Come aiutare gli anziani a vivere meglio

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Durante il corso dell’anno 2014 e 2015 ho avuto il piacere di entrare in contatto con una nuova realtà finora a me sconosciuta, quella dell’anziano istituzionalizzato, grazie alla mia esperienza di tirocinio presso la Struttura Residenziale Assistenziale “Casa Aura”, di Pesaro. In tale ambito ho affiancato la Psicologa della struttura nelle varie attività cliniche previste con gli ospiti. L’inizio del mio percorso è stato carico di curiosità ed entusiasmo, ma allo stesso tempo di preoccupazione verso quella nuova realtà, che mi accingevo a conoscere di fronte alla quale non sapevo se avessi mostrato il giusto approccio. Queste preoccupazioni sono poi svanite sin da subito, venendo accolta con calore e piacere da tutte le figure professionali della struttura e dagli ospiti stessi.

Al suo interno la struttura è suddivisa in tre nuclei che corrispondono a tre piani differenti, in cui gli anziani ospiti sono suddivisi in base alle necessità assistenziali. Al primo piano sono collocati gli anziani che godono di un buon livello d’ autonomia e sono in grado svolgere varie attività quotidiane, in alcuni casi recandosi anche al di fuori della struttura per commissioni personali. Gli altri piani sono invece dedicati agli ospiti con maggiori necessità assistenziali in quanto presentano varie tipi di patologie fisiche e psicopatologie, come depressione e demenze.

Le attività svolte dalla Psicologia e da me seguite prevedevano i colloqui di supporto psicologico con i vari ospiti anziani oppure i colloqui con i familiari  al momento dell’ammissione dell’anziano nella struttura, anche se trattandosi del mio tirocinio universitario di un tirocinio pre lauream, la mia presenza veniva garantita solo nel caso in cui l’anziano e/o i suoi familiari mostravano il loro consenso ed accordo perché io presenziassi insieme alla Psicologa, inoltre la mia partecipazione in questi casi era silenziosa ed osservativa.

Altre attività a cui ho partecipato erano le riunioni di equipe, coordinate dalla Psicologa con gli operatori socio-sanitari e gli infermieri dei vari nuclei della struttura. Tali riunioni venivano tenute mensilmente e costituivano un momento di riflessione e di confronto, necessario per garantire una monitoraggio continuo sulle condizioni dei vari ospiti e soprattutto per offrire un piano assistenziale valido e multidisciplinare.

Un’altra attività a cui ho partecipando è stata quella di stimolazione multisensoriale ispirate al training di stimolazione stessa, elaborato da Bower (1967), che ha l’obiettivo di potenziare i sistemi percettivi della persona con demenza stimolandone tutti canali sensoriali. Esso offre un elevato grado di plasticità, in quanto permette di modificare gli interventi a seconda della caratteristiche del singolo e del suo grado di compromissione cognitiva.

Le sedute di stimolazione avevano frequenza settimanale e una durata di circa mezz’ora o poco più e avvenivano in una stanza adibita appositamente per offrire vari tipi di stimolazione sensoriale. La stanza permetteva attraverso vari strumenti la stimolazione di tutti i sensi: la vista, il tatto, l’olfatto, l’udito e la propriocezione intesa come il senso di posizione statica e il movimento degli arti e del corpo. Infatti, al centro era collocato un letto ad acqua, di fronte al quale venivano proiettate immagini, in genere paesaggi naturali come il mare, paesaggi di vegetazione; queste erano accompagnati da stimoli uditivi come fruscii d’acqua, del vento oppure colonne sonore rilassanti; la stanza poteva essere illuminata da luci di diverso colore.

L’obiettivo è quello di offrire una stimolazione sensoriale equilibrata, bilanciando il numero di stimoli e la preferenza stessa dell’anziano verso stimoli calmanti.

