Analisi del caso di Valerio Guerrieri: una caso di suicidio in carcere

Testo di Alessandro Pinarello Michelotto

AFFRONTARE IL CASO

 

La sera del 24 febbraio 2017, tra le 23:00 e le 23:40, Valerio Guerrieri si suicidò impiccandosi nel bagno della sua cella, la numero 67 della seconda sezione del carcere “Regina Coeli” di Roma.

All’interno delle carceri italiane i suicidi e i tentati suicidi sono all’ordine del giorno. Tutti colpiscono l’opinione pubblica allo stesso modo, senza ombra di dubbio. Per quanto però essi suscitino sempre rabbia e senso di ingiustizia, ritengo che il caso di Valerio trasmetta una sensazione generale di inquietudine senza pari.

Valerio aveva 21 anni, era nato il 3 dicembre del 1995 a Roma e non aveva trascorso un’esistenza “comune”.

Se la sua vita fosse un film lo definiremmo un “thriller ricco di colpi di scena” o un “noir duro e crudo”. Ma quella di Valerio è la realtà, piuttosto allucinante. In quel carcere, molto semplicemente, non ci sarebbe dovuto mai entrare. La sua condizione psichica l’aveva reso totalmente incapace di intendere e di volere, ma nessuna struttura era mai stata in grado di fornirgli l’assistenza di cui necessitava.

Il caso del suicidio di Valerio Guerrieri è giunto a me in una fase estremamente delicata della mia vita, nella quale mi trovavo agli inizi del mio percorso all’interno del master Universitario in Criminologia critica e sicurezza sociale. Devianza, istituzioni e interazioni psicosociali, nonché in un periodo molto intenso dal punto di vista lavorativo. Stefano Guerrieri, fratello di Valerio e mio coetaneo, è una persona a me cara da diversi anni ed è stato lui a comunicarmi la notizia della morte del fratello, con estrema freddezza, dovuta probabilmente allo stress emotivo che lui, i suoi genitori e la sua fidanzata stavano inesorabilmente affrontando.

La prima mia reazione dopo la notizia del suicidio è stata di sconcerto, di rabbia, di senso d’ingiustizia. Avevo conosciuto Valerio, proprio poco prima che le sue “disavventure istituzionali”, se così vogliamo definirle, avessero inizio. Nel 2010 fui ospite a casa di Stefano per diversi giorni e in due fasi distinte dell’anno. Valerio era presente e non nego che la sua presenza, alla luce di ciò che i suoi genitori mi avevano raccontato in merito, inizialmente mi turbò. Mi stupii, allo stesso tempo, per la franchezza e la trasparenza con le quali i familiari di Stefano mi misero immediatamente al corrente di tutto ciò che riguardava Valerio, facendomi sentire in qualche modo parte della famiglia. Valerio alternava momenti di lucidità assoluta a circostanze nelle quali perdeva completamente il cosiddetto “lume della ragione”, inveendo in maniera piuttosto violenta nei confronti dei familiari. Contro di me però non rivolse mai nulla di aggressivo o di violento. Anzi, il ricordo che ho di Valerio è quello di un ragazzo timido, tendenzialmente introverso e naturalmente predisposto a nutrire fiducia nei confronti degli esseri umani. La casa in cui Valerio viveva era popolata da numerosi animali. Per lo più si trattava di cani e gatti. I cani in particolare erano decisamente numerosi, circa una decina di esemplari di varie razze. Lo spirito che animava la famiglia Guerrieri è sempre stato quello del salvataggio e della cura degli animali abbandonati. La loro vicinanza avrebbe potuto aiutare Valerio molto più di quanto erroneamente, coloro i quali affermavano di curarlo, pensassero. Una famiglia molto unita che aveva sempre vissuto – e continua parzialmente a vivere – in condizioni economiche per nulla agevoli.

Il viaggio che pianificai per recarmi a casa della famiglia Guerrieri subì un paio di variazioni, ma alla fine si svolse regolarmente nel weekend tra sabato 23 e domenica 24 settembre 2017. Arrivai e pranzai in compagnia di tutta la famiglia con l’aggiunta di Chiara, fidanzata di Stefano. L’ubicazione delle stanze era lievemente cambiata, ma la camera da letto di Valerio era rimasta esattamente nella stessa posizione in cui si trovava 7 anni prima, anche se nel frattempo era stata “ereditata” dal fratello. Al termine del pranzo iniziò la mia intervista alla mamma di Stefano, Ester. Perché proprio lei? Semplicemente perché Stefano non era a conoscenza di tutti i dettagli della vicenda e, oltretutto, non ama particolarmente rilasciare dichiarazioni. Il padre, Maurizio, invece ha sempre avuto un ruolo piuttosto marginale nella vita di Valerio. L’unica persona veramente in grado di ricostruire in maniera dettagliata, fedele e coerente la storia di Valerio era quindi Ester.

L’intervista si svolse nella cucina, io e lei eravamo seduti ai due lati opposti del piccolo tavolo sul quale poco prima avevamo pranzato. Attorno a noi cani e gatti cercavano di attirare la nostra attenzione, soprattutto la mia in quanto presenza non abituale. La durata dell’intervista fu di un’ora e dieci minuti e si svolse in un clima surreale nel quale vari stati d’animo pervasero Ester. Fu energica e rabbiosa nella parte iniziale, seguita da un momento di sconforto e conclusa con un pathos molto accentuato.

Al termine dell’intervista Ester mi condusse nell’ex stanza da letto di Valerio (ora occupata dal fratello Stefano) e mi consegnò un documento importantissimo, sul quale mi sono permesso di operare una lettura piuttosto critica, ossia la perizia medico-legale.

La transizione biografica di Valerio è senza alcun dubbio l’elemento di maggior valore nello studio delle dinamiche che hanno portato me e molte altre persone a interessarsi al caso. Volendo spingersi un attimo oltre, potremmo serenamente affermare che è in parte attribuibile a casi come questo l’esistenza stessa dei percorsi di studio ai quali persone come me hanno aderito.

 

 

OSTIA, IL PRINCIPALE CONTESTO

 

Ostia, in quei numerosi giorni che passai nella capitale nel marzo e nel luglio del 2010, fu la cornice costante di tutte le esperienze che assieme a Stefano e ai suoi amici e amiche dell’epoca vivemmo. Valerio incluso. Dietro quel meraviglioso lungomare, che nei mesi invernali assume un aspetto che oserei definire tetro, c’è una realtà estremamente complicata. L’estrema destra possiede un consenso notevole da parte dei cittadini locali e vi è quella che i cronisti negli ultimi mesi del 2017 hanno a più riprese definito, grossolanamente, la “mafia” di Ostia.

