7 Tecniche di Ipnosi per curare la depressione
L’ipnoterapia si è rivelata molto utile nella cura di chi soffre di depressione.
Il paziente depresso ha una visione pessimistica dell’esistenza che prende il sopravvento su ogni altra realtà immaginabile. Il soggetto per esempio tenderà alla catastrofizzazione, cioè a pensare che se una cosa ha anche solo una remota possibilità di andar male, questo accadrà senz’altro; tenderà inoltre a filtrare le sue esperienze tenendo conto soprattutto degli elementi negativi, minimizzando quelli positivi (Perussia, 2013).
Le persone depresse sono anche convinte che il loro disturbo sia permanente e che non possa cambiare: quest’idea può essere modificata tramite la suggestione ipnotica.
Il cambiamento può iniziare facendo narrare al paziente la sua storia. Il terapeuta tenderà a far sì che si enfatizzino i momenti passati in cui il soggetto non era depresso.
Per combattere l’idea del paziente, di continuità e permanenza del disturbo, il terapeuta può usare i truismi. Per esempio dicendo al paziente che ogni cosa cambia allo stesso modo in cui fanno le stagioni o che tutto muta anche i gusti personali per l’abbigliamento. Nello scegliere quale sia il truismo più adatto da proporre ad un determinato soggetto, il terapeuta si rifarà a tutto ciò che conosce di lui (Dobbin, 2012).
L’ipnotista, inoltre, tramite regressione d’età, può far rivivere al paziente in trance i momenti felici del suo passato e dargli delle suggestioni post-ipnotiche, in modo che egli continui a provare le sensazioni positive e di benessere ad essi legate, rimuginando su questi periodi sereni, invece che sull’attuale.
Un paziente depresso tende a focalizzarsi su eventi negativi del passato invece che sul presente o sul futuro. Fargli immaginare un futuro migliore sotto ipnosi, tramite progressione d’età,può essere utile ai fini della terapia. Il terapeuta può suggestionare il soggetto ad immaginare posti in cui sarebbe sempre voluto andare, o di incontrare persone nuove e amichevoli o, ancora, di realizzare qualcosa che avrebbe sempre sognato.
L’ipnotista può suggerire al paziente anche di vivere in un tempo in cui la depressione è svanita (Perussia, 2013).
Esistono due stili di pensiero: quello ruminativo e quello legato all’esperienza. Lo stile di pensiero ruminativo è associato al persistere degli stessi pensieri e delle stesse emozioni negative o positive che siano, ad esso legate. Esso è generalizzato, basato sulla verbalizzazione, decontestualizzato e autovalutativo. Lo stile di pensiero legato all’esperienza, invece, è contestualizzato cioè legato al compito, focalizzato sul processo e specifico. Anche se tradizionalmente si pensa alla ruminazione come qualcosa di negativo, in alcuni casi essa non lo è affatto. Per esempio quando un individuo è di buon umore può ruminare in continuazione su pensieri ed emozioni positive. La ruminazione è il nostro stile di pensiero di default. Essa risulta nociva solo quando il passaggio da uno stile di pensiero all’altro è reso impossibile da situazioni particolarmente stressanti (Watkins, 2008).
Dire che lo stile di pensiero ruminativo è generalizzato mentre quello esperienziale è specifico, significa che nella ruminazione il soggetto si focalizza su idee astratte (la vita è bella, io sono stato un bambino felice, non ero bravo nello sport) mentre nel pensiero legato all’esperienza l’individuo si focalizza su specifici eventi (sono felice di incontrare il mio amico domani, ieri ho sbagliato un calcio di rigore e mi sono sentito stupido). Nella ruminazione c’è uno scarso accesso ai ricordi specifici. La tendenza alla sovra-generalizzazione relativa alla ruminazione, è il più forte predittore della severità, della recidività e della durata della depressione (Hermans, Vandromme, Debeer, Raes, Demyttenaere, Brunfaut, & Williams, 2008).
