Sociologia della devianza: riassunto completo

E’ idea condivisa che, spesso, la mancanza di opportunità sia all’origine di forme di malessere, dalle quali possono derivare comportamenti socialmente poco tollerati. La risposta sociale che ne deriva si ritrova nei fenomeni di discriminazione ed emarginazione.

Il termine “emarginazione” viene usato per indicare una persona “esclusa dalla consuetudine di un rapporto umano, o di classe (o di gruppo) sociale relegata in una condizione di avvilente inferiorità sul piano economico, spirituale, intellettuale.” (Devoto, Oli, 1985, p.393)

Se trovare una definizione di emarginazione è impresa semplice, realizzabile consultando un dizionario, il discorso si complica nel momento in cui si vogliono individuare quali persone corrispondono alla descrizione data, poiché si riconoscono diverse categorie di individui emarginati, alcune più vicine alla società (anziani, malati, disoccupati), altre appartenenti ad un “cliché” comune (stranieri, detenuti, tossicodipendenti).

E’ pur vero, però, che esiste un elemento costante dell’emarginazione rappresentato dalla contrapposizione tra “dentro” e “fuori”. I processi di esclusione di taluni soggetti o gruppi si sono verificati in un modello comunitario che, riconoscendo norme e valori, ha consentito ad alcuni di collocarsi al “centro” della società e ridotto altri ai “margini”.

Gli studi di J.B. Rotter evidenziano quanto sia importante attivarsi per contrastare la discriminazione impedendone il dilagare; egli spiega come la stessa porti la sua vittima ad adottare e rinforzare comportamenti antisociali e di autoesclusione, che convalidano il pregiudizio.

Per meglio chiarire il concetto, è opportuno sottolineare che la devianza consiste in un comportamento che viola regole e norme e viene, quindi, valutato negativamente dalla maggioranza di una stessa società in un determinato periodo storico.

Molti sociologi hanno considerato il fenomeno e cercato le cause di quei comportamenti che discostano da ciò che la maggioranza dei membri di una società ritiene utile, opportuno, necessario, doveroso e condiviso.

Il primo sociologo che si occupò di tale fenomeno fornendone una visione piuttosto limitata, seppur sostenuta da altri pensatori del suo tempo, fu Cesare Lombroso. Fondatore dell’antropologia criminale indirizzò i suoi studi alla persona del delinquente ed individuò la principale causa di criminalità nella morfologia del fisico, del viso in particolare. La più nota delle sue concezioni fu la teoria del delinquente nato, secondo la quale un criminale è tale dalla nascita.

Emile Durkheim, sociologo e antropologo francese collegava, invece, la teoria della devianza al concetto di anomia. Egli riconosceva nella devianza un fatto sociale inevitabile e necessario per la collettività, in quanto svolgeva la funzione adattiva introducendo nuove idee e incoraggiava la definizione dei confini dal momento che provocava una risposta in grado di rafforzare la solidarietà di gruppo ed esplicitare le norme sociali.

Sulla base del concetto di anomia considerato da Durkheim, Merton affermava che la devianza si realizza nei casi in cui l’individuo, mancando dei mezzi necessari, pone in essere comportamenti illeciti per raggiungere gli obiettivi preposti dalla società.

L’atto deviante può, comunque, essere letto utilizzando quattro criteri: giuridico, quando si realizzano illeciti; morale, se manca il rispetto delle norme etiche; sociologico, quando il comportamento discosta da norme, aspettative e credenze condivise dalla collettività; psicopedagogico, qualora il comportamento risulti inadeguato e improprio rispetto al processo di adattamento sociale.

La devianza si realizza nel caso in cui il soggetto etichettato si riconosce in questa condizione a lui attribuita. Lo stigma rappresenta un fattore di rischio che può aggravare una situazione di emarginazione esistente.

Ritengo interessante considerare il fenomeno della devianza riflettendo sul percorso adolescenziale che è, indubbiamente, caratterizzato da momenti critici; i ragazzi faticano a riconoscere e rispettare le regole e, talvolta, preferiscono adottare comportamenti trasgressivi che, inevitabilmente, li porta a rischiare oltre il dovuto.

