Come spiegare la morte ai bambini

 

«Chi insegnerà agli uomini a morire, insegnerà loro a vivere»: questo aforisma di Montaigne afferma che è difficile imparare a vivere senza aver trovato qualche soluzione al problema della morte, cioè senza aver avuto nessun insegnante in merito.

La tesi, a mio parere, sembra essere convincente.

Si immagini, infatti, la vita di coloro che sono dominati dai sentimenti di paura e/o di angoscia al solo pensiero della morte.

Chi ha tanta paura di morire tenderà ad aver «paura di tutto» – perché si può rischiare di morire anche inciampando su un gradino di casa -, o a sviluppare qualche paura «preventiva» (fobia), che consiste nell’evitare ciò che fa pensare al rischio di morire, come la fobia dell’aereo, dei luoghi affollati, del buio o della morte stessa.

Chi teme che il nulla ci attenda dopo la morte, cioè chi pensa che si viva una volta sola e soffre di quella particolare sofferenza che i filosofi, come Heidegger41, hanno chiamato «angoscia di morte», dovrà impegnarsi nella sempre incerta ricerca dell’eternità e dell’infinito, se vuole annullare il nulla dopo la morte, o dovrà trovare il coraggio di vivere come se ogni istante fosse l’ultimo, se vuole fare l’eroe di fronte al nulla.

Chi desidera la morte ogni volta che non riesce a sopportare la vita avrà una vita precaria e la disprezzerà ogni volta che soffre troppo.

Per non «rovinarsi» la vita in uno di questi tre modi sembrano esserci solo due possibilità: o eliminare i sentimenti che accompagnano la morte (cioè paura, angoscia e desiderio) «separando» la morte dalla vita, oppure tenerseli ed «educarli», in modo da rendere vivibile la vita nonostante la morte.

La prima alternativa è quella preferita dalla nostra cultura, la seconda è quella suggerita dall’aforisma di Montaigne.

Ecco perché nell’epoca attuale l’educazione alla morte tende a non far parte dell’educazione alla vita e l’educazione alla vita di oggi si basa proprio sul tentativo di far scomparire i sentimenti che accompagnano la morte.

I bambini sperimentano abbastanza presto la paura di morire: infatti, sono talvolta sconvolti quando al posto di qualcuno c’è un’assenza o un vuoto e in rari casi possono arrivare a rifiutare di vivere quando non ce la fanno; ma non li si educa a considerare questi sentimenti come «normali» e inevitabili imparando a gestirli e a superarli crescendo.
Anzi, quasi sempre, si fa di tutto perché i bambini li cancellino, come se tali sentimenti fossero inadatti al fatto stesso di essere bambini.

Alla domanda di un bambino «Mamma, poi muoio, vero?», si risponde, nel contesto culturale odierno, in base al linguaggio del destinatario, quasi sempre in una delle possibili varianti della seguente esclamazione: «Ma cosa dici, bambino mio?! I bambini non devono interessarsi di queste cose!».

Nell’ottica suggerita da Montaigne, bisognerebbe, invece, rispondere pressappoco in questo modo: «Tutti, prima o poi, dobbiamo morire e crescendo imparerai che, pur non volendolo, alla fine tutti muoiono».

Ci si chiede, allora, quale delle due alternative sia preferibile42.
Per poter rispondere a questa domanda, bisogna chiedersi attraverso quali vie esse si possono attuare nell’iter educativo concreto di ciascun bambino, in che misura siano attuabili e con quali conseguenze.

Nell’educazione dei bambini la prima alternativa, ossia eliminare i sentimenti che accompagnano la morte separando la morte dalla vita, si attua tutte le volte in cui, di fronte a un bambino che esprime paura, angoscia o desiderio di morire, si pensa che nell’infanzia non si dovrebbero nutrire tali sentimenti e lo si aiuta a «distrarsi», «sostituendoli» con altri sentimenti più positivi e più «vitali».