La famiglia Guerrieri ha vissuto a Ostia per moltissimi anni e tuttora Stefano lavora in quella zona.

Descrivere Ostia unicamente come contesto deviante però non avrebbe reso giustizia anche a tutto ciò di positivo che questa piccola porzione romana ha da offrire. Personalmente trovo l’auto-narrazione uno degli strumenti più efficaci che un medium possa utilizzare per far penetrare il lettore (o l’ascoltatore) all’interno di uno specifico ambiente, che sia esso fisico o ideale. Per tale motivazione mi permetto di dare ai lettori e alle lettrici un consiglio bibliografico: “Ostia! Romanzo di una periferia”, Territorio Narrante, 2017.

 

Lungo il viaggio verso Roma non ero ben consapevole della quantità di materiale che sarei stato in grado di raccogliere. Prima ancora della difficoltà di selezione e di sintesi sapevo che l’intervista, soprattutto in ambito biografico, è una tipologia di studio molto complessa. “Intervista” ricalca, linguisticamente, “Intravedersi” e concettualmente presuppone un “incontrarsi brevemente”. Nel mio caso invece si trattava di un soggiorno di due giorni nel quale cercare, oltre all’intervista, di vivere anche quello che è lo stato d’animo dei familiari della vittima. Una proprietà fondamentale dell’intervista è inoltre quella di occupare il posto che si rende disponibile a intervistato e intervistatore avendo inizialmente giocato il gioco che precede ogni intervista, il gioco della “proposta di intervista”. La presenza di questo gioco, la cui regola prevede il rifiuto oltre che l’accettazione, fa dell’intervista innanzitutto una possibilità. Ciò che fa dell’intervista un’istituzione della ricerca e ciò che la differenzia dall’interrogatorio è la regola della possibilità di parlare, da cui discende la possibilità di tacere e di non dire la “verità”. A differenza dell’interrogatorio, la cui regola è l’imposizione della parola e il cui fine è la ricerca della verità fattuale, l’intervista associa la possibilità di parola alla possibilità di verità. Se l’accertamento della verità è il dovere dell’inquisitore, dovere dell’intervistatore è attenersi unicamente ai resoconti linguistici che vengono offerti dall’intervistato: l’unica verità in quel momento è quella.

 

 

L’INTERVISTA A ESTER MORASSI, MADRE DI VALERIO GUERRIERI

Trascrizione dell’esclusiva intervista gentilmente concessami da Ester, madre di Valerio Guerrieri.

ROMA, 23 settembre 2017

 

Ciao Ester, cominciamo dall’inizio. Valerio già da piccolo aveva provato sofferenze considerevoli…

 

Sì, esatto. All’età di 5 anni (nel 2000), all’asilo, Valerio cominciò a dare segnali strani. Il primo era che al mattino, quando lo lasciavo, andava all’ingresso e si buttava i cappotti di tutti addosso, restando lì fino a quando lo andavo a prendere. La sua maestra mi è venuta a parlare ed era convinta che il bambino potesse subire soprusi da parte mia. Le ho fatto capire che in realtà io, non avendo avuto una vita facile, non sapevo bene come gestire la situazione e le ho chiesto esplicitamente aiuto. Da quel momento siamo diventate, per così dire, amiche e abbiamo cominciato a “monitorare” assieme Valerio. Mi sono rivolta al TSMREE di Ostia con la dottoressa Simonetta Scerni, attuale responsabile del reparto SALUTE MENTALE E RIABILITATIVA ETÀ EVOLUTIVA della struttura UOS TSMREE Municipio X. Lei però non si è resa conto che Valerio parlava male, non si esprimeva bene. Tutti insieme decidemmo allora di fermarlo un anno in più all’asilo. In quegli anni Valerio ha cambiato numerose logopediste. L’ultima si accorse del fatto che, banalmente, aveva il frenulo della linguale corto. Lo operarono immediatamente e temevamo la possibilità che potesse parlare male e che non pronunciasse correttamente la S. Invece la ripresa è stata piuttosto rapida e soddisfacente. Ma nel frattempo Valerio aveva compiuto 7 anni. Già aveva sofferto. Pensa che quando stava nascendo non si sono accorti nemmeno che si era fatto due giri attorno al collo con il cordone ombelicale. L’hanno estratto morto infatti, rianimandolo e intubandolo per riuscire a recuperarlo. Al di là di questo io, a quel punto, cominciai a nutrire seri dubbi sull’operato della neuropsichiatra. Chiesi la sostituzione, ma nulla di fatto. Anzi direi che da quel momento gli assistenti sociali cominciarono a mettermi duramente sotto esame. Mandammo Valerio a frequentare “Casetta Rossa” (associazione romana). Ci stava dal lunedì al venerdì, rientrava il venerdì sera. Dopo qualche mese ci hanno detto che il posto non era, a loro avviso, adatto al bambino.

 

Valerio non aveva mai avuto un vero e proprio colloquio psichiatrico da quello che mi dici. La prima diagnosi quando arrivò?

 

Mi rivolsi all’Umberto I per ottenere finalmente una diagnosi per Valerio. Reparto psicologia dell’età evolutiva. Gli venne diagnosticato un “Disturbo border- line associato a lievi disturbi psicomaniacali”. Lo prese in cura il dottor Lorenzo Toni, neuropsichiatra infantile. A quel punto il personale medico mi fece capire che se da quel momento mi fossi messa in mezzo mi avrebbero tolto la patria potestà. Quindi non dissi niente, neppure quando lo assegnarono alla casa fami- glia “Lilium” di Pescara.

Non l’ho accompagnato con loro, altrimenti lo so che avrei trasgredito le regole riportandolo a casa con me. Nei primi 100 giorni, come da prassi, zero contatti tra noi e lui. Poi c’erano da prendere appuntamenti per poterci vedere. Valerio però viene allontanato dalla casa famiglia poiché la sua condotta non era in linea con le loro aspettative. Torna a casa e dopo qualche tempo riusciamo a farlo riammettere, ma non c’è più posto e Valerio, in attesa di una nuova struttura, viene temporaneamente “parcheggiato” all’ASL di Acilia. Lorenzo Toni, il suo neuropsichiatra infantile, soffriva in quel momento di una grave malattia e non poté intervenire. Nell’ASL di Acilia non poteva stare, erano uffici. Dove lo potevano mettere? Me lo sono riportato a casa subito. Non avrei dovuto ma l’ho fatto. Mentre lui era a casa con me mi raccontava che gli operatori lo contenevano e uno degli operatori, mentre lo contenevano, girava video col cellulare e li pubblicava online. Gli facevano punture autobloccanti e lo lasciavano da solo per giornate intere.