Ciò che è stato interessante notare è che alcuni ospiti, seppur non fossero in grado di esprimersi a parole in quanto per esempio totalmente afasici, riuscivano a comunicare l’effetto vissuto dalla stimolazione, ad esempio mostravano un progressivo grado di rilassatezza e di apprezzamento attraverso sorrisi o cambiamenti posturali di fronte a stimoli percepiti come piacevoli. La scelta degli stimoli e la durata della seduta erano molto variabili e venivano stabiliti accuratamente dalla Psicologa a seconda delle condizioni dell’anziano e del suo grado di tollerabilità e di affaticabilità. In alcuni casi la seduta richiedeva più tempo del previsto, perché soprattutto con i pazienti con grave demenza, la persona a ogni seduta aveva bisogno di tempo per familiarizzare con l’operatore e l’ambiente.

Un’altra attività alla quale ho potuto partecipare è stata quella di PET Therapy supervisionata dalla Psicologa ma condotta da un’educatrice esperta e del suo cagnolino, che è stato abilmente addestrato per essere coinvolto in progetti di riabilitazione con persone disabili, siano essi anziani o bambini, e dotato di tutti gli opportuni certificati e riconoscimenti a tale scopo. La PET Therapy rientra tra quegli interventi meno specifici tra le varie pratiche riabilitative, il cui beneficio è stato riscontrato per la prima volta con malati psichiatrici in Gran Bretagna da Beck e Katcher (1983). Nel caso del paziente con demenza, sono stati riscontrati dei benefici se inserita in un progetto riabilitativo più ampio e sostenuto da altri tipi d’interventi. Tale terapia favorisce un miglioramento dell’interazione sociale e della capacità dell’anziano stesso di autogestire episodi di aggressività e di agitazione psicomotoria (Dello Buono et al., 2001). Il coinvolgimento degli ospiti della struttura in questo tipo di terapia venivano valutato con molta attenzione dalla Psicologa, che avendo una buona conoscenza dell’anziano, era in grado di prevedere se tale intervento sarebbe stato di beneficio; in altri casi la partecipazione e il livello di interesse che l’anziano veniva direttamente valutato in una seduta di prova, di fronte alla quale si prendeva in considerazione con l’anziano la possibilità di proseguimento dell’attività o meno. Infatti, questa attività richiede un certo grado di familiarità con gli animali domestici che non tutti gli anziani presentano, ma dopo i primi timidi approcci tutti gli ospiti coinvolti hanno accettato di buon grado l’attività.

La maggior parte del tempo trascorso presso la struttura, ha previsto la mia partecipazione a un progetto di stimolazione cognitiva condotto dalla Psicologa stessa, la quale è stata incentivata dall’equipe a svolgere delle attività cliniche per lavorare sul deterioramento cognitivo degli utenti della struttura con demenza lieve e moderata e con quelli con deficit o compromissioni cognitive di vario livello e origine. Tale progetto è ispirato all’intervento di gruppo evidence-based per persone con demenza lieve e moderata, elaborato da Spector, Thorgrimsen, Woods e Orell (1997-2002) (Pradelli, Faggian & Pavan, 2008). L’efficacia è stata dimostrata da Spector e i suoi collaboratori (2003), infatti, sono stati presi in considerazione un campione di più di 200 anziani con demenza lieve e moderata, che si trovavano in case di riposo, ed è stato sottoposto a tale intervento; gli autori hanno osservato che dalla valutazione successiva al trattamento emergeva un miglioramento della qualità di vita e delle capacità cognitive, in particolare di quelle mnestiche di tali pazienti, rispetto al gruppo di controllo trattato con le cure trazionali previste per la demenza (farmacoterapia).

