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Ipnosi neo-ericksoniana: come funziona

Da Erickson ai neo-ericksoniani

Milton Erickson trasformò l’ipnosi in una vera e propria psicoterapia ma non fondò mai una sua scuola (Mosconi, 2008).

Egli elaborò un vastissimo numero di tecniche suggestive, ma si  manifestò sempre preoccupato riguardo al fatto che si costringesse la sua pratica terapeutica all’interno di formulari procedurali.

Erickson riteneva, infatti, che non esistessero tecniche ipnotiche standard, universalmente applicabili ad ogni paziente, poiché ogni individuo è unico, così come lo sono i suoi problemi (AMISI, 2001).

 

Sollecitava inoltre i suoi allievi ad elaborare autonomamente delle procedure originali senza ripetere artificiosamente tecniche apprese da lui o da altri (Short & Casula, 2004).

Nel rapport, quindi, era di vitale importanza che essi tenessero conto non solo dell’individualità del paziente ma anche della propria.

Contemporaneamente, però, il terapeuta, che porta con sé la sua esperienza di vita e la sua rappresentazione della realtà, non avrebbe dovuto in alcun modo agire i suoi preconcetti ma immedesimandosi empaticamente con il suo paziente, accettarne sinceramente la visione del mondo (AMISI, 2015).

Haley (1973) sosteneva che l’aspetto maggiormente paradossale della terapia ericksoniana, fosse l’esistenza contemporanea di accettazione di tutto ciò che apparteneva al paziente e di una sua capacità straordinaria nel condurlo verso il cambiamento.

Erickson non si limitò ad ampliare il repertorio di tecniche suggestive, ma rivoluzionò l’ipnosi, assegnando un peso specifico diverso alle componenti costitutive delle procedure ipnotiche, sostanzialmente ridimensionandone l’importanza a favore della centralità della relazione (Erickson, 1944).

Ancor oggi i neo-ericksoniani considerano l’ipnosi un processo attivo basato sulla comunicazione e sulla relazione (AMISI, 2008, 2015).

Le tecniche terapeutiche non sono più mezzi da applicare al soggetto per ottenere un effetto, come nelle prime concezioni dell’ipnosi, ma si configurano come modalità di interazione con cui lo psicoterapeuta modella innanzitutto i suoi atteggiamenti e comportamenti, e poi guida e sorregge il paziente per aiutarlo ad orientarsi verso la sua (auto)guarigione.

Dietro l’apparente naturalezza con la quale Erickson gestiva le situazioni, si celava un costante lavoro di affinamento di sé e di monitoraggio del proprio modo di relazionarsi e di adattare la sua comunicazione a quella del paziente.

Il culto della personalità di Erickson, venerata dai suoi successori come un simulacro, rischia di trascurare l’importanza che ebbe il suo impegno profuso nell’osservare, affinare, elaborare e personalizzare l’intervento psicoterapeutico che era unico per ogni individuo.

Il primo obiettivo degli psicoterapeuti neo-ericksoniani di oggi è di “ripristinare le corrette proporzioni” delle diverse componenti della psicoterapia ericksoniana. Senza esaltare acriticamente le indubbie doti terapeutiche dimostrate da Erickson, si deve mirare a proseguire il suo lavoro scientifico di definizione e miglioramento dell’approccio terapeutico, cercando di supportarne l’efficacia con osservazioni ed esperimenti, soprattutto in relazione alla comunicazione e alla relazione, piuttosto che all’armamentario pratico-induttivo (Mosconi, 1998).

Le innovazioni introdotte dai neo-ericksoniani sono state sintetizzate da Mosconi (2008) e interessano numerosi costrutti epistemologici, nonché strumenti di valutazione e modalità di relazione, tuttavia non si pongono in una posizione di rottura rispetto a Erickson.

Lo spirito critico con cui sono state introdotte non scaturisce da un rifiuto della metodologia ericksoniana, ma dal desiderio di far chiarezza su alcuni aspetti che il maestro non aveva esposto dettagliatamente o, per i quali, nel periodo in cui visse Erickson, non si disponeva di sufficienti conoscenze scientifiche che potessero dar credito alle sue raffinate intuizioni.

Lo sforzo degli studiosi e psicoterapeuti neo-ericksoniani è stato sostenuto dalla fiducia nella validità delle intuizioni ericksoniane e dalla convinzione che non dovessero essere superate, ma soltanto accuratamente ricostruite, per ottenere una visione completa del suo operato, non fornita da lui in modo sistematico in un’unica opera definitiva (Mosconi, 2008).

Negli ultimi anni, inoltre, è cambiato il contesto culturale, sociale e tecnologico e ciò ha dato ulteriore impulso alla rivisitazione dell’approccio ericksoniano.

Tali cambiamenti, hanno comportato un mutamento negli assetti di personalità e nei comportamenti delle persone, e spesso anche un disorientamento causato dalla complessità dei nuovi scenari.

Gli approcci psicoterapeutici, quindi, hanno dovuto adeguare i loro strumenti al mondo moderno.

I percorsi di psicoterapia, non soltanto ipnotica, offerti ai pazienti o semplicemente ai clienti che chiedono non una cura, ma un miglioramento di se stessi, sono cambiati per rispondere a queste diverse esigenze, e sono progettati per facilitare nelle persone una ridefinizione continua della propria identità e favorirne l’adattamento a nuove richieste psicosociali e professionali.

Per raggiungere il loro obiettivo, spesso i nuovi terapeuti devono collaborare con colleghi di atri approcci. La convergenza tra correnti e il comune impegno, contribuisce a rendere efficaci i propri interventi, mantenendo ciascuno il proprio modello (Rossi, 2004).

Da questa duplice spinta, la rielaborazione dell’eredità ericksoniana e il suo adeguamento a un mutato contesto psicosociale, ha preso dunque l’avvio il nuovo approccio ericksoniano.

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