 

In che periodo siamo arrivati?

 

Nel giugno 2011.

Ok. A questo punto cosa succede?

 

A Valerio viene dato un diurno a “Villa Letizia” (Roma). Da quel momento comincia a seguirlo il neuropsichiatra Dottor Santo Rullo. Valerio, quando era a casa, si dimostrava molto aggressivo con me. Diceva che era tutta colpa mia. Venne a lavorare con me nello stabilimento balneare in cui prestavo servizio. In quel contesto venne preso sotto l’ala di un ragazzo siciliano e cominciò a frequentare un brutto giro di persone. Io intimai a quel ragazzo di non coinvolgere Valerio nelle sue malefatte ma lui mi rispose “No, a me quelli pazzi come lui mi piacciono di più, mi fanno comodo. Se ostacolate Valerio nel frequentarmi io lo faccio sparire e non lo trovate più”. A quel punto io non ho retto più e me ne sono andata in Africa. Me ne sono andata perché tutti davano la colpa a me. Valerio rimase a Roma, doveva frequentare “Villa Letizia” ma in realtà non ci andava mai. Suo padre, Maurizio, non collaborava. Allora tornai a Roma per riprendermi Valerio e portarlo con me. Lo portai con me ma Valerio non si trovava bene da quelle parti, non c’era niente da fare. Tornò a Roma nel luglio 2012. Il primo maggio 2013 venne arrestato per la prima volta per possesso di motorino rubato e guida senza patente. Veicolo rubato da lui stesso ovviamente. Io ero in Africa. Lui viene momentaneamente recluso in carcere minorile. Il Dottor Santo Rullo riesce a farlo scarcerare e a metterlo agli arresti domiciliari a “Villa Letizia”.

 

Questo fatto costituisce un punto di svolta importante. Perché?

 

Perché da quel momento Valerio non ha più visto la libertà.

 

Come andarono le cose a “Villa Letizia”?

 

Lì dentro c’erano altri ospiti. Valerio legò con un ragazzo coetaneo, Federico Caranzetti. Con loro c’era il figlio di un componente della “Banda della Magliana”. Costui adescava i ragazzi e li addestrava alle rapine mano armata. Valerio venne istruito, come il suo amico Federico, a fare rapine con pistole giocattolo. Federico morì, diciassettenne, in un’esecuzione (colpo di pistola in fronte) a opera di un coetaneo.

Valerio ci stette parecchio male. Qualche settimana dopo venne riconosciuto in un filmato mentre faceva una rapina. In quell’episodio rimase coinvolto anche suo fratello Stefano che ebbe solo la colpa di riaccompagnarlo a “Villa Letizia”, ignaro della rapina appena compiuta da Valerio e dai suoi amici. Venne processato e giudicato immediatamente incapace di intendere e di volere.

Rimase a “Villa Letizia”. A questo punto avvenne qualcosa di clamoroso: si fidanzò con un’educatrice trentatreenne che lavorava nella struttura. Un’operatrice dello staff del Dottor Santo Rullo. Lui aveva da poco compiuto 18 anni. La ragazza era un problema e Santo Rullo (non si sa se per questo motivo o per la storia dell’evasione operata per compiere la rapina) decise di non seguire più Valerio. In quei giorni ebbe una reazione violentissima a un richiamo e disposero un TSO presso il San Camillo di Roma. Andai a cercarlo al San Camillo e con me venne la sua ragazza (l’educatrice). Accettarono che lo vedessimo, io come madre e la ragazza come terapeuta. Dopo di me entrò lei e riuscì a far evadere Valerio. I due “sparirono” per tre mesi. In realtà giocavano a fare i latitanti nelle campagne vicine a casa nostra. Un giorno Valerio si fece accompagnare dal padre a prendere lo 070 ma li fermarono a un posto di blocco e lo arrestarono. Valerio ritornò a “Regina Coeli” ma venne immediatamente rimesso agli arresti domiciliari.

Quindi Valerio era sempre e comunque abbandonato a sé stesso e “parcheggiato” dove capitava. A questo punto che è successo?

 

Valerio voleva uscire di casa, ma ovviamente non poteva. Il suo obiettivo non era nulla di che: prendere una birra al bar “Per chi c’è e per chi non c’è più” (parole sue). Mi allontanai prendendo l’auto, in modo da evitare che la prendesse lui. Mi chiama Stefano terrorizzato: “Mamma torna a casa, Vale si è tagliato la gola”. Valerio in effetti aveva preso un coltello dalla credenza e, davanti al fratello, si era tagliato il collo. Fortunatamente senza toccare la carotide. Arrivarono ambulanza e carabinieri, ci vollero otto persone per fermarlo e prenderlo. Disposero immediatamente un TSO, questa volta al Presidio Ospedaliero Grassi di Roma. Valerio scappò quasi immediatamente e tornò a casa (a questo punto in “latitanza”). Cercò insistentemente la pistola finta in giro per casa, voleva uscire a far rapine. Quella pistola l’avevo casualmente rinvenuta io il giorno prima in giardino e ovviamente l’avevo fatta sparire. Non glie lo dissi, avevo paura potesse farmi del male. Per quanto fosse mio figlio, non era cosciente ed era fisicamente massiccio. Chiamai il padre e gli chiesi di dire a Valerio che la pistola l’aveva buttata lui per sbaglio. Un diversivo per tenerlo tranquillo. Maurizio però chiamò i carabinieri e loro piombarono nel nostro giardino in perfetto stile “Distretto di Polizia”. In tre puntavano il fucile mitragliatore in direzione di Valerio, il quale era salito sul tetto e “minacciava” gli uomini in divisa con una tegola di terracotta. Non ci volevano due lauree per comprendere che il ragazzo era fuori di sé, in virtù della fobia che oramai aveva maturato per le divise. Valerio comunque scese, prese una mannaia dal retro del giardino e scappò nei boschi. Lo cercarono per giorni, si sollevò anche un elicottero. Niente, scomparso.