Dal punto di vista teorico, l’intervento elaborato da Spector rientra tra le terapie cognitive comportamentali, in particolare tra quella di orientamento della realtà (ROT), ideata inizialmente da Folsom nel 1958 e poi successivamente messa a punto come tecnica specifica di riabilitazione per pazienti con deterioramento cognitivo (Taulbee & Folsom, 1966; Folsom, 1967). Il presupposto da cui origina la ROT è che le persone con demenza non presentino una totale compromissione ed è quindi possibile intervenire sulle funzioni neuropsicologiche, lavorando sulle capacità residue del soggetto, per cercare di promuovere e migliorarne il rapporto con la realtà. Inoltre, l’intervento fornisce un supporto psicologico attraverso l’interazione positiva, i messaggi di rinforzo e le gratificazioni, scoraggiando il ritiro e l’isolamento sociale della persona. Essendo una tecnica cognitivo comportamentale, ha l’obiettivo di offrire al paziente demente stimolazioni multimodali per rafforzarne le informazioni di base rispetto alle coordinate spaziotemporali, alla propria storia e all’ambiente circostante, tenendo ovviamente in considerazione le risorse e limiti del paziente e cercando di non “sovrastimorarlo” (Scocco, De Leo & Pavan, 2001). L’intervento di Spector rientra tra le modalità terapeutiche di ROT formale, (Scocco et al., 2001) che si contraddistingue perché strutturata in sedute a cui partecipano piccoli gruppi di pazienti; gli interventi sono modulati in base alla gravità della demenza e le esigenze dei partecipanti. Inoltre, esso si basa sulla teoria della “persona al centro”, per la quale il focus non è rivolto al deterioramento cognitivo stesso ma alla persona che lo manifesta, non dimenticandone il principio dell’unicità di quest’ultima e le esperienze di vita che hanno modellato la sua personalità e le sue attitudini (Pradelli, Faggian & Pavan, 2008). Altri principi, che vi sono alla base, sono il rispetto per l’anziano coinvolto, che non deve essere mai sminuito esponendolo a situazioni di difficoltà dinanzi al gruppo e la dignità per la persona, che deve essere sempre rispettata per il credo religioso e la sua cultura. Un altro principio è il coinvolgimento, per il quale ogni partecipante deve essere coinvolto con attività reputate dalla persona stessa e dal gruppo, piacevoli e interessanti. Il principio d’inclusione ricorda agli operatori, che conducono l’intervento, di fare attenzione a quei partecipanti che per motivi vari come ad esempio deficit visivi o uditivi o semplicemente per timidezza caratteriale, hanno la tendenza a isolarsi all’interno dello stesso gruppo e di favorirne il coinvolgimento. Gli altri principi sono la libertà di scelta del gruppo, che può indicare le attività di preferenza o promuovere approcci alternativi a quelli previsti dal programma e il principio del divertimento, per il quale le attività dovrebbero comunque risultare divertenti e piacevoli per tutti i membri.

L’intervento prevede l’utilizzo della tecnica della reminiscenza e della stimolazione sensoriale, che consiste nel promuovere una miscela di attività che coinvolgono tutti i sensi, favorendo la combinazione di questi in quanto più efficace nel lavoro con la demenza. Per quanto riguarda la tecnica della reminiscenza, quest’ultima è un concetto di origine psicoanalitica elaborato da Butler (1963) che sfrutta la naturale tendenza dell’anziano a portare alla memoria eventi di vita passati, che divengono fonte di gratificazione e di idealizzazione per la persona. Il clinico viene in aiuto dell’anziano nel ricordare e nel riattualizzare la ricchezza delle proprie esperienze passate, per mezzo di ausili come fotografie, oggetti personali o attraverso domande stesse. Ciò permette di rafforzare il proprio sé, inevitabilmente indebolito dal processo di deterioramento, all’interno di una dimensione di gruppo in cui si facilita l’empatia e la socializzazione (Padoani & Marini, 2001).

