Come si sviluppa l’identità del bambino

L’influenza del contesto familiare e relazionale sullo sviluppo dell’identità

Anche se esaustivo e ricco di spunti, lo studio di Rosenberg e Horner non presenta, come sottolineato dagli stessi autori, evidenze scientifiche a sostegno delle proprie conclusioni; inoltre, si concentra esclusivamente sulle fantasie e sulle sensazioni individuali dei ragazzi adottati, non specificando se esistano dei fattori, al di là dello sviluppo cognitivo, che possano contribuire in questo complicato processo.

Circa una decina d’anni più tardi, nell’ottobre del 2000, un ulteriore studio (Grotevant, Dunbar, Kohler, & Esau, 2000) si è invece dedicato a identificare le principali variabili in gioco nell’elaborazione del proprio status adottivo. Rifacendosi agli studi di Erikson (1959-1968) sull’identità, Grotevant e colleghi ritengono che il processo di costruzione dell’identità avvenga a tre diversi livelli: intrapsichico, familiare e sociale. La componente intrapsichica fa riferimento ai processi cognitivi e affettivi implicati nella costruzione dell’identità, che, nel caso dei figli adottivi, comporta anche l’accettazione della propria esperienza di adozione. A questo proposito, gli autori sottolineano come l’importanza attribuita a tal esperienza sia diversa a seconda degli individui e che si possa immaginare come un continuum ai cui estremi si collocano, da un lato, ragazzi che non sembrano minimamente preoccuparsi del fatto di essere adottati e, dall’altro, adolescenti che invece investono molte energie nel riflettere su se stessi come figli adottivi. Oltre alla centralità o meno del proprio status adottivo, gli individui differiscono fra loro in base alle emozioni, positive o negative, a esso collegate e alla sua integrazione in una più ampia concezione di se stessi. Gli autori accennano alcuni dei fattori responsabili di queste differenze, in particolare il genere (le ragazze sembrerebbero incontrare più difficoltà nello sviluppo dell’identità, ma tenderebbero ad averne un’accezione più ampia rispetto ai ragazzi, che invece si concentrerebbero maggiormente sugli ambiti scolastici e lavorativi) e l’apertura dell’adozione (le curiosità attorno alle proprie origini, e quindi la propensione a riflettere sul tema dell’adozione, sarebbero maggiori nel caso di un’interruzione dei rapporti con i genitori biologici). Anche in assenza di informazioni e contatti con i genitori biologici, comunque, da adolescenti i ragazzi adottati tendono a formarsi un’idea della propria famiglia naturale e questo aspetto sembra cruciale nell’elaborazione del proprio status adottivo.
L’identità, però, non viene elaborata solo a livello intrapsichico, ma viene modellata anche dalle relazioni familiari. La famiglia rappresenta infatti il contesto in cui il bambino apprende il fatto di essere adottato e inizia ad interpretare e ad attribuire significato alla propria storia a seconda anche di come i genitori la raccontano. La modalità di affrontare questo argomento varia in base alle famiglie e viene influenzata dai consigli che i genitori ricevono dagli operatori, ma anche da quanto essi sono a loro agio nel parlare dell’adozione e nell’ammettere le differenze fra genitorialità adottiva e biologica. Nel caso delle adozioni aperte, invece, in cui si mantengono i rapporti con
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mamma e papà biologici, la comunicazione di quanto avvenuto può essere trasmessa e spiegata da entrambe le coppie di genitori e risulta tanto più efficace quanto questi collaborano fra loro. Se invece tale passaggio di informazioni non avviene, la scoperta, da parte del bambino, delle sue vere origini può risultare traumatica; inoltre, gli autori, collegandosi anche a precedenti ricerche, sottolineano come l’impossibilità, per gli adolescenti, di affrontare questi temi con i genitori e di esprimere le loro emozioni a riguardo sia connessa a scarsa autostima e a problemi familiari, che a loro volta incidono profondamente sullo sviluppo dell’identità. La mancanza di informazioni sulle proprie radici può far sentire un figlio adottivo diverso dai suoi pari e incapace di fornire un’immagine di sé esaustiva e autentica agli altri. Inoltre, soprattutto se appartenente ad un’altra etnia, potrebbe andare incontro a razzismo ed emarginazione o più semplicemente etichettato come diverso a causa della sua differente storia. In questo senso, infatti, gli autori evidenziano un terzo livello su cui avviene la costruzione dell’identità, quello appunto delle relazioni sociali.
Rispetto allo studio di Rosenberg e Horner (Rosenberg & Horner, 1991), questa più recente ricerca risulta decisamente più completa e mette in luce molti più fattori che concorrono alla formazione dell’identità, considerata quindi non soltanto come frutto di processi mentali e fantasie più o meno consce, ma come un costrutto complesso che deriva dall’interazione di più componenti, anche intersoggettive. A mio avviso, infatti, il merito di questi autori è da attribuirsi proprio al loro tentativo di mostrare il ruolo congiunto delle dinamiche relazionali, ma soprattutto familiari, e delle differenze individuali nell’elaborazione del proprio status di figli adottivi, che può quindi avvenire in modalità molto diverse. Tuttavia, Grotevant e colleghi (Grotevant, Dunbar, Kohler, & Esau, 2000) non spiegano come siano giunti a questi dati; inoltre, ritengo che molti degli aspetti evidenziati, come ad esempio le differenze di genere nella costruzione dell’identità o la facilità o meno per i genitori adottivi di raccontare al figlio la sua storia, siano appena accennati e non sia sufficientemente chiaro in che modo essi intervengano nello sviluppo del sé; allo stesso modo, anche la componente sociale dell’identità mi sembra poco approfondita rispetto a quella intrapsichica e familiare.