Dal mondo adulto i giovani vengono considerati sfuggenti e l’adolescenza un problema più che una fase della vita; di loro Neresini e Ranci scrivono che possiedono “particolare fragilità interiore, in cui il soggetto è esposto più che in altri momenti della sua vita all’influenza degli avvenimenti esterni.” (Neresini, Ranci, 1992, p. 62)

Mentre gli adulti conservano, talvolta, un ricordo positivo dell’età adolescenziale e giovanile, chi la attraversa non la vive quasi mai come un momento positivo. La maggior parte degli adolescenti manifesta forme di malessere spesso non comprese dagli adulti. Le trasformazioni fisiche e psichiche che si realizzano comportano conseguenze determinanti sulla percezione di sé. Si tratta di un momento della vita particolarmente affascinante ma altrettanto difficile perché contrassegnato da incertezze e senso di precarietà. Non tutti gli adolescenti riconoscono nelle trasformazioni che stanno attraversando la loro crescita. Per questo è indispensabile che, in alcune situazioni, abbiano accanto figure in grado di orientarli. Condizioni di disagio si possono, per esempio, tradurre con l’insuccesso scolastico, mancati ingressi, bocciature, abbandoni, esiti scadenti. Esistono poi casi più gravi laddove il comportamento antisociale che costituisce, generalmente, un episodio transitorio, rappresenta, invece, la prima fase di un processo il cui risultato consiste nella stabilizzazione della devianza.

E’ utile, però, fare una netta distinzione tra il disagio e la devianza per una lettura adeguata del fenomeno. Considerare il disagio sinonimo di devianza o presupposto alla stessa contribuirebbe a costruire l’etichettamento sociale a cui certe categorie, più penalizzate rispetto ad altre, sono pesantemente sottoposte.

Mentre è senz’altro vero che la devianza può essere la conseguenza estrema del disagio, non può dirsi che sia valido l’opposto, cioè che chi vive un disagio abbia una predisposizione a divenire deviante.

L’adolescente, sovente, adotta comportamenti impropri, solitamente espressi attraverso aggressività rivolta verso sé stesso o verso gli altri, identificati come nemici, per esternare, mediante l’azione, una sofferenza psichica. Quando il giovane possiede un’identità poco salda può sviluppare attività espansive o difensive frenetiche.

Freud considerò l’aggressività leggendola negativamente e collocando gli istinti aggressivi accanto alle pulsioni di distruzione e di morte. In seguito altri studiosi come Storr, Adler e Fromm riconobbero, nella devianza, una funzione adattiva.

Sono stati individuati dei fattori aggravanti delle situazioni che si presentano già compromesse provenienti, a volte, dall’ambiente familiare o sociale, che conferma e rinforza i comportamenti aggressivi adottati dai giovani o che stigmatizza precocemente etichettando tali comportamenti.

Il giovane deviante è, quindi, il risultato di molte variabili che entrano in gioco. Si tratta di un individuo che necessita di dare una direzione alla propria vita muovendosi contro correnti a lui sfavorevoli.

Inserire un adolescente che adotta comportamenti impropri nella società significa condurlo a misurarsi con impegni, esigenze, eventi del tutto nuovi, sottoponendolo a compiti che possano rispondere a esigenze personali e a richieste sociali. Si interviene cercando di soddisfare bisogni specifici dell’età evolutiva favorendo, altresì, l’autostima, l’autocontrollo, la capacità di interazione sociale.

De Leo, nel 1998, sosteneva che, da un punto di vista statistico e casistico, era possibile notare che tra i giovani delinquenti esisteva un rapporto invischiante e confusivo con la madre, mentre si osservava un’assenza o perifericità della figura paterna.

Considerando che, solitamente, è il padre a rappresentare il modello normativo, la mancanza di questo rapporto sarebbe in grado di mettere in crisi il modello di identificazione.

Continua l’autore affermando che, in alcuni casi, i comportamenti devianti vengono adottati per rafforzare la “leadership”. La presenza di spettatori nel momento in cui si compie l’atto criminale, fa assumere all’azione una valenza importante in termini di audacia e forza che viene dimostrata ad altri.

Nel seminario “Giustizia minorile: organizzazione, funzioni, procedimenti”, tenutosi il 26 ottobre 2011 e organizzato dall’Osservatorio su comunicazione e giustizia minorile in Liguria, è emerso che si sta sviluppando un fenomeno che, sul nostro territorio, era sconosciuto e si è sottolineato che le denunce riguardano più gli italiani che gli stranieri.

Una precisazione circa la fascia d’età che maggiormente si abbandona a reati, fa emergere un dato sconcertante. Si tratta, prevalentemente, di ragazzi tra i 12 e i 16 anni. La giovane età dei criminali motiva l’approssimazione statistica del numero di reati commessi; molti di questi, infatti, non vengono denunciati rimanendo impuniti.