Il recupero di ricordi autobiografici specifici dà la possibilità al paziente di non pensare più in termini ruminativi e di trovare una soluzione alle memorie più fortemente traumatiche. La regressione d’età è quindi utile proprio perché l’incipit della depressione può a volte essere collocata in concomitanza ad un trauma passato che il paziente non riconosce come causa prima del suo disturbo. Spesso infatti chi soffre di depressione attribuisce a chi gli sta più vicino la causa del suo male, per esempio ad una moglie non abbastanza accorta. Questo accade poiché, neurologicamente parlando, qualche aspetto della relazione con la propria moglie, agisce da innesco (trigger) e riattiva un pattern di disagio creato da qualcun altro nel passato.
Questo pattern è codificato all’interno dei circuiti neuronali e memorizzato nell’amigdala, esso può essere considerato un riflesso condizionato alla paura, che si riattiva in determinate circostanze.
Anche la depressione come l’ansia infatti può attivare il circuito della paura descritto nel primo paragrafo di questo capitolo. Quello che il terapeuta dovrebbe fare inizialmente è provvedere alla riduzione della risposta automatica alla paura relazionata all’iperattività dell’amigdala, per poi passare tramite la regressione d’età a scoprire qual è la causa del disturbo del soggetto.
In altre parole, l’individuo quando si sente in pericolo riattiva modelli di comportamento passato e un esame razionale della situazione non aiuta a scoprire il collegamento tra questi e l’evento traumatico collegato all’esordio del disturbo, mentre lo può rendere possibile il passaggio, tramite ipnosi, da uno stile di pensiero ruminativo ad uno stile di pensiero legato all’esperienza. L’ipnosi risulta lo strumento più appropriato per far passare repentinamente un soggetto da uno stile di pensiero all’altro e, inoltre, questa capacità di passaggio rapido può essere ancorato durante la seduta ipnotica (Dobbin, 2012).
Il modello attraverso il quale la persona depressa si rappresenta la realtà è disadattivo e spinge il soggetto a delle reazioni negativiste da un punto di vista cognitivo, emotivo e comportamentale.
Molti ipnoterapeuti ritengono sia saggio agire in modo da ottenere alcuni obiettivi principali: ristrutturare cognitivamente la visione della realtà del paziente portandola da negativa a positiva, attenuare per poi far cessare i sentimenti auto-svalutativi e auto-critici del soggetto, rinforzare i sentimenti positivi e supportare ogni, anche minimo, progresso (Perussia, 2013).
A questo proposito Perussia (2013) propone una strategia d’intervento che si rifà a Coué, in cui il paziente viene suggestionato in modo supportivo, a pensare che con il passare dei giorni la sua vita andrà di bene in meglio essendo egli in possesso di capacità e qualità che gli permetteranno di migliorare la sua esistenza e nel contempo di essere sempre più ottimista.
Un elemento chiave che evita di incorrere in episodi ricorrenti di depressione è la resilienza, vista la sua capacità di accedere ad emozioni positive in situazioni stressanti.
A questo proposito anche l’autoipnosi si è rivelata essere assai utile nella cura della depressione. L’autoipnosi, infatti, dà la possibilità al paziente di capire che egli è in grado di aiutare se stesso, aumentandone l’autostima. Tramite l’autoipnosi il paziente può tornare con la mente al proprio special place e creare immagini legate a sensazioni di benessere per vincere le emozioni negative. Lo stesso può essere fatto tramite l’uso dell’ancoraggio, che risulta molto utile quando vi è un esordio improvviso di sensazioni spiacevoli. Il paziente, impossessatosi di nuove risorse, diverrà più resiliente e, nel momento in cui si verificassero nuovi episodi depressivi, essi saranno meno gravi e più brevi dei precedenti (Dobbin, 2012).
La resilienza può essere promossa anche tramite il rinforzo dell’Io. Weilbacher & Cagiada (2015) sottolineano come l’utilizzo del rinforzo positivo dell’immagine di sé faciliti anche la guarigione del paziente. La simbologia che essi propongono è quella dell’albero con un tronco possente, radici profonde e rami forti protesi verso il cielo, con cui il soggetto si può identificare; oppure quella di un albero fragile che diviene robusto e rigoglioso. Tra i rami scendono raggi luminosi di sole che lo confortano con il loro tepore e illuminano i suoi pensieri (Weilbacher & Cagiada, 2015).
