Come resistere allo stress

Articolo di Alessandra Serio

 

Dal momento che la resilienza emerge a fronte dello stress generato da situazioni avverse ed esperienze traumatiche, è utile soffermarci sull’impatto che queste ultime producono sui soggetti, evidenziando il ruolo chiave della vulnerabilità, quale predittore di future psicopatologie.

Hans Selye (Selye, 1936) fisiologo austriaco, identifica lo stress come “la risposta non specifica dell’organismo ad ogni richiesta effettuata ad esso” elaborando la Sindrome generale di adattamento, secondo cui agenti stressanti diversi provocano nell’individuo una reazione di difesa da parte dell’organismo.

Tale sindrome comprende tre fasi:

  • fase di allarme: in cui l’organismo si prepara all’azione producendo sostanze come l’adrenalina, per mobilitare le risorse energetiche e potenziare le difese;
  • fase di resistenza: in cui l’obiettivo è il raggiungimento di una condizione di adattamento e di equilibrio;
  • fase di esaurimento: in cui l’individuo può cedere, diventando vulnerabile ed indifeso, per le scarse capacità di reagire e/o per l’intensità dello stimolo.

L’autore indica lo stress come uno stato fisiologico che non può né deve essere evitato, in quanto esso ci permette, a fronte di una risoluzione positiva dello stesso, di aumentare il nostro serbatoio di energia, ossia di aumentare il nostro livello di tolleranza e resistenza allo stress, grazie alla sensazione di gratificazione che agisce da rinforzo positivo per simili situazioni future.

Pertanto, mentre nelle situazioni di stress cronico (o distress), le condizioni di stress ed attivazione dell’organismo permangono anche in assenza di eventi stressanti, nelle situazioni di stress acuto (o eustress), l’organismo avverte la necessità di intervenire ed agire con prontezza, concentrazione, efficacia e soprattutto in tempi relativamente brevi (Selye, 1936).

Le situazioni avverse a cui l’individuo può far fronte si presentano in diversi modi:

  • condizioni climatiche (ad esempio: inondazioni, terremoti, incendi forestali);
  • situazioni di ordine sociale (come incidenti, disoccupazione, problemi di insicurezza);
  • situazioni di ordine politico (quali attentati terroristici, genocidi, guerre, esili)
  • situazioni di tipo individuale (lutti imprevisti, adozione, crisi economica, abuso sessuale, malattie)

Una situazione avversa ha il potere di alterare la capacità dell’individuo che la sperimenta di far fronte alla realtà secondo nessi logici consapevoli: ciò che il soggetto avverte è una forza opprimente da cui è sopraffatto, da cui non ha scampo, che non prevede alcuna via d’uscita.

Ciò è dovuto alla natura imprevedibile dell’avversità che trascende la volontà dei singoli, privandoli di una spiegazione logica dell’accaduto, che ne permetterebbe la naturale integrazione nella propria memoria autobiografica. Ed è proprio a causa del carattere imprevedibile della situazione avversa, per il soggetto traumatica, che non vi è modo, in un primo momento, di poter essere nominata o tollerata.

L’esperienza traumatica si ripercuote sul soggetto attivando uno stato generale di confusione, angoscia e sofferenza ed alterando le relazioni interpersonali ed intrapsichiche, compromettendole (Rozenfeld, 2014).
In una prospettiva psicologica, cosa accade all’apparato psichico in seguito a una catastrofe? Secondo una lettura psicoanalitica, non è possibile per la mente né fare ritorno allo stato antecedente al trauma né recuperare l’equilibrio perduto, in quanto il trauma e il suo significato emozionale modificano sia quantitativamente, sia qualitativamente la soggettività dell’individuo (APA, 2012).

Gli psicologi Joseph Zubin e Bonnie Spring (Zubin & Spring, 1997) hanno descritto il concetto di vulnerabilità come il risultato di fattori genetici, ambientali, di apprendimento e di relazione sociale. Ogni persona ha la sua soglia per lo sviluppo di problemi psicopatologici, e a persone con una bassa soglia sono sufficienti eventi stressanti di bassa entità, mentre alle persone più resilienti una reazione psicopatologica (o problemi meno gravi) accade solo in caso di eventi catastrofici di lunga durata.
Attraverso la “metafora delle tre bambole” Anthony cerca di spiegare i concetti di rischio e vulnerabilità: le tre bambole, fatte rispettivamente di vetro, di plastica e di acciaio, reagiscono diversamente nel momento in cui subiscono un colpo di uguale entità.

La prima bambola si rompe, sulla seconda compare una cicatrice indelebile, mentre la terza resiste. La varietà dei materiali di cui è composta ciascuna bambola, semplifica il concetto secondo cui ciascuno di noi presenta un grado variabile di vulnerabilità e tolleranza allo stress, e da ciò dipende l’impatto sulla nostra vita di un evento stressante.
La metafore delle tre bambole è stata poi ripresa ed ampliata da Manciaux, che ne ha reso la connotazione più congruente al modello teorico della resilienza.

La bambola, una volta fatta cadere, si romperà più o meno facilmente, a seconda di alcuni fattori:

  • La natura del suolo: cemento o sabbia;
  • La forza della caduta: trascuratezza o aggressione;
  • Il materiale di fabbricazione: vetro, porcellana, stoffa o acciaio.

