creatività scuola

Il potere indiscusso del cervello creativo

“Un quadro deve essere dipinto

con lo stesso sentimento con cui

il criminale commette il suo crimine […]

Questo è il segreto prezioso e colpevole”[1]

Mann

 

 

Un libro, un racconto, rappresenta quel che McLuhan aveva definito un “mezzo caldo”[2]. Un “mezzo caldo” è quel mezzo il quale, fornendo poche informazioni, consente al fruitore di dover compensare la comprensione attraverso mezzi propri. In questo caso la scrittura sollecita ad esempio la nostra fantasia, nel senso che induce il lettore ad uno sforzo immaginativo/visivo permettendo una sorta di proiezione cinetica delle immagini che egli produce con l’immaginazione. La televisione al contrario è un “mezzo freddo” perché chi ne usufruisce ha già tutto bell’e confezionato quanto a contenuti ed immagini e lo sforzo che egli deve compiere per completarne la comprensione è minimo. In entrambi i casi si parla di mezzo, nel senso di medium come lo strumento attraverso il quale è possibile un apprendimento.

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Nelle relazioni consulenziali il medium è dunque fornito dalla narrazione che il cliente fa di sé, perché, al di là del contenuto, il fatto stesso di avere la concentrazione sulla propria narrazione, induce una consapevolezza da parte del cliente che non sussisterebbe se egli rimanesse inosservato.

In questo senso, tanto l’oralità insita nella narrazione, quanto la scrittura dei racconti, si riferiscono ad un comune denominatore: quello della fantasia e dell’immaginazione. Se questo è vero, come lo è, è facile intuire quanto la medesima giochi un ruolo imprescindibile all’interno del processo di autoguarigione: il cliente in seduta è colui che ha perso la fantasia su se stesso e sui propri modelli di comportamento, vede se stesso in un certo modo e si comporta in un modo che non lo fa sentire bene. Egli deve essere pertanto indotto a diventare creativo, ad immaginare prima e sperimentare poi nuove modalità di sé, a fare progetti. La fantasia ha un potere eccezionale: essa è uno strumento portentoso perché assembla in sé il potere dell’anima (inteso come sentire sentimento emozione, amore) e quello della mente. Entrambe le dimensioni della fantasia si autoalimentano in uno scambio reciproco man mano che ci si cimenti sempre di più al suo avvalersi: al crescere della fantasia cresce l’eros (socratico platonico, l’amore per le cose, per la vita, l’interesse) e di contro, il pulsare del sentimento accresce la fantasia. Il processo è esattamente quello che si verifica nell’innamoramento: così come al sentimento compete il progetto, lo slancio della fantasia, allo stesso modo la fantasia nutre l’innamoramento, perché stralcia il velo dell’indifferenza e del non senso, induce ad attribuire significati diversi alle cose, sovverte l’ordine, la stabilità, il noto, che per usare la metafora jaspersiana[3] sono regolati dalla legge del giorno che nulla sa della passione della notte.

Al pari, Otto Rank, filosofo e psicoanalista austriaco, riconosceva alla volontà creativa personale il potere di creare alla lunga la propria personalità e la nevrosi come determinata dall’impossibilità sopraggiunta del paziente a volere in maniera creativa[4]. A questo proposito Rank scrive: “Il tipo creativo è capace di creare volontariamente degli elementi impulsivi e inoltre di sviluppare i suoi modelli al di là delle identificazioni della moralità del Super-Io verso una formazione ideale che guida e regola in maniera cosciente questa volontà creativa in termini di personalità. Il punto essenziale di questo processo è rappresentato dal fatto che egli sviluppa il proprio Io ideale a partire da se stesso, non solamente sulla base di fattori dati, ma anche di fattori liberamente scelti, che e li persegue in maniera cosciente”[5] autonomia personale creativa che “rende per la prima volta comprensibile la potenza e la realizzazione creativa, al posto dell’insipido e impotente concetto di sublimazione, che prolunga un’esistenza grigia nella psicoanalisi”[6]. Rank crede a tal punto nel potere vivificante della creatività da spingersi ad ipotizzare la nevrosi come un processo che si inneschi nell’ “artista mancato”, cioè in colui il quale, pur essendo presente un gran potere creativo non gli riesca di produrre alcun tipo di arte. Più in generale la nevrosi – asserisce Rank – appartiene a tutti quegli individui che cercano di creare (almeno come ognuno di noi è costretto a fare nella vita), ma che per qualche motivo sono impossibilitati a produrre qualcosa di creativo. Così dicendo insomma siamo riportati a considerare che la creatività pertanto manomessa, crei un disequilibrio tale e tali tensioni, da determinare un disturbo di personalità: “Io cerco di mettere in luce nel nevrotico” allo dice Rank, “la sovrumana scintilla divina”[7].

Anche Jung attribuisce il medesimo valore alla fantasia: “Ma vi è mai stato qualcosa di grande, che non abbia cominciato coll’essere fantasia?”[8], “Non l’artista soltanto, ma ogni uomo che sia un creatore deve alla fantasia tutte le cose più grandi della sua vita. Il principio dinamico della fantasia è il fattore gioco, che è proprio del bambino, e che come tale è incompatibile col principio del lavoro serio. Ma senza questo giocare con le fantasie non è ancora mai nata un’opera originale”[9].