E’ bene ricordare, tra l’altro, che le persone depresse tendono ad essere molto focalizzate su loro stesse e che la depressione non crea solo un danno all’individuo, ma anche a tutti coloro che lo circondano: può sfociare in divorzi, negligenza nei confronti della prole e altri problemi familiari (Ramchandani & Stein, 2003).
Esistono oggi terapie “sistemiche” ipnotiche, che coinvolgono anche i familiari del paziente con diagnosi di depressione, in quanto l’eziologia di questo disturbo è multifattoriale e risente anche del sistema familiare e del contesto sociale in cui il paziente è inserito, che devono essere tenuti in considerazione anche nel trattamento (Loriedo & Torti, 2010).
La terapia tuttora maggiormente usata per la depressione rimane comunque quella cognitivo-comportamentale ideata da Beck. Nonostante siano trascorsi più di cinquant’anni essa non è cambiata nella sua premessa di base: le persone con depressione hanno uno schema fisso di idee disfunzionali, ad esempio, il soggetto potrebbe continuare a ripetere a se stesso di essere un fallimento. Un esame razionale degli errori logici commessi dal soggetto, tramite le domande del terapeuta che chiede ad esempio al suo paziente, come faccia ad essere sicuro che le sue affermazioni disfunzionali siano vere, porta i soggetti depressi a comprendere l’invalidità dei loro presupposti e a lasciar andare le loro false premesse. Questa terapia funziona realmente e riduce le ricadute (Dobbin, 2012).
La ricerca recente (Teasdale, Moore, Hayhurst, Pope, Williams, & Segal, 2002) riguardante la terapia cognitivo-comportamentale combinata con la Mindfulness o MBCT (mindfull based CBT), però, ha dimostrato che ad essere importante nella prevenzione delle ricadute, è il rapporto che il paziente ha con i propri pensieri, non tanto il contenuto dei pensieri stessi. Non sembrerebbe cioè essere curativa la trasformazione della cognizione del soggetto tramite disvelamento degli errori della sua logica quanto, invece, lo sarebbe il far riconoscere al paziente i propri pensieri per quello che sono cioè dei meri contenuti mentali che non hanno alcuna caratteristica di realtà o concretezza. I pensieri devono essere visti come qualcosa che non fa parte della persona ma come dei fenomeni esterni. E il soggetto si troverà ad essere un loro osservatore e dovrà semplicemente lasciarli andare, così come avviene nella meditazione. Non è quindi l’arroccarsi del terapeuta sullo smontare la logica del paziente che lo guarirà, ma il praticare la Mindfulness. Il paziente sarà guidato a fare attenzione alla respirazione, alla tensione muscolare e a visualizzare immagini dettagliate, come per esempio le gocce d’acqua che scendono dal vetro di una finestra, questi elementi sono sufficienti per cambiare i suoi pensieri. La Mindfulness, come l’ipnosi, incoraggia quindi uno stile di pensiero basato sull’esperienza invece che sulla rimuginazione.
Il terapeuta dovrà, innanzitutto, rafforzare l’Io del paziente. Mindfulness e ipnosi s’intrecciano. Il terapeuta fa chiudere gli occhi al paziente e inizia a spostare l’attenzione di quest’ultimo dagli stimoli provenienti dal mondo esterno (rumori provenienti dalla strada, consapevolezza della forma della stanza, della posizione dei mobili e delle finestre al suo interno, e così via), verso quelli provenienti dal mondo interno legati alla sua tensione muscolare e alla sua respirazione. Il soggetto sarà guidato alla contrazione di gruppi muscolari e successivamente al loro rilassamento cosicché, alla fine, tutti i suoi gruppi muscolari saranno tesi in successione, per poi essere rilassati. Inoltre ogni volta che il terapeuta farà contrarre e successivamente rilassare i muscoli al paziente, gli suggerirà di constatare la loro tensione e il loro rilassamento, mettendo così il paziente nella posizione dell’osservatore. Questo servirà da training per preparare il soggetto a divenire osservatore distaccato e non giudicante anche dei suoi pensieri e dei suoi ricordi. Quello che si fa con i muscoli lo si può fare anche con la respirazione, mentre l’ipnosi verrà indotta tramite la respirazione, il paziente sarà suggestionato ad osservarla. L’induzione della trance sarà seguita da suggestioni atte a rafforzare l’Io del paziente e a tornare eventualmente a ricordi traumatici passati (Dobbin, 2012).