L’obiettivo di tale progetto di stimolazione cognitiva a cui ho preso parte era quello ispirarsi a tali principi e tali tecniche per favorire il miglioramento della qualità di vita delle persona con demenza, che non interessa soltanto la sfera cognitiva ma anche tutti gli aspetti della persona nella sua complessità. I contenuti proposti nelle varie sessioni avevano l’obiettivo di aiutare la persona a un maggiore contatto con la propria sfera sensoriale, favorire il legame e il senso di appartenenza al gruppo. Inoltre si è cercato di potenziare l’autostima e il senso di efficacia personale, sempre ovviamente nel rispetto della persona dei suoi tempi, dei suoi limiti e delle sue risorse.

Gli ospiti della struttura sono stati selezionati dalla Psicologa a seconda della gravità delle demenza, ma la loro partecipazione non è risultata sempre costante nel corso delle sedute, in quanto molti pazienti avevano uno stato di salute precario o in altri casi la loro assenza era motivata da visite mediche.

Il gruppo era molto eterogeneo, non includeva solo i pazienti con demenza lieve o moderata ma anche utenti che presentavano lievi deficit cognitivi o quadri di pseudodemenza e tutti quelli anziani che la stessa Psicologa e l’equipe della struttura ritenevano che avrebbero tratto beneficio da una situazione gruppale, come quella proposta.

Le sedute sono state invece costanti nel corso del tempo, con una frequenza di due volte alla settimana, di durata di 45 minuti in ciascuna. In ogni seduta, il gruppo era costituito da 5 o 6 anziani, e secondo il protocollo il clinico doveva essere affiancato da un volontario senza particolari conoscenza di tipo clinico ma con una buon grado di collaborazione (io stessa) e un’operatrice socio-sanitaria.

Durante le sessioni venivano utilizzati vari strumenti come una lavagna, una palla morbida, un registratore, un libro di canzoni, fotografie di facce famose, carte da gioco, libri di quiz e mappe del paese o di luoghi locali del passato e del presente. Tali strumenti permettevano lo svolgimento di attività differenti per ogni seduta.

Al termine di ogni seduta la Psicologa si serviva come da protocollo, di una griglia per valutare per ciascun ospite: la presenza, il livello d’interesse, quello di comunicazione, il divertimento e lo stato d’animo. Il protocollo ha previsto un totale di 14 sessioni a partire da Febbraio 2014 e a seguire delle sessioni di mantenimento a cadenza settimanale per altri quattro mesi fino a Luglio 2014.

Per ogni sessione era previsto un tematica centrale da affrontare con il gruppo ad esempio: suoni, infanzia, cibo e cosi via. I primi 10 minuti di ogni sessione erano dedicati all’introduzione, momento molto delicato, in cui tutti i partecipanti venivano accolti con un benvenuto, salutatati e chiamati per nome. Per favorire l’identità di gruppo, nella prima sessione del progetto è stata data la possibilità di scegliere ai membri, un nome e una canzone che li avrebbero identificati (il gruppo aveva scelta tra varie opzioni “Nel blu dipinto di blu” di Modugno). La canzone veniva ascoltata e cantata all’inizio di ogni sessione, contribuendo a creare un’atmosfera intima e allegra.

I minuti successivi venivano dedicati al gioco con la palla morbida per stimolare la coordinazione fino-motoria e la stessa socializzazione, perché ogni partecipante, inclusi gli operatori, dovevano accompagnare il passaggio della palla con la pronuncia del proprio nome e quello della persona a cui era diretta. In ogni sessione il gioco veniva stimolato con variazioni, come accompagnare il passaggio della palla dicendo al posto del proprio nome, il cibo, il colore e la città preferiti da ciascuno.

Successivamente, con l’utilizzo della lavagna si facilitava l’orientamento temporale e spaziale, coinvolgendo tutti i membri nel ricordare il giorno, il mese, l’anno, la stagione, il tempo, l’ora attuale e il nome della struttura.