Le vie che si utilizzano per portare avanti questo tentativo sono vie di rassicurazione e di gratificazione che «cambiano» i sentimenti del bambino: quindi, l’espressione «ho paura di morire» può diventare «ho voglia di giocare»; oppure l’espressione «come faccio senza la mamma?» può diventare «la mamma mi manca tanto ma io sto bene lo stesso»…..ecc.

Si possono fare degli esempi in merito:

1. Dalla paura di morire alla voglia di giocare
«Mario è morto e non torna più. Anche noi non torneremo più? Ho paura!».
«Dai, non pensarci, prendi la bicicletta che andiamo al parco!».

2. Non pensare a chi hai perso, pensa a coloro che ci sono
«Come faccio senza la mamma?».
«C’è papà, ci sono i nonni, i fratellini e gli amici che ti vogliono tanto bene…».

3. Non voglio più morire se morire significa non poter fare più niente
«Papà è morto e voglio morire anch’io».
«E come fai dopo a fare tutto quello che vuoi?».

Questi esempi sintetizzano l’indicazione dominante della nostra epoca che suona circa così: «Distraiti dall’idea della morte con qualcosa di gratificante; se perdi qualcuno, assicurati di poterlo sostituire con altre persone care e continua a vivere il meglio possibile; se non sei contento della vita e ti viene voglia di rifiutarla, pensa che qualsiasi cosa tu voglia fare lo puoi fare solo se resti vivo».

Un numero sempre maggiore di genitori e di educatori segue l’indicazione dello «spirito dei tempi», cercando di attuare la conseguente strategia educativa.

Questo può verificarsi quando non sono forti la paura, l’angoscia e il desiderio di morte del bambino. Diversamente, non si riesce a distrarlo e i sentimenti di morte permangono dentro di lui.

Si potrebbe allora dire che i genitori e gli educatori possono cercare di attuare questa alternativa fino a quando i sentimenti di morte non si rafforzano a tal punto tale che diventa impossibile cancellarli nella mente del bambino.

Infatti, come conferma tutta la letteratura sull’argomento, i problemi di questa strategia sorgono allorché chi dovrebbe rassicurare e gratificare il bambino, distraendolo così dalla morte, non riesce nel suo intento, o perché la rassicurazione sulla possibilità di sostituire chi non c’è più non è abbastanza convincente, o perché di fronte alla morte il rifiuto della vita da parte del bambino è più forte di qualsiasi desiderio da realizzare.

Le principali conseguenze di questa scelta educativa, quando essa ha successo, i bambini non pensano alla morte, non hanno più paura di tutto e non sviluppano fobie;

  • i bambini non hanno bisogno di annullare il nulla della morte né di trovare il coraggio di affrontarlo, e non sentono l’angoscia della morte perché riempiono il nulla della morte con altra vita (se, ad esempio, perdono la madre ne sostituiscono il bisogno con altre relazioni);
  • i bambini non sentiranno la precarietà della vita e non la disprezzeranno mai perché non soffriranno mai più di tanto.

In sostanza, questa alternativa educativa si attuerà a condizione che si riesca ad aiutare il bambino a:

  • non avere più paura della propria morte ignorandola in qualche modo;
  • superare il lutto per la morte dei cari sostituendoli;
  • essere sempre abbastanza felice da amare la vita e da non desiderare la morte.

Per tutti questi motivi, i genitori e gli educatori tendono a preferirla: equivale, infatti, al desiderio più profondo di chi ama un bambino, che consiste nel garantirgli una vita sicura e felice, senza la paura che essa finisca e senza l’angoscia di essere abbandonato.

Purtroppo però ci sono bambini che hanno una forte paura di morire, un’angoscia di abbandono senza rimedio o un profondissimo rifiuto della vita.

Questo accade quando nessuna rassicurazione e gratificazione bastano a «eliminare» e/o «sostituire» i sentimenti di morte di un bambino, e distrarlo da questi sentimenti diventa impossibile.