Qualche giorno dopo chiamò il padre al cellulare e Maurizio andò a prenderlo a Ostia. Era in uno stato pietoso, pieno di lividi. Diceva di essere stato attaccato dai cinghiali (in effetti in mezzo alle pinete era plausibile).

 

Quindi lo rimandarono al Grassi?

 

Sarebbe stata la soluzione più sensata. Invece no. Lo collocarono, a sorpresa a Torino. Nel frattempo io ripartii per l’Africa, per lo stesso motivo per cui vi ero andata la prima volta: non ne potevo più.

E le questioni giudiziarie? Scusa se vado dritto al punto

 

Da Torino lo portarono a Rebibbia per processarlo per la rapina. Venne giudicato di nuovo, quasi vi fosse bisogno di conferma, incapace di intendere e di volere. Correva il 2015 e lui venne collocato in OPG a Secondigliano per 10 mesi. Uscì da lì il 3 dicembre 2015, giorno del suo ventesimo compleanno. Venne man- dato in una comunità aperta a Subiaco, Rocca Canterano per l’esattezza. Da lì non evase mai, anche perché lo riempivano di psicofarmaci, compresi quelli per gli episodi di epilessia che talvolta gli capitavano. A un certo punto lui dei farmaci non ne poteva più, mi disse che era saturo. Gli consigliai di non prenderli. Forse sbagliai, anzi sicuramente sbagliai. Valerio tornò presto a dare problemi. D’altronde va anche detto che riempirlo così di farmaci non serviva a granché. Dormiva e basta. Precisazione: la “comunità aperta” in realtà era una REMS8 ad alto contenimento e gli erano stati dati dai 6 ai 12 mesi. Allo scadere dei mesi però Valerio capì che non volevano lasciarlo libero in realtà, capì che probabilmente non lo sarebbe stato mai. A quel punto uscì di senno, minacciò diversi operatori ed ebbe comportamenti violenti. Gli venne fatto un altro TSO al Grassi. Come arrivò al Grassi fuggì immediatamente e tornò a casa. Lui tornava sempre. Siamo nel luglio 2016. Valerio era in condizioni pessime. Un giorno si mise a litigare col padre, tirò fuori un coltello e cercò di colpirlo più volte, fallendo i tentativi e procurandosi un taglio piuttosto profondo a una mano. Chiamammo un’ambulanza e inizialmente pensarono a un TSO. Ma, visti i risultati dei precedenti TSO, evitarono e lo lasciarono a casa.

 

A casa in libertà?

 

No, ma sì. Nel senso che aveva l’obbligo di residenza in una REMS ma non c’erano posti liberi da nessuna parte. Era a casa, stava male, aveva bisogno di farmaci. Ci arrangiammo in qualche modo. Nel frattempo si comprò una moto (col denaro accumulato dalle indennità per l’invalidità), ma gli venne sequestrata subito in quanto non aveva la patente. Ne comprò un’altra che ebbe lo stesso destino. Con la terza moto Valerio aveva quasi preso la patente, mancava l’esame pratico. Una sera però (era il 3 settembre 2016) uscì di casa all’una e mezza di notte, in moto e sul Raccordo tirò dritto davanti alla paletta della stradale. Partì un inseguimento e Valerio venne buttato giù dalla moto e immobilizzato. A verbale risultò esserci stata una resistenza a pubblico ufficiale, cosa del tutto plausibile. Lo portarono al Sant’Andrea per i rilievi tossicologici e lo trovarono positivo alla cocaina. Lo rimandarono ai domiciliari, ma non ritennero la nostra casa adatta a lui poiché c’erano troppi animali (noi conviviamo con numerosi cani e gatti, tutti trovatelli). Valerio venne rimesso a “Regina Coeli” fino al primo dicembre 2016, poi lo indirizzarono alla REMS di Ceccano. Per un po’ non lo volli vedere. Ero molto arrabbiata con lui, non sarebbe dovuto uscire quella notte. Il 3 dicembre andai con Stefano e Maurizio a trovarlo per il suo ventesimo (e, come sappiamo, ultimo) compleanno. Sembrava tutto ok. Venimmo perquisiti, giustamente, e non potemmo usare il cellulare per immortalare quel momento. Se avessero avuto la stessa minuziosità anche con Valerio… Ad ogni modo, Valerio scappò quella sera stessa, mentre noi rientravamo dopo la visita. Me lo ritrovai la mattina dopo a casa. Tornò a casa in treno e rimase ascosto nelle campagne la notte. A quel punto gli proposi di venire con me in Africa, lui accettò. Ci fermarono però ai controlli dell’aeroporto di Fiumicino e rispedirono Valerio a Ceccano. Due giorni dopo scappò nuovamente e tornò a casa. Non ce la faceva più. Gli mancavano due mesi, ma non ce la faceva a tenere duro. Rimase nascosto per un po’ di tempo.

Ester, qui cominciarono i guai seri. Dico bene?

 