Si è ribadito che la debolezza familiare e la mancanza di una figura maschile di riferimento sono fattori presenti tra i minori autori di reato, a volte commesso in gruppo alla ricerca di un’identità affettiva e aggregativa.

Il quadro presentato di degrado non trova sempre risposte soddisfacenti nella magistratura e nei servizi che, talvolta, si rivelano scarsamente adeguati negli strumenti per intervenire efficacemente ad aiutare i ragazzi e le loro famiglie.

Gli interventi educativi devono tenere conto delle opportunità, oltre che considerare la storia personale del ragazzo, gli eventi familiari e le relazioni sociali.

Lavorare con e per gli adolescenti richiede la capacità di instaurare con essi una relazione che non sarà mai unidirezionale, anche nel caso in cui lo scopo sia quello esclusivamente educativo, ma implica uno scambio di emozioni, sensazioni ed esperienze per un arricchimento reciproco.

Il tempo e la fiducia sono elementi fondamentali perché tale relazione possa essere accettata e rivelarsi utile. E’ consigliabile considerare il punto di vista dei ragazzi onde riuscire a stabilire una relazione fiduciaria e a penetrare le barriere generazionali.

Difficilmente i giovani chiedono esplicitamente aiuto, per cui è indispensabile sviluppare abilità nel cogliere ed intuire la situazione dai pochi elementi che, inizialmente, vengono forniti e resi disponibili. Gli interventi richiedono elasticità, duttilità e capacità di reggere le opposizioni perché il rapporto che si crea, spesso, presenta forti oscillazioni. Le situazioni dinamiche che presuppongono cambiamenti sono più auspicabili rispetto a diagnosi immediate o risposte definitive.

L’esperienza relazionale deve essere supportata adeguatamente e deve tradursi in un vero e proprio progetto di cambiamento.

Un percorso adolescenziale non sufficientemente supportato o privato di condizioni e risorse essenziali può originare esperienze di disadattamento e condurre a comportamenti impropri che, specie se espressi in forma aggressiva, vengono etichettati dalla società favorendo la loro fossilizzazione e l’instaurarsi di un atteggiamento deviante in cui il giovane finisce, spesso, per riconoscersi. Variabili come l’ambiente di provenienza, il ceto sociale, il genere possono incidere in modo determinante sulle modalità di risposta del giovane originando situazioni soggettive.

La “teoria dell’apprendimento sociale” offre spunti interessanti per comprendere lo sviluppo morale e dell’aggressività.  Bandura, nel 1977, spiegava che le regole morali si imparano osservando gli altri. I bambini possono, attraverso l’osservazione, scoprire le conseguenze di certi atti e comprendere quali comportamenti è più conveniente tenere in determinate circostanze. Il comportamento è indotto da premi e punizioni ma anche dai modelli che si sono osservati ed imitati quando sono ritenuti attraenti.

La mancanza di modelli positivi da imitare crea situazioni di svantaggio che si realizzano con maggior frequenza all’interno delle famiglie dove la cultura è carente o assente o dove i genitori svolgono professioni dequalificate o dove il nucleo è disgregato. Se ne deduce che esiste una stretta correlazione tra insuccesso e famiglia. Il disadattamento può, comunque, rimandare anche a cause esterne a questa.

Oggi si va sempre più delineando un’area di intervento riabilitativo che riguarda il cosiddetto rischio psicosociale. La riabilitazione psicosociale si rivolge a condizioni familiari e sociali che configurano il rischio di compromettere i potenziali evolutivi del bambino e dell’adolescente compromettendo il suo equilibrio. In questa disciplina confluiscono i contributi della psicologia clinica e dello sviluppo, della psicologia della famiglia, della psicologia sociale, della psichiatria.

Le situazioni che causano rischio psicosociale sono svariate e vanno dal maltrattamento all’abuso, dalla violenza intrafamiliare alla trascuratezza determinata da specifiche problematiche familiari, dalla deprivazione socio-culturale-affettiva al risultato di eventi traumatici. Di recente comportamenti devianti si sono sviluppati e rinforzati anche in contesti dai quali dovrebbe derivare educazione e cultura. La scuola, per esempio, vede emergere il fenomeno del bullismo trasformandosi in un luogo a rischio specie per gli alunni incapaci di difendersi da eventuali intimidazioni.

Situazioni di questo tipo si realizzano quando il disagio è estremo e prepara il terreno a un vero e proprio disadattamento.

Articolo di Rita Condorelli

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