Per Jung la creatività alberga nel nostro inconscio collettivo, è quella forza che sconvolge l’uomo durante la creazione artistica per cui smette di essere in quel momento individuo e diventa l’uomo/tutti gli uomini, in un ritorno allo stadio di partecipazione mistica.

Rollo May, riflettendo sul delirio creativo dell’artista, descrive così lo stato emotivo che la realizzazione dell’opera d’arte solleva: nel momento creativo vi è un  trasporto per cui “egli non ha coscienza d’altro se non dell’atto creativo” e, a quadro finito, è sì in uno stato di prostrazione dovuto alla catarsi ma nello stesso tempo prova un gran senso di colpa: “ questo senso di colpa consiste prima di tutto nella consapevolezza che il quadro non è perfetto come dovrebbe, vale a dire che non corrisponde alla visione ideale che il pittore aveva in mente. Ma in un secondo luogo, e ciò è più significativo, consiste nella consapevolezza che è accaduto qualcosa di grande di cui l’artista non era degno. I grandi artisti hanno la curiosa sensazione di avere a che fare con qualcosa di pericoloso. Per un attimo sono giunti alle soglie della bellezza pura, e la reazione è simile a quella dei popoli primitivi, che si sentivano in colpa nel toccare l’altare dell’infinito”. [10]

 Quando questo fluire è spezzato, tappato per qualche motivo, questa pulsione creativa svicola all’esterno sotto forma di nevrosi, perché ci viene negata la nostra natura come ἐντελέχεια[11] (=entelechia), principio descritto da Jung[12] che ha ripreso da Aristotele.

Aristotele aveva parlato di entelechia secoli prima, riconoscendo negli esseri viventi la presenza dell’atto in potenza – la quercia che la ghianda promette – quasi a intendere che noi dovremmo tendere alle nostre vocazioni “promesse”, pena la malattia. È sorprendente verificare quanto questa natura creativa, nostra linfa vitale, sia evidente in quell’essere spontaneo che è il bambino: proprio nel momento del gioco – a cui tanta parte della psicologia infantile guarda con rispetto – si svela già il nostro ἀρχή (= archè).  A questo proposito riporto alcuni momenti delle pagine di Hillman:

 

 

“L’attività immaginativa esige attenzione assoluta. Quando si trova nel territorio dell’immaginazione, la mente non può tollerare interruzioni, né più né meno che quando stiamo cercando di individuare il guasto nell’impianto elettrico, o vogliamo evitare che la maionese impazzisca o stiamo preparando gli appunti per la riunione di domani. E quando un bambino sta seduto per terra tutto sporco e bagnato con tre bambole in braccio, oppure, in giardino, corre come un forsennato dentro e fuori dai cespugli, è intento al suo lavoro tanto quanto lo siamo noi. Anzi, forse di più. Il gioco è il lavoro dei bambini. Prendere in braccio il piccolo lavoratore e toglierlo dal bagnato, chiamarlo a casa perché si vesta e rimetta tutto in ordine, prima che abbia finito quello che sta facendo, è un’illecita interruzione. Non sarebbe meglio che la nostra obbedienza alla fantasia degli orari, con il suo tipo di realtà, cercasse di accogliere la realtà delle fantasie del bambino?

La ghianda è ossessiva. È tutta e solo concentrazione, come una goccia di essenza, non si può diluire. I comportamenti infantili elaborano questa alta densità. Il bambino mette in gioco il codice germinale che lo spinge dentro queste attività ossessive. Attraverso la sua concentrazione, il bambino crea spazio vitale, per respirare e muoversi, all’homunculus della sua verità innata e permette a questa verità di articolarsi in stili e forme e strumentazioni in cui egli può esercitarsi soltanto ossessivamente, ripetitivamente, fiano a esaurimento. Ci vuole rispetto. Per favore bussate prima di entrare”[13].

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[1] T. Mann, Freud, Goethe, Wagner, Alfred A Knopf, New York, 1936;

[2] M. McLuhan, Undestanding Media: The Extensions of Man, Mcgraw-Hill, Paperbacks, N. Y., Londra, Sydney, Toronto, 1965, p. 6.6.

[3] K. Jaspers, Filosofia, Libro III: Metafisica, Utet, Torino 1978, pp. 1040-1056;

[4] O. Rank, Truth and Reality, Alfred A. Knopf, New York, 1937;

[5] Ibidem, p. ;

[6] Ibidem, p. 11;

[7] Ibidem, p. 141.

[8] C. G. Jung, Tipi psicologici, Astrolabio, Roma, 1948, p. 67;

[9] Ibidem, p. 71;

[10] R. May, L’arte del counseling. Il consiglio, la guida, la supervisione, Casa editrice Astrolabio, Roma, 19991, pp.29-30;

[11] Aristotele, De Anima, II, 412, a27-b1. Concetto ripreso anche da Goethe nel “Saggio sulla metamorfosi delle piante”;

[12] C. G. Jung, Modern Man in Search of a Soul, Harcourt, Brace and Co., New York 1933.

[13] J. Hillmn, Il Codice dell’anima;

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