Esatto. Venne fatta una rapina a Ostia, nello stesso supermercato in cui Valerio era stato riconosciuto nell’occasione di quell’arresto in cui era stato coinvolto anche Stefano. Vennero due poliziotti a informarmi del fatto, dando probabilmente per scontato che c’entrasse Valerio anche questa volta. Valerio però era ai Castelli a casa di un amico, l’aveva accompagnato Stefano. Ovviamente non potevamo dire nulla di tutto ciò ai poliziotti, non volevamo lo trovassero. Qualche giorno dopo Valerio rientrò dai Castelli e chiese a suo fratello di accompagnarlo a Ostia. In macchina erano in tre: lui, Stefano e Chiara, la ragazza di Stefano. Non passano neppure 5 minuti dalla loro partenza e sentì le urla di Chiara. Avevano incrociato una volante della polizia e Valerio era scappato. Stefano girò l’auto e cercò di tornare a casa per avvisarmi, ma i poliziotti lo raggiunsero (a meno di un centinaio di metri da casa) e lo picchiarono. Lui si difese con qualche spintone e una mossa di Kung-Fu e gli agenti gli puntarono contro le armi. Io mi frapposi facendo da scudo a Stefano e dicendo “Dovete ammazzare prima me”. Sul luogo arrivò anche Maurizio, il padre. Morale della favola? Ci hanno arrestati tutti (compresi Maurizio, io e Chiara) perché, a detta loro, con la nostra condotta abbiamo cercato di impedire l’arresto di Valerio, favorendone la fuga. Effettivamente c’era un fondo di verità, ma cosa dovevamo fare in quel momento? Ad ogni modo loro poi hanno condotto Stefano al commissariato, sottoponendo la sua automobile a perquisizione in maniera piuttosto energica (al punto da ridurla piuttosto male). Ci perquisirono anche la casa, senza rinvenire nulla di particolare. Venimmo a sapere che Valerio era stato preso e che sarebbe stato riportato a Ceccano. Stefano e Maurizio vennero messi ai domiciliari (mentre io e Chiara eravamo state denunciate a piede libero). Valerio a quel punto, tanto per cambiare, scappò e tornò a casa. Un paio di giorni dopo incrociò un agente di polizia per strada e quest’ultimo evidentemente lo riconobbe, in quanto meno di 24 ore dopo arrivarono a casa nostra 11 poliziotti per arrestarlo. Penso ne sarebbero bastati meno. A questo punto la REMS di Ceccano rifiutò un nuovo ricovero affermando che Valerio (in virtù anche delle numerose fughe) non era realmente incapace di intendere e di volere. Per lo meno questo è ciò che io so. Valerio entrò definitivamente (nel senso che non ne uscì mai più) a “Regina Coeli”. Nel gennaio 2017 arrivò la sentenza per fuga sul raccordo. Il giudice lo condannò a 4 mesi di reclusione. Quattro mesi che però erano già trascorsi. Non venne però mai emesso un vero e proprio atto di scarcerazione. Lo vidi per l’ultima volta il 13 febbraio. Era in discrete condizioni ma molto nervoso. Quando sapeva che noi saremmo andati non prendeva i farmaci, non voleva farsi vedere spossato. Con noi comunicava tramite lettere che scriveva a mano e che venivano scansionate e inviate via e-mail dalla struttura all’indirizzo di posta di Stefano. Il 23 febbraio ci arrivò l’ultima sua lettera…Per lo meno l’ultima che abbiamo potuto vedere. Non sappiamo infatti se all’atto del suicidio abbia lasciato scritto qualcosa. I suoi blocchi bianchi di appunti erano scomparsi dalla cella quando io sono entrata nei giorni successivi. In questa lettera Valerio mi diceva “Ti aspetto qui”. Uno che dice che mi aspetta qui secondo te si ammazza? Secondo me no. Dev’essere per forza successo qualcosa. Ciò che io so è questo: alle 22:30 del 24 febbraio venne somministrata a Valerio la consueta terapia per dormire. Alle 22:50 gli venne iniettata una fiala di antidolorifico (lamentava un dolore acutissimo alla schiena). Valerio rientrò in stanza circa alle 23:00 e si mise a letto. Cinque minuti dopo si alzò per andare al bagno. Silenzio. Dopo un po’ il compagno di cella, preoccupato dal lungo silenzio, aprì il bagno e trovò quello che tutti sappiamo. Stava lì, appeso a un lenzuolo usato come cappio.

 

Tu come l’hai saputo?

 

Eravamo al 25 febbraio ormai, si era fatta notte. All’una ricevetti una telefonata da numero anonimo. Risposi, era la direttrice del carcere “Regina Coeli” che mi avvisava della morte di Valerio. Le risposi che era tutta colpa sua e dei suoi uomini che me l’avevano ammazzato. Lei tacque. L’avevano sempre trattato come un detenuto comune, quando lui era semplicemente un malato da curare. Non gli sono mai state garantite le cure di cui aveva bisogno. Valerio aveva bisogno di assistenza 24 ore al giorno, ma questa non gli è mai stata assegnata. Gli è stata assegnata quella che prevedeva un controllo ogni 15 minuti ma, a detta dei compagni di cella, tali controlli non venivano mai effettuati. Per di più, essendo comuni detenuti, avevano tutti le lenzuola normali e quindi fabbricare un cappio diventava semplicissimo. Sarebbe bastato, in quella cella, distribuire quelle di carta o comunque passare ogni 15 minuti e contare quante ce ne fossero. Infatti lui si era tranquillamente preparato un cappio nell’armadio e loro lo sapevano. Ma questo lo leggerai poi nella perizia. Il 27, due giorni dopo, ci convocò il Pubblico Ministero per annunciarci che era stato aperto un fascicolo per omicidio colposo. Pare se la vogliano prendere con gli ultimi agenti in turno, quello che era in servizio al momento della morte di Valerio. Probabilmente l’unica persona a non c’entrare nulla. Spero non sia vero.

 

LETTURA CRITICA DELLA PERIZIA MEDICO-LEGALE

 

La perizia (numero 26060/17, Prof. Marasco e Dott.ssa Aromatario) risale a circa un mese prima dell’intervista. Alcune parti di essa meritano particolare attenzione.

 

Comunicazione al Tribunale di Roma relativa all’Internato Valerio Guerrieri redatta dal Responsabile della REMS di Ceccano (RM) redatta in data 19 di- cembre 2016

“… a seguito dell’ulteriore episodio di allontanamento dalla REMS di Ceccano avvenuto nella notte del 12/12/16 dell’internato in oggetto, lo stesso è stato rintracciato dalla polizia di Stato che lo ha portato nella nostra struttura … è stato visitato dal medico reperibile di turno che non ha rilevato la presenza di turbe ideo percettive, il Guerrieri si presentava vigile lucido ed orientato nei tre assi, facilmente reattivo, provocatorio e minaccioso con intolleranza alle regole e difficoltà di farsi rilasciare tutti gli oggetti non consentiti in struttura … il tutto sempre riferibile ad una struttura di personalità e non, per quanto valutato, ad un disturbo di tipo psicotico. Altra problematica che si pone con tale soggetto è la non possibilità, da parte nostra di effettuare perquisizione sulla persona bensì solo ispezione degli ambienti data la tipologia del Guerrieri che ha già minacciato più volte agiti contro terzi (lama in bocca mostrata al personale, riferisce di avere un coltello nascosto indosso…)., vista la personalità e gli eventi già accaduti, si segnala come lo stesso potrebbe comunque utilizzare con finalità offensive oggetti di uso quotidiano presenti in struttura …si sottolinea la non compatibilità di tale soggetto con una struttura a gestione sanitaria…”.

 

Non sono un addetto ai lavori ma sicuramente riscontro un certo pressapochismo nel definire Valerio incompatibile con una struttura a gestione sanitaria. Gli oggetti di uso quotidiano presenti in struttura non dovrebbero per definizione poter essere utilizzati con finalità offensiva. Forse in questo passaggio c’è una involontaria ammissione di inadeguatezza della REMS stessa. Ma non mi spingo oltre, lascio aperta la riflessione.

