa situazione può vedere anche il coinvolgimento di minore se si è in presenza della sindrome di alienazione genitoriale, in cui il minore, manipolato dall’adulto, si unisce alla campagna denigratoria. Casi ancor più particolareggiati sono quelli in cui diversi equivoci rendono il genitore ansioso, fino ad autoconvincersi di un reato che non è realmente accaduto, poiché trae conclusioni in modo affrettato.

Avere stime precise del fenomeno risulta, però, molto problematico. In primis c’è, come si è detto, il problema delle false denunce e, in secondo luogo, si deve tener presente che non tutti gli abusi che accadono vengono denunciati, quindi è altamente probabile che il numero di denunce sia minore rispetto agli abusi effettivamente compiuti: questo avviene perché, spesso, la denuncia non viene fatta dal coniuge o dal bambino, ma da una segnalazione delle autorità competenti, ad esempio la scuola, o da un parente, che si accorgono del cambiamento repentino del minore. Un’idea della vastità del fenomeno può essere data dalle situazioni di emergenza gestite da linee telefoniche di supporto come il servizio 114 – emergenza infanzia del Dipartimento delle Pari Opportunità (Osservatorio, s.d.) che, tra il 1° ottobre 2011 e il 31 dicembre 2012, è intervenuto in un totale di 1.893 emergenze riguardanti dei minori su territorio nazionale. Di queste, 83 erano i casi di abuso sessuale, cifra sempre più in aumento, e il 64,1% delle vittime è rappresentato da bambini al di sotto degli 11 anni di età, principalmente di genere femminile. Si ritiene che il numero crescente di denunce riportate non indichi un effettivo aumento dei maltrattamenti verso i bambini, bensì un cambiamento nella sensibilità nei confronti del fenomeno, che ha portato ad una maggiore presa di coscienza rispetto alla necessità di intervenire per offrire maggiore protezione. Infine, secondo i dati sui presunti respondabili dell’abuso, è possibile delineare nei dati del 2013 come il 53,9% fosse stato riconosciuto come abusante un membro appartenente al nucleo familiare.

Nonostante diverse teorie tentino di delineare caratteristiche definite delle famiglie abusanti, mancano studi empirici che effettivamente dimostrino l’esistenza di condotte tipiche. La storia personale dei genitori sono strettamente legate all’abuso: molti dei genitori abusanti sono stati a loro volta vittime di punizioni corporali e maltrattamenti, e alcuni lo ritengono un metodo legittimo per educare i propri figli. La trasmissione intergenerazionale dell’abuso ammonta a circa un terzo dei genitori abusati  (Cicchetti & Toth, 2006), il che fa pensare alla presenza di molte altre variabili che interagiscono a formare una figura genitoriale abusante, quali, ad esempio, lo status socioeconomico, il malfunzionamento della coppia, o sconvolgimenti della quotidianità familiare e relative difficolta di adattamento della stessa. Alla base si ritrova una disfunzione nella relazione tra i componenti, in cui la violenza trova la sua massima espressione. È infatti presente una chiara destabilizzazione dei ruoli all’interno della coppia coniugale e tra le generazioni, in cui le gravi mancanze di uno stile di attaccamento sano denotano confusione riguardo alle funzioni generazionali da rispettare. Comunque, si parla in generale di sex offenders per identificare quei soggetti che presentano un comportamento patologico legalmente perseguibile. Secondo una ricerca di Abel (1990), il sex offender sviluppa i suoi comportamenti devianti molto presto, e cioè, in media, intorno ai 18 anni.

 

Tabella 1. Personalità paterna e materna complementari (Angelone, 2015)

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È evidente come si intreccino caratteristiche disfunzionali complementari, tanto da non poter parlare di una singola figura problematica, poiché è l’intera famiglia ad essere considerata abusante. Precisamente, si presentano due tipologie di personalità, sia materna sia paterna, che interagiscono fra loro e insieme costituiscono un fattore di rischio (tabella 1).

La psicopatologia genitoriale rappresenta anch’essa un fattore di rischio, poiché ha un impatto importante sulle relazioni intrafamiliari e sul bisogno di cura. I quadri clinici maggiormente esposti sono i seguenti[4] (Lirpa):

 

  • Personalità borderline e antisociale; la prima caratterizzata da impulsività aggressiva e instabilità emotiva, e la seconda da incapacità empatica e difficoltà nella riflessività autocritica;
  • Psicosi, causa la ricorrente discontinuità dell’immagine genitoriale e richiede modalità relazionali di doppio legame, costringendo il figlio ad imposizioni e comportamenti bizzarri;
  • Sindrome narcisistica di personalità, con un atteggiamento pre-genitale di tipo predatorio;
  • Gravi depressioni e disturbi d’ansia, la cui naturale conseguenza risulta essere uno stile educativo anaffettivo e non responsivo verso i bisogni della prole;
  • Dipendenze patologiche.

