Come le parole guidano (inconsciamente) la mente

Articolo di Emanuela Mangione

Premesse linguistiche alla relazione di aiuto

 

 

“Ci sono solo i fatti,” io direi: no; proprio i fatti

Non ci sono, bensì solo interpretazioni.

Tutto è soggettivo,” dite voi; ma già questa è

Un’interpretazione. Il “soggetto” non è niente

Di dato, è solo qualcosa di aggiunto con

L’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo.

Nella misura in cui la parola “conoscenza”

Ha senso il mondo è conoscibile;

Ma esso è interpretabile in modi diversi,

Non ha dietro di sé un senso,

Ma innumerevoli sensi.

 

  1. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887,
  2. 7 (60), pp. 299-300.

 

 

Date le premesse teoriche fin qui esposte, si intende allora accedere ad una riflessone sia di tipo semiotico che filosofico sulla complessità della comunicazione. Quel che si è tentato qui di considerare è se sia veramente possibile una lettura fedele se non immediata della sintassi, della semantica e della pragmatica che competono alla comunicazione verbale e non verbale, specie all’interno di contesti quali quelli delle relazioni di aiuto. Naturalmente il ricco quadro teorico, di cui qui si è considerata solo una piccolissima parte delle riflessioni partorite nella storia del pensiero, dimostra quanto tortuosa e complicata sia la possibilità di intendere con immediatezza la struttura linguistica che sottende alle varie forme di processi di rappresentazione che ciascuno di noi ha di sé e del mondo, in quanto soggettivi e personali, in quanto determinati da processi di categorizzazione altrettanto variegati ed in quanto passibili di quelle zone qui nominate “noumeniche” che per tale natura paiono non essere intellegibili.

La presenza di una struttura superficiale del linguaggio a cui sottende una parte ben più profonda, conferma la difficoltà ermeneutica che conosce il contesto del counseling oppure può ravvisare una forma di potenziale interpretativo nella misura in cui – abusando impropriamente del termine già utilizzato da Foucault” – non si attui una vera e propria “archeologia” ermeneutica che tenga conto di tutte le componenti possibili della comunicazione, dal gioco linguistico, alla comunicazione inconsapevolmente schizofrenica (patologica), componenti che finiscono per alterare necessariamente la percezione dei bisogni tanto a livello del singolo che collettivo e sociale. Una visione caleidoscopica pertanto o pressoché monadica della varietà linguistica e comunicativa può, piuttosto che sembrare dispersiva, garantire una ricchezza e un bagaglio confortante rispetto al variegato modo di nominare il mondo e di esperirlo.

Ora, la comunicazione pertanto è tale, quando sensata, e cioè quando riduttivamente, la risposta che viene data a seguito della domanda pare coerente. Ma allora, qual è la domanda che permea ogni tipo di comunicazione se non quella di rintracciare un senso sempre?

All’interno delle relazioni consulenziali di aiuto, la domanda di senso diventa il modo più o meno nobile con cui l’individuo può riflettere sulla propria esperienza del negativo e sulla sua sofferenza. In questa direzione il counseling, che non si pone come pratica terapeutica, quanto come pratica “filosofica”, può dunque essere funzionale ad intervenire prima ancora che sulle risposte, sulle domande e verificare cioè se quelle domande così poste dal cliente abbiano un senso, o se il non senso piuttosto sia da addebitare al modo in cui questa domanda è stata posta: ergo, cattive domande, cattive le risposte. Le risposte infatti che l’individuo si dà circa la propria esperienza individuano i comportamenti messi in atto, l’agire, che è forma mentis. “Il linguaggio è la casa dell’essere – annunciava Heidegger – e l’uomo è il custode di questa casa”[1].

Solo alla fine dell’Ottocento la filosofia romantica ha superato il concetto di “Io” impiantato da una forma di platonismo narcisistico col seguente battesimo di Cartesio in età moderna. Schelling e Schopenhauer infatti superando il concetto monistico di individualità come “io”, si concedono all’idea che l’uomo sia piuttosto abitato da due soggettività, quella della specie e quella dell’individuo.

Per soggettività della specie si intendono le azioni che è l’uomo compie al fine di conservare se stesso, coincidendo dunque con i fini della conservazione della specie e dunque con l’obiettivo della natura, obiettivo che a livello cosciente l’uomo pare ignorare, pretendendo pertanto di progettare liberamente la propria esistenza per sé, mentre per soggettività individuale si intendono le azioni che l’individuo compie al fine di ottemperare ai propri progetti di vita che poi a ben vedere finiscono ugualmente per coincidere con gli interessi della specie. I livelli si differenziano pertanto da uno scacco percettivo che l’uomo ha di se stesso e della propria esistenza.

