Come la resilienza protegge da ogni psicopatologia
Articolo di Alessandra Serio
Nonostante l’aumento del rischio di disturbi psichiatrici dopo l’esposizione a traumi, molte persone sono in grado di adattarsi con una minima interruzione della vita e altri alla fine si riprendono dopo un periodo sintomatico ( Alim, 2009).
Negli anni Ottanta Albert Solnit ed Emmy Werner, prendendo “in prestito” il concetto di resilienza dal campo della fisica, in cui indicava la capacità di un metallo di riacquisire la propria forma originaria a seguito di un colpo non abbastanza forte da provocarne la rottura, ne svilupparono una metafora psicologica, al fine di spiegare come, dopo un trauma in grado di provocare un’agonia psichica, la persona ferita nell’anima possa ritornare a vivere.
La resilienza, pertanto, in tal senso, si connota come un processo grazie a cui gli individui possono ripristinare il proprio sviluppo personale, a seguito di un evento traumatico, nonostante vi siano circostanze avverse.
Ciò permette inoltre di comprendere che tra trauma ed esito negativo non intercorra una causalità lineare, ma che, invece, esistano diverse possibili traiettorie, tra cui, appunto la resilienza (Malaguti, 2005).
Per Cyrulnik, neuropsichiatra ed etologo di fama mondiale, la resilienza è innanzitutto una modalità di elaborazione del trauma. Per provocare un trauma, occorrono due colpi: il primo colpo è costituito dall’evento in sé, l’evento reale, che causa il dolore psichico ed è collocabile sul piano delle dinamiche interne; il secondo colpo è costituito dalla rappresentazione dell’evento, e riguarda la sofferenza dell’umiliazione associata a vissuti di abbandono o di diversità, ed è collocabile sul piano delle dinamiche relazionali.
I processi legati all’elaborazione dei due sono distinti: nel primo caso, avviene un lento processo di cicatrizzazione/riparazione a livello fisico e di memoria, mediante meccanismi di difesa maturi e funzionali; nel secondo caso è necessario un lavoro semantico, ossia una ridefinizione del significato dell’evento all’interno del sistema relazionale dell’individuo.
Questa duplice elaborazione dovrà svolgersi parallelamente al fine di garantire la riparazione: tuttavia, tale riparazione non potrà essere completa, in quanto non è possibile ripristinare del tutto il sistema psico-affettivo del soggetto, riportandolo allo stato antecedente il trauma, ma l’ “incrinatura” dovuta a questa cicatrice psichica, porterà il soggetto a confrontarsi nuovamente con tale fragilità, ma ciò renderà il ricordo sempre più sopportabile. La resilienza comporta riparazione ma soprattutto cambiamento, e può costituire un’opportunità di svolta e crescita (Cyrulnik, 2005).
Lo studio più noto in cui fece per la prima volta comparsa il termine resilienza fu condotto da Emy Werner; si tratta di una ricerca longitudinale, condotta a partire dal 1955 e protratta fino alla metà degli anni ’20, che coinvolgeva 698 neonati dell’isola Kauai (Hawaii). Circa la metà del campione era cresciuto in povertà. Un terzo dei neonati possedeva i pre-requisiti per una prognosi di disagio psichico o sociale, poiché esposti a diversi fattori di rischio, ossia: nascita difficile, povertà e miseria, famiglie con problemi di alcolismo, malattie mentali, aggressività e violenza.
Al contrario delle previsioni però, un terzo dei bambini riuscirono ad apportare miglioramenti alle proprie condizioni di vita, e divennero adulti in grado di creare relazioni stabili, impegnati sul lavoro ed altruisti. I fattori protettivi in tal senso, erano: la presenza di un caregiver come punto di riferimento, un’accettazione incondizionata, il supporto della fede religiosa, la capacità di attribuire un significato ed un senso alla propria esistenza.
Tale ricerca pertanto permise di comprendere come l’esperienza traumatica possa trasformarsi nel tempo, e configurarsi come occasione formativa per la crescita dell’individuo.
A tal proposito, secondo Atkinson, Martin e Rankin, i conflitti mondiali del XX secolo costituiscono una fonte di storie eroiche, ossia resoconti di sopravvissuti ad esperienze traumatiche che aiutano a far luce sul concetto di resilienza.
Un esempio in tal senso è costituito dalla storia traumatica di Boris Cyrulnik, rimasto orfano dei genitori a causa dello sterminio nazista; a tal proposito, in riferimento ai tentativi da parte dei superstiti dell’Olocausto di poter restituire un senso alla propria vita, sostenne che la sopravvivenza a traumi di tal genere, contribuiva allo sviluppo di nuove risorse.