La depressione è una delle cause più comuni di disagio in tutto il mondo. L’Organizzazione mondiale della sanità ha previsto che essa sarà classificata come la malattia più gravosa nei paesi sviluppati entro il 2020 (Murray & Lopez, 1997).
La notevole diffusione del Disturbo depressivo maggiore in Occidente costituisce un problema sanitario, sociale ed economico, per questo motivo è di fondamentale importanza delineare un trattamento efficace per questa patologia. Le ricerche svolte a tale proposito, sia effettuate su casi singoli che condotte su campioni trattati solo con l’ipnosi o con l’ipnosi in abbinamento ad altri trattamenti, evidenziano risultati incoraggianti (McCann & Landes, 2010).
Un trial clinico ormai datato (Kaye & Schindler, 1990) ha evidenziato come l’ipnoterapia sia efficace nel trattare la depressione. Già in passato alcuni autori (Godoy & Araoz, 1999) erano in grado di sostenere, tramite revisione critica della letteratura allora disponibile, la capacità di questo metodo terapeutico di risolvere i sintomi depressivi.
Uno studio randomizzato controllato (Dobbin, Maxwell, & Elton, 2009) ha dimostrato l’efficacia dell’autoipnosi in pazienti gravemente depressi i cui punteggi ottenuti con il Beck Depression Inventory (BDI) sono passati da massimi a minimi. Un altro studio (Brann, Mackrodt, & Joslin, 2010), condotto su più di 300 pazienti, ha dimostrato come la terapia ipnotica centrata sul paziente e orientata alle esigenze di ciascun individuo, abbia portato l’87% dei soggetti alla completa guarigione. I pazienti restanti, pur essendo migliorati, sono rimasti nel range dei depressi e solo un soggetto è peggiorato.
Un terzo trial clinico ha riportato invece solo dei miglioramenti non significativi nei pazienti depressi rispetto al gruppo di controllo (Butler, Waelde, Hastings, Chen, Symons, Marshall, Kaufman, Nagy, Blasey, Seibert, & Spiegel, 2008).
Una meta-analisi, ha dimostrato che l’ipnosi è significativamente efficace nella riduzione della sintomatologia depressiva (Shih, Yang & Koo, 2009).
Un’altra meta-analisiKirsch, Deacon, Huedo-Medina, Scoboria, Moore, & Johnson, 2008) ha evidenziato come molti degli effetti ottenuti con gli antidepressivi siano paragonabili a quelli che si ottengono con il placebo. Una rianalisi di questo studio l’ha però in parte smentito, suggerendo che anche se una grande percentuale della risposta al placebo è dovuta all’aspettativa questo non è vero se il farmaco è attivo (Fountoulakis & Möller, 2011).
Un’ulteriore meta-analisi di studi clinici ha recentemente dimostrato, inoltre, che esiste una piccola, ma significativa differenza tra l’utilizzo del placebo e quello dei farmaci a favore di questi ultimi (Hollander, 2013).
Nonostante gli studi sull’argomento riportino risultati contrastanti, c’è chi, come Kirsch (2014), continua a sostenere che molti dei benefici che si ottengono con gli antidepressivi sono in realtà dovuti all’effetto placebo.
L’efficacia dei farmaci supporta la teoria di uno squilibrio chimico a livello cerebrale nei pazienti depressi. Gli antidepressivi teoricamente funzionano perchè correggono questo squilibrio chimico, in particolare, la mancanza di serotonina. Ma l’analisi dei dati pubblicati e dei dati non pubblicati che sono stati nascosti da aziende farmaceutiche rivela che la maggior parte (se non tutti) i vantaggi sono dovuti all’effetto placebo. Alcuni antidepressivi aumentano i livelli di serotonina, altri la diminuiscono, e altri ancora non hanno alcun effetto sulla serotonina. Tuttavia, tutti mostrano un beneficio terapeutico dovuto, secondo quest’autore, all’effetto placebo. Gli antidepressivi invece aumentano solo la probabilità di recidive future.
