Quando l’analfabetismo emotivo diventa un problema

Articolo di Erika Bruno

La capacità di regolare i propri stati emotivi e i comportamenti, adeguandoli alle diverse circostanze, si acquisisce se la storia affettiva vissuta da piccoli con la figura di riferimento è stata valida.
Tale capacità è strettamente legata al concetto di empatia, come capacità di identificarsi emotivamente con l’altro, per coglierne pensieri e sentimenti, e implica l’assunzione della prospettiva emotiva altrui, nella condivisione di emozioni e sentimenti. Conoscere e saper gestire i propri vissuti emotivi è determinante ai fini dell’equilibrio e del benessere psicofisico individuale. Il sostegno e l’azione mediatrice degli adulti significativi consentono al ragazzo di apprendere le strategie atte ad affrontare i conflitti, per instaurare in futuro relazioni sane, basate sulla comprensione, il rispetto delle regole e del punto di vista altrui.


L’alfabetizzazione emotiva è filtrata fin da subito dalla presenza dell’altro significativo e dalle sue capacità di comunicazione. I comportamenti devianti, in età giovanile, possono essere considerati espressione dell’anomia valoriale e relazionale riconducibile, a sua volta, a carenze ed errori nel processo di socializzazione primaria.
Si parla di intelligenza interpersonale come della facoltà di organizzare la propria condotta per interagire con gli altri in modo non violento. Alla base c’è la ricezione accurata dei messaggi emotivi (abilità prosociale), che ci rende più efficaci sia nelle relazioni intime sia nel cogliere le regole implicite che conducono verso il successo sociale.
Il rischio di sviluppare un ‘deficit emotivo’ subentra quando la personale capacità di valutazione e risposta alle situazioni sociali è immatura.
Indicativo del legame esistente tra abilità emotiva (interpersonale) e intelligenza intrapsichica, è il concetto di “intelligenza multipla”, avanzato da Gardner (1993). Tale capacità si baserebbe sull’assunto in base al quale, per avere successo negli aspetti pratici della vita, occorre possedere, oltre ai due tipi standard di intelligenza scolastica (verbale e logico-matematica), un’ampia varietà di intelligenze, tra cui quella emotiva.

Il disadattamento non sfocia sempre nella patologia, e rispecchia la tendenza individuale atta a risolvere le problematiche esistenziali al di fuori dei modelli accettati dal gruppo sociale di appartenenza, entrando con questi in contrasto. L’individuo manifesta un disagio che non riesce a superare, da ricondursi sia al proprio mondo interiore che al contesto sociale.
Ancora una volta gli studi sull’argomento confermano l’ipotesi della determinante familiare, intesa soprattutto come carenza affettiva. Marisa Malagoli Togliatti descrive così il legame di dipendenza non risolto:

«L’individuo disadattato è un individuo che ha subito privazioni o carenze affettive. Ha avuto spesso genitori inadeguati, ostili o rifiutanti che non riescono a sviluppare il ‘senso sociale’ del bambino. Di fronte alle varie manifestazioni di rifiuto da parte dei genitori, i meccanismi di condotta sociale e di controllo non vengono interiorizzati, il processo di identificazione viene danneggiato e la vita emotiva resta orientata in senso egocentrico, per cui l’aggressività – non riuscendo a risolversi verso l’interno e a contribuire alla formazione dei meccanismi interiori di autocontrollo – viene manifestata attraverso comportamenti antisociali».

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