 

Comunicazione al Tribunale di Roma relativa all’allontanamento dell’internato Valerio Guerrieri redatta dal Responsabile della REMS di Ceccano (RM) redatta in data 19 dicembre 2016

“… alle ore 14.308 del 19/12/16 si è allontanato dalla nostra struttura (III allontanamento) e risulta al momento irreperibile”

 

Qui il racconto di Ester trova pieno riscontro, Valerio è effettivamente fuggito e l’ha fatto diverse volte. Nel prossimo passaggio però emerge, a mio avviso, una palese presa di distanza della struttura nei confronti del ragazzo. Per quanto l’interesse a “sbarazzarsi” del soggetto fosse in qualche modo comprensibile in quel momento, l’opera di negazionismo nei confronti della condizione patologica di Valerio ha creato sicuramente un precedente molto pericoloso. Allontanare un soggetto in quanto incompatibile con una determinata struttura è un comportamento del tutto lecito. Ma attribuire l’allontanamento a una presunta assenza di condizioni patologiche, rilevata unicamente sulla base di determinate condotte episodiche del soggetto in questione, è un comportamento che oserei definire scellerato. Una qualsiasi REMS, letta la comunicazione che sto per riportarvi, avrebbe potuto facilmente fare leva su queste considerazioni per rifiutare il ragazzo.

 

Aggiornamento comunicazione al Tribunale di Roma relativa all’internato Valerio Guerrieri redatta dal Responsabile della REMS di Ceccano (RM) redatta in data 19 dicembre 2016

“… si è rilevata l’assenza di elementi di psicopatologia di rilievo nell’internato in oggetto. Infatti appare all’osservazione clinica lucido, ben orientato rispetto al tempo, spazio o persone e non si evidenziano alterazioni a livello della capacità critica e di giudizio. Le funzioni cognitive appaiono integre, non si evidenziano elementi di tipo delirante o dispercezioni in atto. Il tono dell’umore appare in equilibrio, non ravvisando né elementi suggestivi di eccitamento né di deflessione Umica. Trattasi invece di una condizione caratterizzata da personalità antisociale in soggetto con uso di sostanze.. i ripetuti comportamenti di non rispetto delle regole e l’atteggiamento manipolatorio e sfidante nei confronti degli altri non sono legati alla presenza di una patologia psichiatrica di rilievo ma bensì alla sua struttura di personalità, che non altera attualmente la sua capacità di intendere e di volere… sarebbe auspicabile la sospensione della misura di sicurezza e il trasferimento in un contesto più idoneo…”

 

Verrebbe dunque da chiedersi quale possa essere un contesto “più idoneo”.

Ad ogni modo una consulenza tecnica psichiatrica del dottor Renzo Di Cori del settembre 2014 già riportava la presenza di un quadro psicopatologico sufficiente a prevedere, con una certa precisione, una propensione del ragazzo alla reiterazione di condotte devianti.

11 giorni prima della comunicazione della REMS di Ceccano invece troviamo una relazione di perizia psichiatrico-forense redatta dal dottor Mandarelli nel processo penale 12367/13 della quale vorrei portare all’attenzione di chi legge due paragrafi:

 

–        “…il sig. Guerrieri Valerio è persona affetta da un Disturbo di Personalità con altra specificazione (caratteristiche di personalità miste di tipo Antisociale e Borderline”

 

Il disturbo antisociale si caratterizza per un atteggiamento di disprezzo, inosservanza e violazione dei diritti delle altre persone e si manifesta con comportamenti di ostilità e/o aggressioni fisiche. Le persone con disturbo borderline di personalità tendono a sperimentare emozioni e stati d’animo intensi che possono cambiare abbastanza rapidamente. Valerio conviveva con una combinazione di questi disturbi. Quindi la teoria secondo cui i suoi atteggiamenti sfidanti e sprezzanti nei confronti dell’autorità escludessero patologie di rilievo decade.

 

–        “Il sig. Guerrieri è persona socialmente pericolosa dal punto di vista psichiatrico…”

 

All’interno della perizia poi troviamo una risposta risalente al 2014 molto esaustiva relativa a una domanda riguardante la pericolosità sociale di Valerio: “Dica il perito, esaminati gli atti ed espletati tutti gli accertamenti, se Guerrieri Valerio era capace di intendere o di volere al momento del fatto e se lo stesso sia socialmente pericoloso”.

Vado a riportare alcuni passaggi chiave della risposta, redatta dal dottor Renzo Di Cori il 22 settembre 2014:

“La pericolosità sociale consiste nella previsione che il comportamento criminoso possa verificarsi o reiterarsi sulla base del quadro clinico, considerati tutti gli elementi anamnestici, nosografici, diagnostici e prognostici.

(…)

Sebbene Valerio possa talvolta cogliere superficialmente il senso dell’agire, ad un esame più approfondito risulta non essere in grado di comprendere il significato sociale ed i nessi di causalità tra un’azione e le sue conseguenze.

(…)

Con riferimento alla possibile reiterazione di comportamenti devianti, infatti, riteniamo che il suo complesso quadro psicopatologico – caratterizzato da Disturbo di Personalità Antisociale e Borderline (…) oltre alle descritte problematiche socio-ambientali – si associ a una diagnosi sfavorevole…”

Il ritrovamento di Valerio è stato così verbalizzato:

24/02/2017

Dal diario clinico: “… chiamato alle 23:00 per ritrovamento di paziente sdraiato senza coscienza nel bagno … si posiziona defibrillatore … arrivo 118 alle ore 23:27, il medico del 118 effettua alle ore 23:40 constatazione di decesso…”

Emerge un dato interessante dalle analisi effettuate sulla salma di Valerio ossia la presenza, seppur in dosi compatibili con i cosiddetti “valori terapeutici”, di numerosi farmaci in sangue, urine e bile, tra i quali spunta la Quetiapina, commercializzata dalla casa farmaceutica AstraZeneca col nome di Seroquel. Si tratta di un farmaco piuttosto noto, facente parte dei cosiddetti antipsicotici.

Questo farmaco, da quanto emerge leggendo la storia clinica di Valerio, gli era stato più volte introdotto e sospeso. Non sfugge certo il fatto che tra gli effetti indesiderati riscontrati in un trattamento discontinuo ci sia un possibile aumento dell’intensità degli istinti suicidi. Impossibile per me ipotizzare, con un minimo di riscontro oggettivo, un nesso causale tra gli effetti indesiderati del principio attivo e il suicidio del giovane ragazzo, ma si tratta ugualmente di un dato degno di nota.

