Nella mente dell’atleta: la psicologia dello sport spiegata

Articolo di Daniela Moschetto

Il fattore mentale nell’atleta

Non è possibile allenare il corpo dimenticandosi della mente, ed è altrettanto impossibile il contrario. Per allenamento mentale s’intende un atteggiamento di maggiore attenzione rivolti ai correlati emotivi e cognitivi durante l’allenamento “atletico”.

Il lavoro mentale influenza ed è influenzato da quello fisico.

I neuroni sono quelle cellule del nostro cervello capaci di trasmettere impulsi nervosi. Essi si servono di neurotrasmettitori ad esempio l’acetilcolina, che produce un effetto stimolante  e la  norepinefrina che, invece, ha effetti inibitori.

Tutti i nostri organi posseggono cellule recettrici che captano gli impulsi derivanti dal cervello orientando le risposte del corpo.

Quando entrano in gioco le emozioni l’apprendimento è facilitato, studi dimostrano che tra i sistemi cerebrali coinvolti nella memoria emotiva vi è l’amigdala che permette l’elaborazione emotiva dell’esperienza, dunque una situazione intensamente emotiva viene fissata nella memoria.

L’emozione è inoltre connessa alla motivazione.

Le emozioni rappresentano un elemento fondamentale dello sport ed un fattore critico potenzialmente in grado di accrescere o ostacolare la prestazione individuale e di gruppo. Esperienze quali la vittoria, la sconfitta e lo scontro fisico, fanno della pratica sportiva un luogo privilegiato dove imparare ad ascoltare e riconoscere emozioni come gioia, tristezza, rabbia e paura.

Le emozioni sono quindi una risorsa per la comprensione di sé e dell’altro e per il fondamento dell’azione consapevole (Hanin, 2003).

Come suggerito da Hanin e Syrja (1995), i processi emozionali possono seguire, regolare e sostenere l’azione sportiva, ma anche disturbarla e persino bloccarla.

In particolare, le emozioni relative alla prestazione sportiva costituiscono un argomento centrale della ricerca della psicologia dello sport degli ultimi 50 anni (Hanin, 1980; Unestahl, 1986; Vanek e Cratty, 1970).

L’attenzione di questa branca si è focalizzata principalmente sullo studio di quali emozioni fossero funzionali o disfunzionali alla prestazione sportiva, evidenziando come la loro analisi negli atleti faciliti la comprensione del vissuto soggettivo della gara, permetta l’individuazione delle reazioni e di eventuali problemi e, entro certi limiti, consenta di predire il successo nella prestazione sportiva (Terry, 1995).

Lo studio delle emozioni nei contesti sportivi negli anni ‘80 e ’90, si concentrò principalmente sui rapporti fra prestazioni sportive ed emozioni negative (Hardy, Parfitt e Pates, 1994; Lewthwaite e Scanlan, 1989; Passer, 1983; Parfitt e Hardy, 1987).
Ancora oggi, sono numerose le ricerche che hanno come oggetto di studio le emozioni negative, come la rabbia e la paura, in relazione ad aspetti connessi con l’attività sportiva.
Alla rabbia viene anche attribuita la capacità di attivare e guidare la motivazione ad agire, benché convenzionalmente non venga considerata un’emozione portatrice di moralità (Haidt, 2003).

Lazarus (1991) evidenziò che, nell’ambito sportivo, la rabbia è una delle emozioni che si innescano con maggiore frequenza perché facilmente suscitata dallo scontro fisico, dall’investimento crescente di impegno e dall’associazione fallimento-lesione della propria identità atletica.

Quest’ultimo aspetto è stato avvalorato anche da un recente studio nel quale è emerso che l’identità atletica è significativamente e positivamente correlata con la rabbia e l’aggressività (Visek, Watson, Hurst, Maxwell e Harris, 2010): quanto più è radicato in un individuo il senso di identità come atleta, tanto più frequentemente sperimenterà emozioni come rabbia ed aggressività a seguito di sconfitte ed errori, e viceversa.
Un’ulteriore emozione negativa alla quale la psicologia dello sport ha attribuito particolare influenza nel condizionare la performance agonistica, è stata la paura.

Tale emozione, nei contesti sportivi, è spesso stata associata al timore di:
– perdere o fallire, che spinge gli atleti a commettere più facilmente errori o ad abbandonare progetti di vincita;– procurarsi un infortunio, che influisce sulla fiducia che gli atleti hanno nelle proprie capacità e potenzialità, portandoli a valutare la propria prestazione di livello inferiore rispetto a quando la eseguono senza provare paura.

In riferimento a quest’ultima accezione della paura, Kori, Miller e Todd (1990, p.37) hanno definito la kinesiophobia come la “paura irrazionale e debilitante di effettuare determinati movimenti che porta ad una sensazione di vulnerabilità a lesioni dolorose o infortunio”.