La sessione procedeva poi con l’attività principale prevista dal protocollo, se questa ad esempio era il riconoscimento di facce famose, la psicologa ed io preparavamo delle copie di fotografie di personaggi famosi di modo tale che ogni partecipante potesse averne una copia personale; veniva poi chiesto a ciascuno di identificare il personaggio famoso. Tale identificazione offriva il punto di partenza per stimolare ricordi di ciascun membro, sulla vita professionale e privata del personaggio in questione, infatti, i personaggi scelti erano tutti di un’epoca passata, familiare agli anziani del gruppo.

Ogni sessione si concludeva chiamando ogni membro per nome, salutandolo e ringraziandolo e veniva ricordato l’orario e l’attività principale delle prossima sessione, per stimolare la curiosità e favorire la partecipazione degli anziani.

Al termine del progetto, la Psicologa aveva previsto una valutazione neuropsicologica completa per ogni membro, per confrontarla con quella effettuata all’inizio del progetto. I risultati ottenuti sono statti abbastanza soddisfacenti, è emerso un miglioramento sia a livello delle funzioni neuropsicologiche come la capacità mnestiche e attentive sia a livello di benessere psicologico dei partecipanti stessi. Infatti, ciascun paziente attendeva con impazienza le sessioni settimanali, vivendole come momenti desiderabili e piacevoli durante la settimana, che spezzavano la routine all’interno della struttura. Tale spazio inoltre costituiva anche un’occasione in cui ogni utente si sentiva libero di partecipare ad attività stimolanti e allo stesso tempo di raccontarsi, proponendo al gruppo sia problemi quotidiani di convivenza con gli altri ospiti della struttura, ma anche proprie questioni personali che vivevano con estrema sofferenza, trovando un clima di conforto ed empatia nel gruppo e negli operatori.

Durane le varie sedute sono rimasta particolarmente colpita dall’osservazione di una paziente, con la quale nel corso della mia esperienza di tirocinio ho instaurato un rapporto di affetto e simpatia. La signora mi ha reso partecipe di una sua consapevolezza acquisita nel corso delle sedute, chiedendomi per quale motivo percepiva le sue performance cognitive durante le varie attività del progetto come più scadenti rispetto ad altri partecipanti del gruppo, che avevano un’età più avanzata della sua e condizioni fisiche e mentali visibilmente più compromesse. L’osservazione della paziente è risultata più che corretta, infatti presentava un quadro depressivo cronico che aveva determinato una compromissione, anche se fluttuante, delle sue capacità cognitive, in particolare della memoria e dell’attenzione; tale quadro depressivo potrebbe essere identificato come pseudodemenza. La storia della paziente era stata costellata da sintomi depressivi manifestatisi in età giovane adulta di fronte ai quali la paziente non era mai ricorsa a un consulto psichiatrico. Inoltre avendo difficoltà ad avere figli, era stata per lungo tempo sottoposta a terapie ormonali che non avevano fatto altro che aggravare il suo quadro depressivo, i cui sintomi erano andati peggiorando dopo la morte del coniuge, portandola a tentare il suicidio con un’overdose di farmaci. La paziente veniva coinvolta in varie attività all’interno della struttura, per combattere la sua tendenza all’isolamento ed alleviare la sua sofferenza, molto evidenti soprattutto quando ha compiuto questa osservazione. In tale circostanza, ho cercato, con l’aiuto della Psicologa, di spiegare alla paziente la sua condizione e il motivo delle sue scarse performance cognitive, cogliendo tale situazione come spunto di riflessione per tutto il gruppo, per discutere sulle differenze interindividuali e su come le attività proposte, aldilà di queste differenze interindividuali, potevano comunque apportare beneficio a tutti i membri del gruppo sia a livello cognitivo che relazionale ed emotivo.

L’esperienza nella sua totalità, è stata arricchente non solo dal punto di vista formativo ma anche personale, in quanto ho avuto la possibilità di mettere al servizio la mia persona per entrare in contatto con questa complessa realtà. Sono rimasta sorpresa nel notare come, al dilà delle varie attività a cui ho partecipato, anche solo il semplice interesse, un sorriso o un abbraccio possa portare beneficio a persone che, nonostante tutte le limitazioni fisiche e mentali, sono ben disposte a condividere se stesse e il proprio mondo. Tale condivisione emergeva dai loro racconti, aneddoti, fotografie, che mi rivolgevano e soprattutto quando mi accoglievano nella propria stanza, perché nella struttura quella rappresenta il mondo più intimo e personale dell’anziano.

