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Come riconoscere la menzogna

Articolo di Cecilia Marchese

La menzogna costituisce un comune denominatore sociale più di quanto si immagini; siamo contro la menzogna ma intimamente la accettiamo in modi che la nostra società approva da secoli poiché fa parte della nostra cultura, della nostra storia.

Da alcuni studi è emerso che il mentire abbia addirittura un valore evolutivo per la nostra specie: i ricercatori sanno da tempo che più è evoluta la specie, più è estesa la neurocorteccia e maggiore è la tendenza all’inganno. Da sempre la menzogna è parte integrante della nostra vita sociale, delle interazioni della vita di tutti i giorni, una componente che ci fa confrontare, nella relazione con gli altri e con noi stessi, con concetti come verità, fiducia, libertà e credibilità (Mayer, 2011).

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E’ per questo che da sempre la Psicologia come le scienze sociali si sono spese nel definire e circoscrivere quanto più possibilmente l’argomento, nel fare chiarezza sulle motivazioni sottostanti il comportamento menzognero, sulla definizione delle diverse forme di inganno ed in particolar modo sulla varietà delle modalità di espressione della bugia: verbali e, come nel nostro caso, non verbali.

Cos’è la menzogna

Ai fini di un’indagine esaustiva circa le modalità espressive corporee della menzogna, è bene primariamente darne una definizione concettuale che possa essere d’aiuto nel chiarificare e delimitare il nostro campo di analisi.

Nel parlare di menzogna facciamo riferimento ad un’alterazione consapevole ed intenzionale della verità, ovvero ad un’affermazione contraria a ciò che il soggetto sa, reputa vero o a ciò che pensa; secondo Anolli (2003), esperto in
comunicazione, essa si contraddistingue quindi per:

  • falsità del contenuto; di quanto, cioè, l’interlocutore comunica in modo linguistico o extralinguistico;
  • consapevolezza di tale falsità da parte dell’interlocutore;
  • intenzione di ingannare il destinatario, ricevente del nostro messaggio.

Possiamo definire perciò la menzogna come l’atto comunicativo consapevole e deliberato di ingannare un altro, inconsapevole e non desideroso di essere ingannato. Da quanto affermato emerge che sia l’intenzionalità a costituire la caratteristica specifica dell’atteggiamento falso: premeditazione e consapevolezza rafforzano il concetto per cui la menzogna richiede un atteggiamento particolarmente complesso da parte di chi mente.

A tal proposito lo psicologo statunitense Paul Ekman esperto e pioniere degli studi sulla menzogna afferma:

«Nella mia definizione di menzogna, allora, una persona intende trarre in inganno un’altra deliberatamente, senza avvertire delle sue intenzioni e senza che il destinatario dell’inganno gliel’abbia esplicitamente chiesto» (2012, 14).

Il mentitore può dunque scegliere se mentire o meno, trarre in inganno la vittima è un atto deliberato. Ci sono due modi principali di mentire: dissimulare e falsificare. Nel primo chi mente nasconde certe informazioni senza dire
effettivamente nulla di falso. Nella falsificazione invece ci si spinge oltre poiché non solo l’informazione vera è taciuta, ma un’informazione falsa viene proposta al pari di una vera. Nella circostanza in cui all’interlocutore sia data la possibilità di scegliere con quale modalità mentire è usuale che quest’ultimo prediligerà la dissimulazione alla falsificazione. La spiegazione risiede nel fatto che nascondere qualcosa è più facile che riferire il falso e sembrerebbe meno riprovevole dell’esplicita falsificazione: è un comportamento passivo, non attivo ed implica meno colpevolezza (Ekman, 2012).

Nel trattare la menzogna non è sufficiente, però, considerarne solo l’autore in quanto, a prescindere dalle circostanze o dalle motivazioni, l’attuabilità del comportamento falso resta imprescindibilmente condizionata dal destinatario del messaggio: mentire, contrariamente all’opinione comune, è un atto collaborativo proprio perché «la menzogna non ha nessun valore di per sé. Il suo potere emerge quando l’interlocutore accetta di credere nella bugia» (Meyer, 2011).

Ekman sostiene a riguardo che «sarebbe curioso chiamare bugiardi gli attori: il loro pubblico è d’accordo di lasciarsi ingannare per qualche tempo e loro sono lì apposta. A differenza del truffatore, l’attore si camuffa avvertendo esplicitamente che il personaggio è una finzione temporanea» (2011, 16). Anolli nella sua definizione di menzogna aggiunge che l’atto del mentire è sempre un’interazione sociale e un atto comunicativo rivolto ad un destinatario.

Quest’ultimo può assumere la funzione di “vittima” (quando crede nella menzogna del mentitore) o quella di “smascheratore” (quando scopre la menzogna). Parliamo nel primo caso di “successo” della menzogna; nel secondo caso di “insuccesso”.

Le motivazioni alla base di tale atto collaborativo possono invece essere svariate. A volte partecipiamo deliberatamente ad un inganno per mantenere la nostra dignità sociale o un segreto che non deve essere svelato, altre volte nostro malgrado e spesso può costarci caro. «Le menzogne possono indebolire il nostro paese, comprometterne la sicurezza, indebolire la democrazia, provocare la morte di chi ci dovrebbe difendere», afferma Pamela Mayer, esperta statunitense di frode, ma, – continua – «una cosa è sicura: tutte le volte che ci hanno mentiti è perché noi glielo abbiamo permesso» (Mayer, 2011).

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