Questo si verifica: quando gli adulti hanno più paura di morire dei bambini e non sono in grado di rassicurarli e distrarli; quando il bambino ha assistito alla morte violenta di un caro e diventa difficile distrarlo dal ricordo traumatico; quando coloro che restano, non sono in grado di sostituire adeguatamente chi non c’è più e il bambino si sente irreparabilmente abbandonato; infine, quando il bambino è malato o vive in condizioni che rendono la sua vita penosa.

In tutti questi casi non resta che la seconda alternativa, vale a dire quella di tenersi i sentimenti della morte e, nell’educare i bambini, cercare di trasformare i sentimenti di paura della morte, e di conseguente angoscia, in «mezzi» per vivere meglio, utilizzando esempi come: «Mamma, poi muoio, vero?». «Tutti moriremo, ma tra tanto tempo. Nel frattempo troveremo un rimedio…».
C’è, quindi, la seconda alternativa (educare i sentimenti della morte in modo che la mente possa «contenerli» e la vita sia vivibile, nonostante si nutrano sentimenti come la paura, l’angoscia e il desiderio della morte).

Di conseguenza, non si cerca più di distrarre il bambino dai sentimenti di morte, ma gli si indica la possibilità di tenerseli per farsi condurre da essi alla ricerca di un rimedio.

In sostanza, la paura della morte non va contrastata ma «utilizzata» per trovare un modo per combatterne la causa, cioè la morte stessa; e ciò vale anche per l’angoscia e per il desiderio della morte.

Ad esempio:

1.Non ho paura della morte se morire significa acquisire qualcosa di buono
«Bob è morto e non torna più. Anche noi non torneremo più? Ho paura!».
«E se morendo andassimo in un bel posto?».

2.I morti non muoiono mai del tutto e ci possiamo sempre aiutare reciprocamente
«Come faccio senza la mamma?».
«Lo scopriremo insieme. O potremmo scoprire che dovunque sia la mamma ci può sempre aiutare e noi possiamo aiutare lei».

3. Non posso voler morire se non so cosa significa
«Papà è morto e voglio morire anch’io».
«Prima scopriamo se dove è andato è meglio o peggio di essere vivi».
Sono ancora pochi i genitori di oggi che scelgono l’alternativa, ardua e complessa, di aiutare i bambini ad educare i sentimenti di morte senza separarli dalla vita, ma anzi cercando di migliorarla proprio a partire dai sentimenti che la morte stessa determina.

Ciononostante, si tratta di una via obbligata in tutti quei casi in cui la prima via non funziona o va in crisi.

Le principali conseguenze di questa scelta educativa, quando ha successo, sono:

  • non si ha paura del fatto che i bambini pensino alla morte, che abbiano tante paure o sviluppino fobie, perché la morte si può imparare a tenerla nella mente, le paure si possono gestire e le fobie superare crescendo;
  • si può cercare insieme ai bambini di pensare al «nulla» della morte che l’abbandono dei propri cari lascia, perché questo nulla può trasformarsi in qualcosa di eterno e infinito, o cercare di sviluppare il coraggio di guardare in faccia la morte come mezzo per accrescere la dignità del vivere;
  • si potranno aiutare i bambini ad apprezzare la vita anche quando essa è precaria o segnata dalla sofferenza, scoprendo insieme a loro il suo senso e quello della morte.

Continua: nell’ambiente scolastico

a) La Death Education (DeEd)

