Psicologia e Psicopatologia del Tarantismo

Esiste un’etnopsichiatria in Italia? Ernesto De Martino e Michele Risso

 

Dopo un periodo di relativo torpore la risposta sembra essere positiva. Almeno due i nomi che devono essere menzionati quando si voglia tracciare una possibile genealogia dell’etnopsichiatria in Italia: Ernesto de Martino e Michele Risso. Ernesto de Martino (1908-1965) è stato un etnologo e filosofo ma è più conosciuto come storico delle religioni. Estremamente famoso è il suo studio sul tarantismo pugliese nel quale analizza un fenomeno presente al tempo nel Salento. Il fenomeno vedeva protagoniste le giovani contadine salentine che,  nella stagione della mietitura, divenivano “tarantate” ovvero cominciavano una specie di ritiro dalla vita operosa: non svolgevano più il loro lavoro nei campi e nella casa, non onoravano più il letto coniugale, si sottraevano dalla vita di paese; in parole povere si potrebbe dire che erano annoiate, oggi diremmo depresse.

Se la crisi durava, veniva chiamato l’esperto, il suonatore di tamburello che esponeva la donna ai diversi ritmi che corrispondono alle varietà di taranta, il ragno che poteva averla morsa secondo la credenza. Se la donna veniva “scazzicata”- scossa, stimolata – allora la diagnosi era fatta e la via della cura era chiara.  In una serie di riti, in presenza dell’intera orchestra, dei famigliari e della gente di paese, la donna avrebbe incontrato la sua taranta, l’avrebbe ballata fino a sfinirsi per fare poi con lei il patto di onorarla, negli anni a venire, in occasione delle sue celebrazioni annuali. In cambio avrebbe avuto la pace.

Attento a comprendere il fenomeno religioso nei suoi complessi profili, de Martino finisce con l’incrociare naturalmente territori che sono al cuore della riflessione etnopsichiatrica: la funzione reintegratrice dei miti, il rapporto tra sofferenza e strategie magico-rituali, i modelli di efficacia terapeutica nelle tradizioni mediche-popolari, il significato dei culti di possessione e dello sciamanesimo ecc.  L’originalità del suo approccio ben emerge dal documento La fine del mondo (1977) pubblicato postumo e racchiudente un riesame critico storico-antropologico di buona parte della categorie e delle osservazioni psicologico-psichiatriche. Impegnato, come Devereux, ad evitare tanto l’etnocentrismo quanto il rischio di una valorizzazione delle differenza etnica priva di riferimenti al contesto e alla storia, esprime una posizione più moderna: mentre per l’etnologo francese la capacità di guarire dello sciamano si deve ricondurre alla riuscita identificazione tra corpo del malato e geografia del mito, a curare secondo De Martino è la possibilità di risituare il male e la rottura che questa esperienza genera nella biografia della persona all’interno di un piano mitico-rituale che consente la reintegrazione piena nel gruppo, il recupero della capacità di agire con quest’ultimo.  Sempre ne La fine del mondo  l’autore si pone dentro il paradigma etnopsichiatrico  perché considera il rapporto tra psichismo e cultura, quasi a voler cogliere i punti di penetrazione e intersezione tra l’una e l’altra fino a confondersi in una comune sostanza difficilmente separabile. Egli definisce il disordine psichico come:

Caratterizzato da una dinamica disintegrativa rispetto a qualsiasi ordine culturale […]. Ogni cultura è chiamata a risolvere intersoggettivamente il problema del distacco dalla natura, della protezione della vita cosciente […]. D’altra parte ogni cultura è minacciata costantemente sia nel suo complesso dal rischio di invertire questa dinamica, rendendosi incapace del distacco dalla natura, dalla protezione di vita cosciente […]: quando la minaccia si isola, rompe il suo nesso dialettico con il compito e presenta il segno di una negazione della cultura si ha il “disordine psichico.  (De Martino, 1977, p. 175)

Egli si oppone alla presunzione di un sapere psicologico che intenda sottrarsi ai vincoli della storia e dei contesti nell’esprimere i suoi giudizi sulla psiche normale o malata. Ritiene inoltre illusorie le separazioni tra saperi sostenendo che

Se fino ad oggi lo psichiatra si è occupato della mente malata e lo storico della cultura della mente sana, oggi si avverte la necessita di un terreno comune di ricerca interdisciplinare, poiché ogni individuo malato si ammala in una società e in una cultura e nell’orizzonte di una certa storia culturale (De Martino, 1977, p.192)