Kirsch (2014) sostiene, inoltre, che i trial clinici che vengono presi in considerazione dalle meta-analisi, pur professandosi a doppio cieco non lo sono mai realmente. Molti pazienti, infatti, si rendono conto che è stato somministrato loro un antidepressivo, piuttosto che il placebo, a causa degli effetti collaterali prodotti dal farmaco attivo, che insorgono ben prima dei benefici. Sarebbe proprio il sapere per certo che si sta assumendo un farmaco attivo a potenziarne l’efficacia in modo significativo. Questo supporterebbe l’ipotesi che la relativamente piccola differenza tra farmaco e placebo in studi antidepressivi sia dovuta alla consapevolezza dei pazienti su ciò che stanno assumendo.
Il fattore che influisce sulla diminuzione della sintomatologia depressiva sarebbe dunque l’aspettativa.
A questo proposito si è riflettuto sul potenziale terapeutico della suggestione, intesa come intervento per facilitare il crearsi di aspettative funzionali all’ottenimento di risultati clinici significativi (Kirsch & Low, 2013).
Sebbene il dibattito sull’argomento sia tuttora aperto, è plausibile ipotizzare che l’ipnosi, che si basa sulla suggestione, possa essere presa in considerazione perlomeno come coadiuvante alla somministrazione dei farmaci per migliorare l’esito del trattamento. Chiedere se così va meglio.
Nel trattamento della depressione l’ipnoterapia risulta essere molto utile anche quando viene abbinata alla terapia cognitivo-comportamentale (Alladin, 2009; 2012).
Il terapeuta aiuta il paziente a trasformare i suoi modelli cognitivi, soprattutto gli stili di coping ruminativi, questa modificazione condurrà come conseguenza al cambiamento comportamentale (Yapko, 2010).
Uno studio randomizzato controllato (Alladin & Alibhai, 2007) ha confrontato pazienti depressi trattati con ipnoterapia cognitivo-comportamentale e pazienti trattati con terapia cognitivo-comportamentale non accompagnata dall’ipnosi. Al termine del trattamento, i pazienti di entrambi i gruppi sono migliorati significativamente. Tuttavia, il gruppo trattato con ipnoterapia cognitivo-comportamentale ha prodotto cambiamenti significativamente più elevati riscontrabili anche dopo 6 mesi e 12 mesi di follow-up.
Inoltre se l’ipnosi viene abbinata alla psicoterapia cognitivo-comportamentale, ne potenzia gli effetti e li velocizza (Yu, 2005). Tale abbinamento risulta possedere caratteristiche non solo di efficacia, intesa come raggiungimento di un obiettivo terapeutico dovuto alla riduzione della sintomatologia, ma anche di efficienza, in quanto l’ipnosi abbinata alla CBT consente di raggiungere dei risultati che ottimizzano le risorse a disposizione e minimizzano i tempi per ottenerli (Alladin, 2012).
Inoltre, il terapeuta riesce ad ottenere maggiore collaborazione e coinvolgimento del paziente, aumentandone la possibilità di guarigione, se si rivolge al paziente con toni e parole di comprensione, accoglienza ed empatia, ricorrendo a metafore, stimolando la creatività, valorizzando le emozioni positive e motivando il paziente al cambiamento, anche quando non utilizza direttamente tecniche ipnotiche. L’ipnoterapeuta dovrebbe utilizzare, per prassi, ognuna delle suddette modalità (Wehrli, 2014).
La letteratura riporta anche casi singoli di persone i cui sintomi hanno subito una remissione grazie all’ipnosi (Byron & Sungum-Paliwal, 2012; Yexley, 2007).
Alladin (2012) sostiene che i risultati delle ricerche e delle meta-analisi però non sono purtroppo generalizzabili, perché non esiste un trattamento applicabile automaticamente a tutti i pazienti, occorre invece adattare di volta in volta il trattamento, rispettando la specificità della personalità dei soggetti, del contesto in cui vivono e della loro sintomatologia, che è difficilmente riconducibile a criteri universali e rigidamente standardizzabili. Occorre perciò valutare di volta in volta quali specifiche tecniche ipnotiche si possano utilizzare ed eventualmente a quale specifico approccio psicoterapeutico affiancarle, prediligendo un approccio integrato e flessibile, basato su evidenze empiriche, e che si adatti contemporaneamente all’unicità di ciascun individuo.
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