Il problema dell’educazione dei bambini alla morte va affrontato anche nell’ambiente scolastico.
Infatti, un’educazione alla morte, strutturata in maniera adeguata al contesto scolastico, permette di far fronte alle difficoltà emozionali relative ad una perdita e di attivare strategie di coping e resilienza di fronte agli ostacoli che si presentano durante il percorso di crescita.
L’interesse in ambito scolastico e accademico per la Death Education (DeEd) è nato a partire dalla metà degli anni cinquanta del XX secolo.
La DeEd è uno strumento che si è formato all’interno dei Death Studies (DeSt), i quali indagano e analizzano le varie modalità di incontro con la morte e studiano i comportamenti che persone di diverse culture assumono di fronte ad essa e al dolore che provoca.
Leviton, nella sua opera The scope of Death Education, la definisce come un processo attraverso cui vengono trasmesse le conoscenze circa la morte, il morire e le relative implicazioni.
Inoltre, studiosi come Corr, Morgan e Wass affermano che le persone, affrontando la realtà della morte e del morire, possono vivere più pienamente e, perciò, sostengono l’importanza della DeEd come una componente essenziale dei processi educativi a tutti i livelli e le età in quanto le riflessioni sulla morte comportano una rivalutazione positiva della vita e del suo valore.
Infine, secondo studi recenti, «il rifiuto della morte e del lutto è tra le cause principali di suicidio tra gli adolescenti, soprattutto nel Nord America.
La mancanza palese dell’esperienza della morte tra i bambini e gli adolescenti contribuisce grandemente a suscitare curiosità. Ci sono giovani che si tolgono la vita sotto una spinta emotiva: non hanno compreso che la morte è irreversibile, senza ritorno…»45
Tutto ciò premesso, se è vero che in America Robert Kastenbaum è stato il primo studioso ad aver realizzato, nel 1996, un progetto di Death Education in un corso universitario presso la Wayne University in collaborazione con il primo centro di ricerca sulla morte, non è meno vero che anche in Europa e in Italia sono stati fondati diversi centri di ricerca e studio, tra cui l’attivazione del Master Death Studies & The End of Life presso l’Università di Padova, con lo scopo di promuovere iniziative sull’Educazione alla Morte.
Infatti, di recente, in ambito scolastico, si sono avute interessanti iniziative non solo in ordine alla promozione dell’importanza delle cure palliative e della conoscenza agli studenti, delle strutture che si fanno carico dell’individuo che soffre, proprio come gli hospice, ma anche in ordine allo sviluppo del tema della “finitudine” e l’agevolazione della presa di coscienza nei giovani, prima che questo invada la loro vita in modo traumatico.

Per questo motivo varie associazione hanno avviato dei progetti nella scuola primaria e secondaria, e alcuni anche in collaborazione con progetti di ricerca delle Università (ad esempio, di quella padovana).

Quindi, nelle scuole primarie si tende ad avere un’equipe interdisciplinare di professionisti che cura la formazione degli insegnanti per fornire concreti strumenti didattici, comunicativi e relazionali, coinvolgendo, nel corso dell’attività educativa, anche i genitori, e che tende a privilegiare il lavoro diretto con i bambini utilizzando un approccio narrativo tramite l’uso di fiabe e miti.

Nelle scuole secondarie, poi, si ha, il più delle volte, una formazione degli insegnanti attraverso un ciclo di incontri finalizzato ad avviare una riflessione sui temi affrontati e ad ampliare la gamma degli strumenti didattici che possono essere inseriti all’interno del progetto educativo durante l’anno.

In secondo luogo si effettuano degli incontri esperienziali con gli studenti che seguono due modalità: un approccio narrativo con l’attuazione di un laboratorio di progettazione e realizzazione di video dei racconti creati dai ragazzi, o di storie direttamente costruite sulle suggestioni che l’argomento della finitudine stimola sugli stessi studenti; ed un lavoro concreto esperienziale attraverso l’utilizzo di tecniche di training, visualizzazioni, rilassamento e respirazione per padroneggiare i propri stati emotivi e psichici.

Nelle Università, infine, si propone un lavoro esperienziale più approfondito con gli studenti attraverso l’insegnamento teorico-pratico di tecniche auto-narrative, di semplici tecniche di meditazione e training, associato ad una formazione teorica sulla DeEd.
In prosieguo vengono esaminati alcuni dei progetti scolastici sulla Death Education.

Articolo di Maria Angela Bruno

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