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Come nutrire l’inconscio con l’Ipnosi Ericksoniana

L’ipnosi ericksoniana si proponeva soprattutto come un “modello di manovre relazionali”, dunque non esaltava aspetti formali e procedurali, quanto quelli umani (Mosconi, 2004).

Le manovre erano secondarie rispetto al rapporto che il terapeuta sapeva stabilire, poiché l’elemento effettivamente terapeutico era la relazione.

L’approccio ericksoniano non favoriva la dipendenza del paziente ma, bensì, la sua autonomia, poiché non immetteva nella sua mente contenuti esterni, ma si limitava a riattivare strumenti già disponibili, benché sopiti.

I neo-ericksoniani accettano in pieno la visione di Erickson, studiando soprattutto la comunicazione e il rapporto tra il terapeuta e il paziente, ed assurgendo la loro relazione ad elemento principe della metodologia ipnotica.

La relazione è intesa come scambio comunicativo, cognitivo e affettivo (Rossi, 2004).

All’interno di questi scambi, vengono bilanciati elementi spontanei ed elementi tecnici, al fine di ottenere un cambiamento, che quindi non viene determinato in modo autoritario, ma facilitato, ponendo il paziente nella condizione di attuarlo in autonomia grazie alle sue forze (risorse, apprendimenti precedenti, ricordi, esperienze, intuizioni).

Il terapeuta cerca di facilitare il cambiamento, fornendo una spinta che innesca il processo verso la guarigione.

Il paziente ipnotizzato anche se si indicasse da solo il percorso da seguire per giungere alla meta, lo farebbe seguendo il suo consueto modo di rappresentarsi la realtà senza, quindi, aver alcuna possibilità di riuscita nel suo intento. Rimuginando da solo non troverebbe la soluzione al suo problema, in quanto rimarrebbe invischiato al suo interno. Solo un impulso esterno, quindi, può mobilitare il percorso.

Il paziente, nel momento in cui si rivolge ad un terapeuta, nell’ottica neo-ericksoniana non va più considerato come colui che soffre, affetto da una patologia che subisce impotente, ma come un soggetto già immesso nella via del cambiamento.

L’intervento dello psicoterapeuta si concentra sul qui e ora, valutando la situazione in cui il paziente si trova, e sostenendolo nel processo di trasformazione e di cambiamento già intravisto da lui nel momento in cui chiede aiuto.

Il terapeuta aiuta il paziente a recuperare gli strumenti per procedere, modulando l’elaborazione dei contenuti consci e inconsci del suo mondo (Rossi, 2001).

L’ipnosi neo-ericksoniana non è dunque soltanto una psicoterapia ma è, più ampiamente, un percorso di trasformazione e sviluppo personale (Rossi, 2004).

L’utilizzo delle tecniche ha come finalità l’integrazione di procedure cliniche che sono basate, però, essenzialmente sulla relazione (Lanzini, 2008).

Questo ne ridimensiona l’importanza, sottolinea il passaggio da un sapere “tecnologico” e da un modello medico di impostazione dell’intervento, rivolto a riparare ortopedicamente una patologia, a un approccio cooperativo dove l’interazione tra paziente e terapeuta consente una costruzione e un aggiustamento costanti degli obiettivi.

L’approccio neo-ericksoniano è impegnato a osservare e calibrare la relazione, sviluppando nel terapeuta la sensibilità, l’intuizione e il rapporto.

Il terapeuta neo-ericksoniano aiuta la riattivazione delle potenzialità del paziente ed è un facilitatore del processo d’ideopoiesi, che consiste nel creare nuove modalità di comportamento, non imitando modelli proposti come efficaci, ma sintetizzando elementi derivati dalla propria esperienza (Lanzini, 2008).

Data la complessità e delicatezza richiesta dalla relazione terapeuta-paziente, per apprendere la psicoterapia ipnotica neo-ericksoniana si rende necessario un training individualizzato, una supervisione e un percorso di conoscenza di sé che possa aiutare il terapeuta a monitorare la relazione e le emozioni che quest’ultima suscita in lui, e ad evitare di spostare l’attenzione dalla relazione al “feticcio” rassicurante delle manovre induttive.

Se infatti prevale il tecnicismo il percorso per risolvere i problemi è prevalentemente conscio.

Questo modus agendi può far perdere la fiducia del paziente in se stesso, facendolo sentire dipendente da ausili esterni, invece che stimolato ad imparare ad apprendere, e può trasformare la relazione da terapeutica a pedagogica sancendo la superiorità del terapeuta, depositario della verità, e orientando il suo intervento in un’ottica paternalistica e autoritaria (Pignatti, 2008).

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