Questa specifica paura è stata collegata al peggioramento del livello di qualità delle prestazioni fisiche ed alla conseguente demotivazione che porta ad impegnarsi meno nelle attività che possono portare ad un infortunio.

Hanin (1980), formulò la teoria della zona individuale di funzionamento ottimale (IZOF, Individual Zone of Optimal Functioning ,) secondo la quale ogni atleta possiede la sua zona ottimale di ansia in cui riesce a realizzare prestazioni ottimali. L’ansia è definita uno stato di aumentata vigilanza contrassegnata da un’elevata attivazione emotiva (arousal), definita da Hanin (2000) come il grado e l’intensità con cui viene vissuta una determinata emozione. In generale, l’ansia permette all’individuo di anticipare la percezione di un eventuale pericolo prima che questo sopraggiunga, attivando specifiche risposte che spingono da un lato all’identificazione della strategia più adeguata per affrontarlo, dall’altro, all’evitamento e all’eventuale fuga, l’acronimo IZOF sintetizza i seguenti concetti:
• Individual: la zona di funzionamento ottimale è specifica ed individuale per ogni atleta. Un determinato livello di ansia può essere infatti funzionale o disfunzionale a seconda della disciplina praticata, della sezione di gara in cui si verifica e delle caratteristiche personali dell’atleta.

  • Zone: si tratta di un campo di valori superato il quale la prestazione decade. Nella zona di funzionamento ottimale si ottiene potenzialmente la performance migliore.
  • Optimal Functioning: ogni atleta esprime un livello (che va stabilito individualmente) ottimale di ansia funzionale per il raggiungimento della prestazione più elevata.

Successivamente Hanin (1997) perfezionò il modello, estendendo la zona di funzionamento all’analisi di stati emozionali positivi/negativi che possono avere un impatto funzionale o disfunzionale sulla prestazione.

Fondamentale diviene quindi l’analisi delle emozioni, non più solo attribuendogli una valenza positiva e negativa, ma valutando in che misura queste possono essere funzionali, in un determinato atleta, per ottenere buone prestazioni (Hanin, 2000).

 

 

Le emozioni possono essere quindi classificate in (Hanin,1997, 2000):

  • positive funzionali
  • negative funzionali
  • positive disfunzionali
  • negative disfunzionali

Solo negli ultimi anni le emozioni positive hanno ottenuto la giusta attenzione dalla psicologia dello sport, che ne ha esplorato la relazione con molti degli aspetti che hanno un’influenza diretta sulla prestazione come l’attenzione, la rapidità decisionale e la fiducia in sé (Jones, Meijen, McCarthy e Sheffield, 2009).

Coloro che provano livelli di gioia più alti, prima o durante la competizione, sperimentano più frequentemente prestazioni vincenti, e viceversa.

Quando gli atleti provano emozioni positive, come gioia, orgoglio e felicità, sono portati ad ampliare la loro attenzione verso l’esterno, divenendo più ricettivi nel cogliere le informazioni provenienti dai propri compagni di squadra o dai propri avversari e sono più predisposti ad esprimere i propri pensieri in modo diretto ed assertivo (Carver, 2003; Fredrickson, 2001; Oatley, Keltner e Jenkins, 2006).

Sembra che gli atleti siano in grado di controllare ed autoregolare le emozioni che possono danneggiare le loro performances, considerando come funzionali solo quelle che permettono di ottenere buone prestazioni, indipendentemente dalla loro valenza positiva o negativa (Tenenbaum, Edmonds, e Eccles, 2008).

La funzionalità dell’emozione resta quindi legata ad ogni caso specifico.

Studi recenti hanno evidenziato che quando i membri di una squadra si attribuiscono il merito dei propri risultati, ritengono di controllare le cause delle proprie azioni ed hanno percezioni di efficacia collettiva buone, ovvero sono convinti che la squadra di cui fanno parte è in grado di organizzare ed eseguire le azioni necessarie per produrre i risultati prefissati, sviluppano più frequentemente emozioni positive.

Allo stesso modo se la squadra sperimenta una sconfitta ed attribuisce la sua causa all’errore di un singolo, i suoi membri saranno portati a sviluppare rabbia ed aggressività di intensità proporzionata all’importanza conferita alla partita.

In conclusione, lo studio delle emozioni, in particolare quelle positive, nei contesti sportivi è sempre più diffuso, avendo ormai evidenziato attraverso numerose indagini l’influenza di queste sulla performance degli atleti sia direttamente, favorendola o ostacolandola, che indirettamente condizionando aspetti mediatori della prestazione come la fiducia in se stessi, l’attenzione e l’impegno.

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