Attraverso altri momenti che sono riuscita a ricavarmi, ho potuto conoscere personalmente i vari ospiti, andando oltre le loro difficoltà di comunicazione, la disabilità fisica, che li riduce molto spesso su una sedia a rotelle, e notando come nonostante tutto siano in grado di trasmetterti un affetto, calore e positività.

La realtà del paziente anziano istituzionalizzato, infatti, insegna come sia prezioso la sola presenza, l’esserci, lo stare insieme e l’ascolto dell’altro.

Entrando in punta di piedi all’interno di questo mondo, con la curiosità di conoscerlo ma sempre con il rispetto dei tempi, dei modi e delle esigenze, in primis degli utenti stessi e poi della struttura, anche la diffidenza che inizialmente qualche ospite mi ha riservato, influenzata dai vuoti di memoria di chi da una settimana all’altra non riesce a ricordare il tuo nome e il tuo ruolo lì, ha lasciato il posto a una relazione di simpatia e d’interesse reciproco e sincero. Non sono mancati momenti difficili dal punto di vista emotivo, soprattutto quando da un giorno all’altro ospiti in maniera inaspettata e improvvisa, a causa di un peggioramento delle loro condizioni fisiche, sono venuti a mancare, lasciando un vuoto nella struttura, negli operatori e negli altri utenti.

Come già indicato, il mio contatto con la psicopatologia dell’anziano, non ha riguardato solo la demenza ma anche sintomi depressivi, d’ansia e pensieri di morte di chi ti esprime il suo desiderio di non vederti più in futuro nonostante l’affetto, perché la voglia di continuare a vivere è ormai svanita.

Inoltre all’interno della struttura, sono venuta in contatto con un’altra realtà parallela e preziosa, quella dei familiari degli ospiti, di chi quotidianamente si reca lì per stare vicino al proprio caro con tenerezza e tanta cura. È stato toccante vedere come figli, mariti, mogli o nipoti siano sempre presenti, anche se combattuti da una parte dal bisogno di vicinanza verso il proprio familiare e dell’altro dall’enorme carico emotivo di vederlo giorno dopo giorno coinvolto in un inevitabile processo di deterioramento mentale e fisico, sopratutto nei casi di demenza; tutto ciò aumenta la discrepanza tra il ricordo vivo di ciò che la persona è stata nel passato, solitamente persone attive e dinamiche, che hanno cresciuto e mandato avanti con sacrificio una famiglia e un lavoro, e la loro condizione attuale. Tutti i familiari hanno incoraggiato il coinvolgimento del proprio caro nelle varie attività previste, offrendo con entusiasmo il loro aiuto pratico, in quanto hanno riconosciuto l’importanza di questi momenti, preziosi e utili per la socializzazione e per l’utilizzo di quelle risorse di cui l’anziano ancora dispone.

Mentre vivevo tale esperienza, mi sono resa conto che chiunque voglia approciarsi a tale realtà deve compiere un notevole sforzo, quello di andare oltre i deficit uditivi, visivi, la disabilità fisica o la psicopatologia, per riscoprire la persona che vi è dietro, dotata di una propria storia, di proprie esperienze di vita e proprie peculiarità caratteriali. Ho imparato che la compassione, sentimento inevitabile che a volte prende il sopravvento nell’approccio con anziani disabili e fragili, deve essere superato perché l’obiettivo rimane sempre quello di valorizzare le caratteristiche individuali e la dignità. Solo così, infatti, queste saranno messe al riparo dalla demenza o da qualsiasi altra condizione psicopatologica.

di Vittoria Cerreti

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