Delle tecniche e dei rituali terapeutici, o degli atti magici come tecniche, se ne può fare oggetto di ricerca, operando laddove possibile un confronto con altri modelli di cura: ma sarebbe impossibile un confronto che pretenda di isolarle, in quanto mere tecniche, dalle profonde radici in cui nascono (si ritrova qui Nathan e il suo voler fare delle tecniche oggetto di indagine ma anche la presa di distanza dallo studiarle al di fuori del contesto da cui hanno origine). In ultima analisi, importante è sottolineare come per l’autore la ragione su cui si fonda l’efficacia tecnica dei riti terapeutici sta nell’agire sia a livello inconscio sia sulla sfera del presente, del contesto oggettivo e condiviso (cerimonia).

De Martino riconosce un concetto di efficacia terapeutica come proprio di ogni cultura e, dai suoi scritti, emerge una consapevolezza critica dei limiti delle categorie nosografiche e della psichiatria europea i cui quadri non sono applicabili a tutte le culture.

L’altro grande pioniere dell’etnopsichiatria italiana è Michele Risso, psichiatra profondamente influenzato dagli scritti demartiniani. Per Risso i lavori di De Martino rappresentavano la via maestra per decifrare il senso delle angosce e dei sintomi di immigrati alle prese con la solitudine affettiva e le sfide dell’esperienza del lavoro in un contesto ostile. Insieme ad un collega, Wolfang Boker, Risso traccia una serie di riflessioni che s’impegnano in un ripensamento dello status sociale del sintomo, in una valorizzazione della comunità d’origine e dei modi altri di curare in quei casi in cui l’interpretazione psicopatologica sembrava perdere di pertinenza. Ciò che per gli autori è importante sottolineare è  che l’orizzonte di significati e di atti magici di protezione è in grado di influenzare positivamente l ’evoluzione della malattia ben più di quanto possano fare le terapie ordinarie. Oggi parte dei contenuti proposti da Boker e Risso non sarebbero più accolti: essi sembrano trovare nella condivisione di uno stesso universo simbolico fra paziente e guaritore e soprattutto nel ruolo della comunità e nella avvenuta reintegrazione le sole ragioni del successo terapeutico. Nonostante ciò  il loro lavoro merita di essere ricordato per la densità dei problemi richiamati.

Le conclusioni a cui giunge Risso rispetto al processo di guarigione nel paziente immigrato sono che

La possibilità di accogliere la malattia in un modello culturale accettato tanto dal paziente quanto dal suo ambiente natale, consente al malato di conservare la continuità della sua esistenza nella comunità.  (Risso, e Boker, 1996, p.96)

Quindi di mantenere un contatto con i suoi simili, con le sue appartenenze, aumentando le possibilità di guarigione.

Si chiede quindi  se  sia il caso di sviluppare un’indagine rigorosa dei modelli di cura e, in particolare, di quell’efficacia che continua ad interrogare noi “moderni”. Questo tema è lo stesso da cui, da diversi anni, è stato reso incandescente il dibattito sulla psicoterapia dei pazienti immigrati, tema su cui mi focalizzerò nel prossimo capitolo. Concludo questa prima parte dedicata alla storia e alla denominazione dell’etnopsichiatria con quanto riferisce Piero Coppo il 2 aprile 2014 durante una relazione presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Genova:

Tutt’ora sono attivi dei campi dove questo incontro con altri mondi, altri saperi, altre concezioni dell’umano, altre concezioni di malattia, altri modi di cura sono generativi di qualcosa che non appartiene più a nessuno cioè né alla psichiatria ne alla medicina ne al curandelismo ne allo sciamanesimo..qualcosa che si sta costruendo e per costruirsi deve costruire una metodologia delle relazione con l’altro che non passi attraverso l’indebolimento ne di un sistema ne dell’altro, ma che passi attraverso una messa in comune, là dove è possibile, di strumenti e possibilità interpretative che costituiscono un guadagno dal punto di vista operativo e della conoscenza ma, là dove non è possibile, occorre che le alterità siano rispettate e le differenze onorate. L’esito di questo processo non è quello di produrre dei medici sciamanizzanti o degli sciamani che fanno finta di essere medici ma creare la possibilità a due strade che hanno avuto storicamente percorsi diversi, uguali per dignità e per coerenza [..] che hanno diritto di confrontarsi e parlarsi attorno ad una stesso tavolo e poi vedere cosa si può fare, a volte alcune cose si possono fare insieme altre volte no.

 di Alessia Maccarrone

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