Vanderpol, presidente fondatore della Boston Psychoanalytic Society and Istitute, si riferì ai sopravvissuti sostenendo che avessero sviluppato uno scudo plastico, costituito da fattori eterogenei tra cui il senso dell’umorismo e l’abilità di stingere legami significativi, grazie ad uno spazio interiore che forniva loro protezione rispetto alle intrusioni altrui ( Dettori, 2012). La resilienza è il risultato di un’interazione dinamica tra fattori di rischio e fattori protettivi, su diversi livelli: biologico, psicologico, sociale, ambientale. Tale aspetto dev’essere valutato globalmente nella storia di un individuo, pertanto si rende necessaria una valutazione lifetime prospettica, in quanto la resilienza non può essere semplicemente ricondotta al momento preciso dell’esposizione ad un evento stressante e/o traumatico. Ciò implica una particolare attenzione verso le strategie mentali, i tratti individuali e le esperienze vissute. Tra i fattori socio-culturali che promuovono la resilienza, troviamo: l’ottimismo, l’altruismo, le pratiche religiose, la flessibilità cognitiva, la dedizione nel fare le cose (Niolu, 2015). Uno dei fattori in grado di determinare se un evento traumatico infantile condurrà alla vulnerabilità o alla resilienza è il grado di controllo esercitato dal soggetto sul fattore stressate; nel caso in cui siano stati presenti episodi stress precoce incontrollabile, il soggetto potrebbe sviluppare un’ “impotenza appresa”, tale per cui l’individuo crederà di non essere in grado di cambiare la propria situazione; chi invece è riuscito a gestire con successo un fattore di stress moderato, sembra sviluppare maggior resistenza anche rispetto ad ulteriori e variegati fattori di stress successivi. Tale fenomeno prende il nome di “inoculazione da stress”, ed avviene nel momento in cui il soggetto sviluppa una risposta adattiva allo stress ed una resilienza superiore alla media agli effetti negativi di stressors successivi ed incontrollabili. L’inoculazione da stress è una forma di immunità contro i fattori di stress successivi, così come i vaccini rendono immuni alle malattie; ed inoltre induce la neuroplasticità della corteccia prefrontale, che garantisce protezione rispetto agli effetti negativi degli eventi stressanti. I circuiti neurali coinvolti nella resilienza, sono modificabili: ciò è dovuto all’interazione tra i fattori ambientali e la dotazione genetica, che influenza la capacità di recupero; i geni resilienti bastano a permettere ad un individuo di superare gli eventi più traumatici. Ad esempio, molti tra gli adolescenti esposti ad un trauma durante l’infanzia, sono stati in grado di “recuperare” una volta trasferiti in un ambiente amorevole e di supporto (Wu e al, 2013).
Sia l’abuso infantile che esposizioni ad altri tipi di trauma contribuiscono significativamente ad incrementare la gravità dei sintomi depressivi negli individui, mentre la resilienza ne modera gli effetti, mitigando tali sintomi (Wingo, 2010).
Un risultato è definibile come una prova di resilienza, quando, di fronte a situazioni avverse, l’individuo riesce a mantenere una traiettoria relativamente stabile di funzionamento sano ed un adattamento positivo; tale traiettoria rappresenta qualcosa di più della semplice assenza di patologia.
Ciononostante, è errata la credenza secondo cui gli individui resilienti non provino difficoltà transitorio durante o dopo l’esperienza traumatica; la resilienza permetta all’individuo che, tali reazioni di sofferenza, non interferiscano con la sua capacità di funzionare in modo continuo (Bonanno, 2012).
La resistenza consiste di tre dimensioni: l’impegno a trovare scopi significativi nella vita, la convinzione di poter esercitare un’influenza sul proprio ambiente e di conseguenza sul risultato degli eventi, e la convinzione di poter imparare e crescere sia dalle esperienze positive che da quelle negative; gli individui resistenti valutano le situazioni stressanti come meno minacciose, e ciò riduce l’angoscia percepita; inoltre, presentano maggior fiducia e maggior capacità di utilizzare coping attivo e di ricorrere al supporto sociale.
Inoltre, gli individui resilienti presentano un’ulteriore dimensione, ossia l’autovalorizzazione, la quale promuove il benessere.
Storicamente, le emozioni positive in contrasto ad evento avversi vengo interpretate come una forma di rifiuto rispetto all’evento; le ricerche però dimostrano che le emozioni positive aiutano a ridurre i livelli di sofferenza dovuti a traumi, riducendo le emozioni negative (Bonanno, 2014).
Nello specifico, le risate hanno la capacità di mitigare la sofferenza: individui in lutto che esibivano risate autentiche e sorrisi, in seguito all’esperienza di perdita, hanno avuto un migliore adattamento a lungo termine.
Il legame tra la personalità resiliente e l’adattamento è mediato dalle emozioni positive, tra cui gratitudine, interesse ed amore (Colak et al, 2003).
E’ utile sottolineare che i disastri causano danni psicologici solo in una minoranza di individui esposti ad esperienze avverse, tra cui disturbo da stress post-traumatico, dolore, depressione, ansia, costi sanitari legati allo stress, abuso di sostanze ed ideazione suicidaria; tale minoranza rappresenta il 30% del totale. Questo dato dimostra pertanto che, non vi è una causalità diretta tra evento avverso e disturbo psicopatologico, ma che, i disastri comportino diversi tipi di esito, tra cui la resilienza psicologica. Alcuni dei sopravvissuti, recuperano il proprio equilibrio in un arco di tempo cha va da alcuni mesi a due anni.
L’esito dipende dall’interazione tra fattori di rischio e fattori di protezione.
Uno dei fattori predittivi per far fronte alle esperienze avverse e costruire la resilienza sono le relazioni sociali.
I disastri colpiscono tipicamente rapidamente, ma potrebbero volerci anni per riprendersi da loro.
In risposta alle avversità estreme, l’individuo potrebbe sviluppare il PTSD, in concomitanza con episodi depressivi, ma, la depressione può anche verificarsi successivamente, come reazione disforica al fallimento o all’incapacità di recupero dal trauma iniziale. Rispetto ai possibili esiti, riscontriamo: un piccolo sottoinsieme che manifesta una traiettoria di disfunzione cronica, una parte sostanziale che manifesta una traiettoria relativamente stabile di sano adattamento o resilienza, una parte caratterizzata da un recupero classico (Bonanno e al, 2010).
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