Verbale di sommarie informazioni rese da Maky Rafi presso gli Uffici della Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Roma in data 28 febbraio 2017

“… sono stato suo compagno di cella per circa due mesi … eravamo diventati amici … non mi ha mai detto che voleva ammazzarsi. Tengo a precisare che questo ragazzo aveva degli atteggiamenti strani ovvero per me era fuori di testa, prendeva un sacco di pasticche per il cervello. Aveva dei forti problemi psichiatrici. Ricordo che più di qualche volta senza alcun motivo in cella iniziava a strillare ed iniziava a prendersela con tutti … il giorno prima ovvero il 23 febbraio il Guerrieri mi aveva chiesto una mano per ordinare il suo armadietto e nel fare questo tipo di faccenda ho notato che all’interno dello stesso vi era un lenzuolo annodato. Aveva pure il cappio pronto e artigianalmente fatto con un nodo. Ho immediatamente chiesto a Valerio a cosa gli servisse e lui non mi ha voluto rispondere e io pensando a qualcosa di brutto volevo buttare il lenzuolo ma lui si è incazzato e mi ha detto: “lascialo stare nel mio armadietto mi serve se no ti meno”. Dato che Valerio mi incuteva molto terrore fisico vista la sua corporatura e i suoi atteggiamenti psichiatrici mi sono stato zitto … avevo pensato a un tentativo di evasione … “.

 

I comportamenti descritti dal ragazzo sono assolutamente compatibili con la diagnosi di Valerio Guerrieri il quale però, come si evince dalla testimonianza ap- pena riportata, aveva un cappio pronto nell’armadio. Il dato è sconcertante: 24 ore prima del suicidio il cappio fabbricato con un lenzuolo era già pronto all’uso e il fatto che nessun addetto ai lavori l’avesse notato fa riflettere.

“C’è un cappio nella cella 67”. Sarebbe bastato un semplice avvertimento per evitare il peggio.

 

Verbale di sommarie informazioni rese da Gianmarco Galli presso gli Uffici della Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Roma in data 28 febbraio 2017

“… sono stato suo compagno di cella per tre giorni, ovvero fino al suo decesso … intorno alle 22.30/23.40 non ricordo bene, Guerrieri Valerio chiese all’Agente di servizio di essere portato in infermeria per una puntura … dopo 5/10 minuti Valerio fu riaccompagnato in cella. Rientrato in cella si è sdraiato per circa 5 minuti in branda e dopo è andato in bagno. L’altro nostro compagno di cella dormiva ed io ero anche mezzo insonnolito, però ho avuto la prontezza di capire che passavano dei minuti e che Valerio stranamente non usciva dal bagno. Allora mi sono affacciato e dato che c’era la porta mezza aperta, ho avuto modo di notare il Guerrieri era penzoloni con un cappio al collo formato da un lenzuolo”

 

Ritengo sia lecito presumere che se fossero stati attuati controlli assidui da parte degli addetti ai lavori, si sarebbe potuto frenare l’impulso suicida di Valerio in tempo utile per salvargli la vita.

Da segnalare inoltre che dal diario clinico della casa circondariale “Regina Coeli” si può trovare questo dato:

 

7.11.2016

Visita psichiatrica:”… polemico. Rivendicativo. Richiede con atteggiamento minaccioso farmaci incongrui. Evidente disturbo di personalità di tipo antisociale T invariata. Si propone la revoca della Grandissima Sorveglianza e il passaggio alla Grande Sorveglianza …”.

 

Quindi nel novembre 2016 (tre mesi e mezzo circa prima del suicidio) la grandissima sorveglianza gli era stata revocata senza apparenti motivazioni valide.

 

Nelle considerazioni medico legali conclusive si possono trovare alcuni passaggi inerenti alla perplessità riguardo alle varie interpretazioni grossolane che hanno fatto da cornice al caso di Valerio Guerrieri.

 

“Dal punto di vista psichiatrico il quadro palesemente delineato dalla consulenza tecnica dello psichiatra dr. Renzo Di Cori nel settembre 2014 e dalle due perizie del dr. Mandarelli, la prima del dicembre 2016, la seconda del febbraio 2017, è quello di una grave psicopatologia consistente in una co-morbidità tra un Di- sturbo Antisociale di Personalità ed un Disturbo Borderline di Personalità che ha dato a rilevare anche segni di scompenso psicotico in un soggetto, con scarse risorse interne (ovvero bassa dotazione intellettiva, come dimostra il Q.I.=80 ottenuto dal dr. Di Cori), che mostrava anche scarsissima tolleranza allo stress,

difficoltà al controllo degli impulsi e che, oltretutto presentava una patologia da abuso e dipendenza da sostanze.

Il Disturbo Antisociale di Personalità si connotava per le gravi problematiche di condotta esordite in epoca pre-adolescenziale, per la difficoltà a conformarsi alle regole sociali, per la ricorrenza di condotte illecite, per l’impulsività del Guerrieri.

Il Disturbo Borderline di Personalità risulta documentato da sintomi peculiari di tale disturbo: il vissuto abbandonico percepito dal soggetto nei confronti della madre, il senso di vuoto interno (ovvero di sentimenti) ed esterno (assenza dí referenti a cui appoggiarsi e chiedere aiuto); le oscillazioni dell’umore tra senti- menti di depressione e di disforia, l’impulsività, l’abuso di sostanze, la trasgressività.

La letteratura internazionale l 2 riguardo al suicidio riporta dati che pongono il disturbo borderline ed il disturbo antisociale tra le più frequenti patologie psichiatriche a rischio di suicidio, seconda solo ai disturbi dell’umore ed all’alcoolismo.

Questi dati, ovvero la storia clinica del Guerrieri, i suoi pregressi atti autolesionistici, le sue idee anticonservative, gli stessi dati della letteratura rappresenta- vano, quando il soggetto era ancora in vita, dei fattori di rischio da prendere in considerazione nella valutazione delle modalità di gestione del regime detentivo. Tuttavia emergono perplessità sulla mancati adozione di un regime di sorveglianza più stretto, quale la sorveglianza a vista ed inoltre, trattandosi di detenuto affetto da una patologia psichiatrica caratterizzata da alto rischio di suicidio, sarebbe stato opportuno il ricovero presso una struttura psichiatrica extramuraria o, in alternativa, il trasferimento dello stesso presso un carcere dotato di servizio psichiatrico.