La caratteristica principale propria delle categorie elencate riguarda l’incapacità di stabilire relazioni appaganti e funzionali con gli altri. Infatti, il soggetto narcisista pretende che l’altro soddisfi le sue richieste senza alcuna promessa di ricambiare, anche perché l’altro verrebbe disprezzato per aver mostrato il suo lato umano e bisognoso. Malgrado ciò, il narcisista patisce un grande senso di solitudine che lo costringe alla ricerca di un oggetto d’amore, preferibilmente non richiestivo. Questo pattern si può vedere anche negli stupratori: essi sfruttano l’altro per soddisfare i propri piaceri, senza preoccuparsi del danno arrecatogli perché incapaci di umanizzare la loro vittima e, in casi estremi, finisco con l’uccidere la vittima perché non è più necessaria a soddisfare i propri bisogni. L’abuso compiuto da un narcisista evidenzia una certa cura e freddezza, questo perché la scelta della vittima è scrupolosa e l’atto può essere ripetuto, com’è tipico del criminale seriale. Questo comportamento si ritrova anche negli abusatori con personalità anti-sociale, che, siccome non provano alcun senso di colpa, non commettono gli errori tipici di chi sente il bisogno di essere scoperto. Totalmente opposti appaiono i borderline, poiché, a causa della loro incapacità di controllare gli impulsi, non si concedono il tempo adeguato per pianificare l’aggressione. Infine, le personalità dipendenti temono la separazione, ma, inconsciamente, si trovano in situazioni di abbandono per provare a loro stessi di essere capaci di evitare la disperazione per essere stati lasciati, senza ovviamente risolvere il conflitto. Senza dubbio, non tutti i soggetti che soffrono questi disturbi diventano sex offenders. Quest’ultimi, infatti, presentano elementi di ostilità, vendetta o ricerca di affetto attuati in modi che risultano perseguibili; a questi sentimenti si aggiungono il senso di rivalsa, soprattutto nelle pedofilie, in cui si manifestano processi di rivittimizzazione che danno vita ad un ciclo di violenze e intimidazioni; alcuni soggetti scelgono bambine più deboli e se ne innamorano, al fine di giustificare il legame vittima-violentatore, che nella loro illusione diventa lecito perché i sentimenti non possono essere controllati: «… io mi sono innamorato di una bambina … Tutto qui, è una cosa molto semplice … E quindi tutto quanto quello che facevo per me era lecito. Aveva sei anni … Una vera cotta. C’è un proverbio che dice -Al cuor non si comanda-» (Giulini & Xella, 2011). Dunque, oltre ad una distorsione cognitiva o fisiologica dello stimolo sessuale, l’attenzione princivale va spostata sulla distorsione affettiva che affligge questi individui, che frequentemente esperiscono una sorta di dissociazione consapevole: il Sé grandioso trionfa, mettendo a tacere le altre personalità socialmente accettabili, e, nell’azione sadica, raggiunge una anestesia morale che gli permette di compiere azioni impensabili in qualsiasi altro contesto, cosicchè la rabbia, la frustrazione e l’aggressività trovano finalmente una valvola di sfogo.

Eppure, non è risultato possibile cristallizzare tratti comuni nei molestatori in un profilo univoco, nonostante si siano riscontrate alcune indicazioni generali, che mostrano una significativa presenza di immaturità affettiva, insieme all’identificazione deficitaria, e cioè una mancata identificazione sessuale, e a relazioni interpersonali inadeguate.

Ad ogni modo, è possibile delineare due categorie principali di aggressori  (Mazzoni & Rotriquenz, 2012):

  1. Coloro che adescano, raggirano, seducono (Holtzworth-Munroe & Stuart, 1994) i minori; questi individui presentano uno sviluppo psicosessuale inadeguato, tanto da non riuscire a relazionarsi con partners di età appropriata: per questo, vedono nei bambini un possibile partner meno competitivo poiché altrettanto immaturi. Oppure, si tratta di individui apparentemente normali che, però, in situazioni stressanti, conflittuali o sotto l’effetto di alcool o droghe, regrediscono e compiono scelte sessuali inadeguate.
  2. Coloro che fanno ricorso alla violenza; questi individui realizzano, attraverso la violenza sessuale, il bisogno di potere, oppure è un modo per esprimere il loro sadismo.

Holtzworth-Munroe e Stuart  (1994) hanno proposto una classificazione che propone tre tipi di aggressori, più nello specifico ai danni del coniuge:

  • 1° tipo: abuso di alcool, tendenza ad essere belligeranti e con tratti di personalità antisociale;
  • 2° tipo: perpetrano l’abuso principalmente in famiglia, e per lo meno tentano di reprimenre la collera e gli istinti aggressivi;
  • 3° tipo: tendenzialmente più isolati, provano sentimenti di depressione, inadeguatezza ed instabilità emotiva, e spesso rivelano personalità schizoide o borderline.

Un’indagine italiana condotta da Terragni nel 1998[5] ha rivelato che l’età della maggior parte degli abusanti va dai 40 anni in su.

[1]  G. Gullotta, I. Cutica, Guida alla perizia in tema di abuso sessuale e alla sua critica., Giuffrè Editore, Milano, 2009, p.4

[2] H. Kempe, Child abuse, Fontana Open, London (trad. it. : Le violenze sul bambino, Armando, Roma,1978, p. 69)

[3]  D. Cicchetti, D. J. Cohen, Developmental Psychopathology, Risk, Disorder, and Adaptation.,  John Wiley & Sons, Hoboken, New Jersey, 2006, p. 132

[4]  Lirpa, La configurazione psicologica dei sex offenders (stupratori, pedofili, stalkers), pp 9-12

[5] Due ricerche: la prima (a Milano e a Napoli), basata sulle denunce per reati sessuali nel periodo che va dagli anni ’60 agli anni ’80; la seconda (nel Veneto), analizza le denunce sporte nella decade ’83-’93.

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