Due dei fattori messi in rilievo nella precedente ricerca, e a mio avviso solo in parte discussi, sono peraltro stati ripresi e ampiamente discussi in un più recente studio condotto nel 2011 da Grotevant e Van Korff (Van Korff & Grotevant, 2011). Gli autori
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hanno infatti supposto che l’influenza esercitata dal contatto con i genitori biologici sulla costruzione dell’identità adottiva sia mediata dalla frequenza con cui la tematica dell’adozione viene affrontata e discussa nel contesto della famiglia adottiva, approfondendo e mettendo in relazione fra loro il tema delle adozioni aperte con quello della possibilità o meno, per gli adolescenti, di poter parlare in famiglia della propria storia. Secondo Van Korff e Grotevant, infatti, il contatto con i genitori biologici aumenterebbe le occasioni per discutere e riflettere sull’esperienza dell’adozione nella famiglia adottiva e questo aiuterebbe i figli a costruire, elaborare e dare significato alla loro storia durante l’adolescenza e la prima età adulta. Come nello studio in precedenza esaminato, anche in questa ricerca il concetto di identità si rifà alla teoria di Erikson, ma ne vengono sottolineati due diversi aspetti: la tendenza ad esplorare e a riflettere sui vari aspetti di sé e l’impegno investito nel cercare di integrarli in una visione coerente e organizzata. Gli autori si rifanno anche ad un modello narrativo della costruzione del sé secondo cui la formazione di una propria identità personale implica la capacità di creare una narrazione, una storia su di sé che colleghi gli eventi passati e presenti con le aspettative future e che prenda forma anche nei contesti relazionali dell’individuo.
Per confermare la loro ipotesi, Van der Korff e Grotevant hanno raccolto un campione di 184 figli adottivi, divisi in un gruppo di adolescenti fra gli 11 e i 20 anni e un gruppo di giovani adulti tra i 21 e i 30. L’intero campione è stato sottoposto ad un’intervista semi strutturata mirata ad indagare come e in che modo i ragazzi siano venuti a conoscenza della propria adozione, i contatti con la famiglia d’origine, le loro emozioni riguardo a questi temi e le speranze per il futuro; anche i genitori del gruppo di adolescenti sono stati sottoposti ad un’intervista semi strutturata riguardante principalmente i rapporti con la famiglia d’origine dei ragazzi e la propria esperienza come genitori adottivi nella società. Le risposte, che sono state poi analizzate attraverso un modello di equazioni simultanee e strutturali, hanno confermato l’ipotesi degli autori: la frequenza del contatto con i genitori naturali è stata associata ad un maggior numero di conversazioni riguardanti l’adozione nella famiglia adottiva e questo a sua volta sembrerebbe contribuire alla formazione di una propria storia coerente da parte dei ragazzi; questi effetti, inoltre, sarebbero visibili non soltanto nel periodo dell’adolescenza, ma anche all’emergere della prima età adulta. La ricerca di Van der Korff e Grotevant è risultata quindi fondamentale nell’approfondire in che modo il
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contatto con la famiglia d’origine contribuirebbe alla formazione dell’identità, facendo notare anche l’importanza delle riflessioni e delle discussioni in famiglia di questi temi. Gli autori hanno inoltre raccolto un campione sufficientemente ampio per la loro ricerca sperimentale e hanno descritto molto accuratamente le procedure seguite, prestando particolare attenzione agli aspetti di attendibilità e validità statistica. Il loro studio rappresenta quindi un forte contributo agli studi sulle dinamiche familiari, sull’identità e sulle adozioni e può vantare il merito di essere stato il primo a mostrare empiricamente come gli effetti sui bambini del contatto con i genitori biologici possano essere dovuti in parte alle discussioni sull’adozione che avvengono nella famiglia adottiva. Tuttavia, ritengo che l’argomento andrebbe ulteriormente approfondito, anche perché l’associazione dimostrata fra contatto con i genitori biologici e facilità nel parlare dell’adozione non implica alcun rapporto di causalità: gli autori hanno ipotizzato che la non interruzione dei rapporti naturali fornisse più occasioni per discutere dell’adozione in famiglia, ma se invece fosse proprio la predisposizione dei genitori adottivi a riflettere su questi temi a consentire una maggiore apertura nella relazione e quindi più contatti con la famiglia d’origine? E che ruolo potrebbero svolgere queste riflessioni e discussioni nell’ambito invece delle adozioni chiuse, come in Italia? Inoltre, andrebbe tenuto conto del fatto che genitori capaci di parlare con i loro figli di tematiche così delicate potrebbero essere adulti più attenti all’importanza del dialogo in famiglia più in generale: gli effetti riscontrati sull’identità adottiva potrebbero essere in parte dovuti ad uno stile genitoriale improntato alla comunicazione e all’espressione delle emozioni, che in altre famiglie potrebbe essere meno presente. Infine, il campione raccolto per effettuare la ricerca è composto esclusivamente da ragazzi adottati a livello nazionale e quindi della stessa etnia dei genitori adottivi: le conclusioni non sono quindi generalizzabili anche alle adozioni internazionali.

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