In ogni caso, per quanto riguarda la sorveglianza attuata la sera del 24.02.2017 sul detenuto Guerrieri, dalla documentazione in nostro possesso emergono dati discordanti sulla tempistica degli eventi3 che non consentono di stabilire con esattezza i tempi in cui il Guerrieri è rimasto effettivamente senza sorveglianza…”

Verbale di sommarie informazioni rese da Luis Miguel Huazo Aragon presso gli Uffici della Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Roma in data 2 marzo 2017

“… intorno alle ore 22.45/23.00 circa gli ho effettuato una siringa di Talofen per via c intramuscolare. Trattasi di terapia al bisogno che il detenuto aveva richie- sto. Ho effettuato la puntura al Guerrieri all’interno della sala dell’infermeria della 2A sezione. Il detenuto in questione ricordo che venne accompagnato dall’a- gente di servizio … era abbastanza tranquillo, addirittura abbiamo anche scherzato per qualche minuto quindi era di umore allegro e non mi ha riferito nulla di particolare che mi potesse addurre sospetti e/o preoccupazioni… “.

 

Questo dato, prendendolo per reale, è ancora più sorprendente: l’ultima persona ad aver parlato con il ragazzo dichiara di non aver riscontrato nulla di anomalo. A questo punto ci si potrebbe porre una domanda, ossia: vi è una motivazione plausibile per la quale una persona che ha pianificato il proprio suicidio richiede, poco prima di compiere il gesto, una terapia al bisogno per i dolori alla schiena? Il suo umore e la richiesta dell’antidolorifico a tutto farebbero pensare tranne a un proposito suicida. A meno che in quel segmento temporale non sia successo qualcosa che non siamo in grado di sapere, tra Valerio e gli operatori.

 

Verbale di sommarie informazioni rese da Stefano Guerrieri presso gli Uffici della Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Roma in data 10 marzo 2017

“… con mio fratello Valerio ho sempre avuto ottimi rapporti … ho ricevuto da mio fratello cinque lettere tutte inviate a mezzo e-mail per tramite la casella postale del “Regina Coeli” … Ho visto l’ultima volta mio fratello Valerio il 13 febbraio 2017, in occasione di un colloquio … era tranquillo e abbiamo chiacchierato del più e del meno per circa un’ora … alla sua richiesta di contattare un suo vecchio dottore tale Santo Rullo, che in precedenza lo aveva avuto in cura, presso la struttura Villa Letizia in Roma, l’ho sgridato e lui ha avuto una reazione spropositata, tipica di quando non assumeva il regolatore di umore che faceva parte di uno dei farmaci prescrittogli … non mi ha mai parlato e/o accennato al fatto di gesti inconsulti. Ho percepito qualche cosa nella lettera che ho ricevuto in data 17 febbraio 2017 e alla quale ho risposto subito cercando di confortare il suo stato d’animo. Ho interpretato questa lettera come una sorta di richiesta di aiuto, anche perché mio fratello era solito lamentarsi in questo modo al fine di attirare la nostra attenzione, che non è mai mancata…”

 

In realtà quello era un grido d’aiuto più forte di tutti quelli precedenti, amplificato dal senso d’ingiustizia che solo chi è ingiustamente detenuto può provare. La scarcerazione doveva aver luogo proprio in quei giorni. Valerio invece, come noto, era rimasto in carcere in attesa di un posto in una REMS.

 

Due giorni prima di questa lettera (14 febbraio 2017), in un audio originale registrato nell’aula dell’ultima udienza a cui ha partecipato, Valerio Guerrieri ha dichiarato:

“Io sto male, io mi voglio curare, però se mi mettete dentro dei posti chiusi, che sono chiusi, non ho il desiderio di curarmi. Voglio avere una vita normale…”

 

RECENTI SVILUPPI

 

Nei mesi successivi alla mia intervista (non in merito a essa, in merito alle indagini e all’interessamento della trasmissione “Nemo” di Rai 2) il fatto ha assunto una posizione molto più rilevante all’interno delle notizie veicolate dai media nazionali. Inizialmente, nelle settimane successive al suicidio, erano comparsi articoli nelle versioni online delle testate giornalistiche Left, Il Fatto Quotidiano e L’Espresso ed era stato registrato un ampio servizio su Radio Radicale.

Nell’ottobre 2017, a seguito del rinvio a giudizio richiesto per due agenti di Polizia Penitenziaria (che in quei minuti del 24 febbraio erano in servizio presso il carcere “Regina Coeli”), l’associazione Antigone, nota per essere attiva nell’ambito dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, ha fatto arrivare il caso sul tavolo del Comitato ONU contro la tortura. Per chiarire, innanzitutto, se Valerio in carcere ci dovesse davvero stare. Antigone aveva seguito il caso fin da subito, dietro richiesta della madre di Valerio. A tal proposito, a margine dell’intervista, Ester mi disse: “Scrissi su Facebook all’associazione Antigone e dopo poco meno di due ore ero già in linea con una loro avvocata. Davvero un’associazione straordinaria che spero mi aiuti a rendere giustizia al mio Valerio”.

Nel mese di dicembre, come precedentemente accennato, è stato trasmesso su Rai 2 (trasmissione “Nemo, nessuno escluso”) un servizio di 4 minuti sulla storia di Valerio.

La famiglia Guerrieri, assieme all’associazione Antigone, auspica di percepire una solidarietà e una vicinanza da parte delle istituzioni. Esse però si devono tradurre concretamente nell’intenzione reale di fare luce su una storia che, a oggi, presenta troppe ombre per poter essere archiviata. La ricerca della verità, l’individuazione di eventuali negligenze e la presa di coscienza degli errori commessi non debbono mai essere letti come segni di debolezza ma come elementi che permettono a chi osserva dall’esterno di riacquisire fiducia nelle istituzioni.

Nel caso di Valerio Guerrieri appare abbastanza evidente la sostanziale incolpevolezza della polizia penitenziaria. Il triste epilogo ritengo sia imputabili alle errate valutazioni di coloro i/le quali hanno fatto sì che Valerio Guerrieri si trovasse nel luogo a lui più inopportuno e senza un regime di sorveglianza adeguato. Il fatto poi che, ad oggi, a essere iscritti nel registro degli indagati siano due agenti di polizia penitenziaria (incidentalmente presenti nella fascia oraria della morte) è paradossale e ci permette di comprendere a pieno il grado di frustrazione al quale sono quotidianamente sottoposti tutti gli attori presenti e operanti nell’istituzione carceraria.

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