Trasposta tale metafora sul piano psicologico, il suolo raffigura il contesto familiare, sociale culturale in cui il bambino vive, la caduta rappresenta l’evento potenzialmente traumatico a cui è andato incontro, la resistenza del materiale indica il livello di vulnerabilità dell’individuo (Castelli, 2013); (Perez, Fitoussi 2010).

A livelli estremi di stress anche gli atleti di grandi prestazioni e i soldati meglio addestrati possono manifestare difficoltà ad agire in modo non adattivo, almeno temporaneamente, evidenziando come la resilienza sia situazione-specifica e possa variare nel corso della vita (Meringoni, Chiodini, Nardone, 2016).

Freud, nell’Introduzione alla Psicoanalisi fa riferimento all’esperienza traumatica sostenendo che: “Con essa noi designiamo un’esperienza che nei limiti di un breve lasso di tempo apporta alla vita psichica un incremento di stimoli talmente forte che la sua liquidazione o elaborazione nel modo usuale no riesce, donde è giocoforza che ne discendano disturbi permanenti nell’economia energetica della psiche” (Freud, 1915-17, p. 437) .

I vissuti traumatici possono ripresentarsi sotto forma di sintomi, essere rifiutati, o dar vita a deliri, allucinazioni e scissioni dell’Io; ma, uno degli esiti possibili è rappresentato anche dalla resilienza: è proprio grazie ad essa che, in risposta a quanto subito, il soggetto, pur soffrendo, non si rassegna alle circostanze.
L’essere umano non può recuperare lo stato iniziale, semplicemente perché indietro non si può tornare.
L’evento doloroso modifica la traiettoria del soggetto interagendo con la direzione del cambiamento.
Chiunque abbia subito un trauma, vorrebbe potersi distaccare dalle sensazioni di sofferenze troppo intense che annebbiano la ragione. Tale paradosso però, porterebbe il soggetto alla rinuncia dell’itera gamma delle proprie sensazioni, e di conseguenza alla rinuncia a vivere.

La fase paralizzante dovuta al dolore è solo transitoria, e viene messa in atto dall’organismo quale forma di protezione vero eventi potenzialmente sconvolgenti; superata questa fase iniziale, il soggetto deve affrontare un percorso di recupero delle proprie facoltà cognitive e sensoriali, al fine di riprendere in mano le redini della propria vita: l’esito di tale percorso, durante il quale andrà incontro all’elaborazione dell’evento traumatico, permetterà il reinserimento del dolore nel proprio percorso di vita.
Se la resistenza infatti implica per l’individuo l’essere in grado di non soccombere dinnanzi ad una prova difficile e talvolta estrema, la resilienza si pone ad un livello maggiore, e trasforma la prova in un’occasione.
Per far ciò, tuttavia, è necessario del giusto intervallo di tempo affinché il dolore possa trasformarsi in risorsa; si tratta di un “processo continuo di costruzione di valore, di saggezza operativa e sensibilità intellettiva”. L’esito di tale processo è dato dalla costruzione, da parte del soggetto, di un nuovo equilibrio funzionale (Meringoni, Chiodini, Nardone, 2016).
Al fine di fronteggiare la vulnerabilità, ed aumentare la soglia di tolleranza allo stress, è necessario soffermarsi sul concetto di coping.

Con questo termine ci si riferisce all’insieme dei meccanismi psicologici adattativi messi in atto da un individuo per fronteggiare problemi personali ed interpersonali, al fine di gestire e ridurre lo stress; esso pertanto include una vasta gamma di reazioni flessibili rispetto alle sfide della vita (Eckenrode, 1991). Mentre negli anni ‘80 il focus per comprendere come venissero determinate le risposte di coping era posto sui fattori situazionali, dagli anni 90 vi è un rinnovato interesse per i fattori di personalità. Pertanto, dal modello dello stress e del coping messo a punto da Lazarus e Folkman (Lazarus, Folkman, 1984), si arriva ad un modello integrato, proposto da Moos e Schaefer (Moos e Schaefer, 1993), i quali, nel tentativo di superare il riduzionismo, introducono un’ottica secondo cui affermano la complementarietà della prospettiva disposizionale e situazionale. Questi autori, inoltre, correlano le ricerche sul coping con quelle sulla resilienza, sottolineando come gli eventi stressanti inducano gli individui ad acquisire nuove modalità di coping, più adattive e funzionali.
Weiten identifica quattro tipo di strategie di coping:

  • Incentrato sulla valutazione: l’individuo modifica il proprio modo di pensare, mediante l’uso della negazione o l’allontanamento del problema.
  • Incentrato sul problema: l’individuo cerca di gestire in modo diretto la causa del problema, modificando la sorgente di stress. Le strategie messe in atto sono dunque: assunzione del controllo, ricerca elle informazioni e valutazione dei pro e dei contro (Folkman e Lazarus)
  • Incentrato sull’emozione: l’individuo rilascia le emozioni accumulate, riducendo o prevenendo le componenti emotive associate ad un fattore stressante al fine di modificare il significato del fattore stressante.
  • Incentrato sul lavoro: orientato verso un’occupazione duratura, in grado di fornire feedback positivi (Weiten, lloyd, 2008)

Una serie di studi (Zappia et al, 2012) hanno evidenziato come alcune risorse personali quali, l’autostima, l’ottimismo, l’autoefficacia, la percezione di controllo, caratteristiche tipiche dell’essere resiliente siano correlate all’uso di uno coping attivo (approach) e focalizzato sul problema e non siano correlate invece con il ricorso ad un avoidance coping centrato sulle emozioni.

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