Entrambe queste posizioni, hanno finito pertanto nell’individuare le due parole tanto care all’azione terapeutica, “Inconscio” ed “Io” sulle quali questa interviene nel tentativo di rimuovere dolori e disagi connessi a sintomi nevrotici.

L’approccio consulenziale invece, si discosta dall’azione terapeutica esattamente su questo livello: essa interviene sul linguaggio comportamentale e non, attraverso un intervento rimodulatorio delle risposte e delle domande, con un processo quasi a ritroso che intervenga sulla sfera cosciente prima ed incosciente poi, ma non indaga nei meandri del profondo, non interroga il dolore negli antri in cui si àncora, come la fa la psicoanalisi, nel tentativo di guarire da sofferenze che spesso si radicano nel disagio profondo dell’esistenza connesso all’angoscia della tensione tra le opposte pulsioni di vita e di morte.

La relazione consulenziale allora, trova ragion d’essere, anche in questo caso, proprio per quello scarto ancora una volta, se vogliamo “noumenico” tra coscio ed inconscio, tra linguaggio che è parola e struttura dell’anima e linguaggio che racconta la rappresentazione del sé.  Già Freud sapeva infatti che:

 

Inconscio è un aggettivo che accompagna tutti quei contenuti che sfuggono alla coscienza, sa che il sogno è sempre la narrazione di un sogno, sa che della pulsione noi conosciamo solo la sua rappresentazione. Questi rilievi sono essenziali perché delimitano l’area dello psichico, che è occupata non da cose, ma dalla rappresentazione delle cose, dal senso che le cose assumono per noi. Fuori da questo scenario non c’è psyché, ma bios nel senso “biologico” della parola. […] Nessuno di noi, infatti, abita il proprio corpo, la propria malattia, il proprio dolore, la propria salute, perché tutti abitiamo la rappresentazione del nostro corpo, della nostra malattia, del nostro dolore. Ciò significa che il mondo delle cose ci ignora, perché a conoscerci sono solo i nomi che noi abbiamo dato alle cose in base a come ce le siamo rappresentate. Il mondo non ci parla se non con le nostre parole”[2];

 

Ne consegue che sia possibile una terapia della parola fino a quanto lo specialista abbia ben chiaro che egli debba lavorare non sulle pulsioni e sull’inconscio, quanto sui processi di rappresentazione.

Insomma lo scarto noumenico che si insinua tra ciò che davvero siamo, Es, e la rappresentazione che noi abbiamo di noi stessi, Io, porta Nietzsche a dire. “Soggetto è la finzione derivante dall’immaginare che molti stati eguali in noi siano opera di un solo sostrato; ma siamo noi che abbiamo creato l’ “uguaglianza” di questi stati, il dato di fatto è il nostro farli uguali e sistemarli, non l’uguaglianza (che anzi è da negare).”[3] Già Nietzsche insomma aveva promosso quel processo di ribaltamento logico-ontologico impostato da Cartesio. Se per Cartesio infatti, la giustificazione dell’esistenza individuale veniva dimostrata dall’azione di un Io pensante, con la priorità tanto logica ontologica e cronologica dell’io sul pensiero, come condizione di pensabilità, per Nietzsche il pensiero diveniva piuttosto la condizione di generabilità di un io condizionato dal pensiero stesso, ancora un io dunque rappresentato, una rappresentazione di Io.[4]

[1] Heidegger M., Lettera sull’umanismo, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 312.

[2] U. Galimberti, La casa di psiche, dalla psicanalisi alla pratica filosofica, Universale economica Feltrinelli Milano, III edizione, 2009, p. 33.

[3] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, cit., 1971, vol. VIII, 2 fr. 10, (19), p. 116.

[4] “Una volta si credeva all’ “anima” come si credeva alla grammatica e al soggetto grammaticale; si diceva: “Io” è condizione, “penso” è predicato e condizionato – il pensare è un’attività per la quale un soggetto deve essere pensato come causa. Si cercò allora, con un’ostinazione e un’astuzia mirabili, se non fosse vero caso mai il contrario: “penso” condizione, “Io” condizionato; “Io” dunque soltanto una sintesi che viene fatta dal pensiero stesso.” F. Nietzsche, Al di là del Bene e del Male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, in Opere, cit., 1972, vol. VI, 2, §,54, p. 60.

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