Come nasce la Criminologia: la Storia da Platone in poi
La criminologia si è sviluppata utilizzando i metodi di ricerca delle altre scienze dell’uomo, specie della psicologia, della psichiatria, della psicoanalisi, della sociologia e del diritto, ma anche dell’antropologia, della genetica, della scienza politica, dell’economia, della filosofia, della storia, con una varietà di approcci che dimostra come non esista una scienza dell’uomo che non possa fornire un contributo allo studio del crimine. La riflessione sul crimine e sulla reazione sociale nei confronti del reato rappresenta un aspetto
fondamentale della cultura dell’uomo, che fin dall’inizio della sua storia ha elaborato, all’interno di sistemi religiosi, filosofici e mitologici, concezioni ed interpretazioni che in qualche modo anticipano le sistematiche elaborazioni della moderna scienza criminologica. La ricerca delle radici del male ha da sempre costituito il più angoscioso problema dell’uomo, su cui sono state date mutevoli e tormentose risposte nella mitologia, nella religione, nella filosofia.
Attraverso i secoli scrittori e filosofi furono attratti dallo studio del fenomeno criminoso.
Platone considerava il crimine come sintomo di malattia dell’anima. Aristotele pose l’accento sull’origine passionale –irrazionale del crimine. San Tommaso pur attribuendo alle passioni umane la maggior parte dei crimini riteneva che la miseria fosse un fattore criminogeno. Calvino, Montesquieu, Rousseau, Bentham, Beccaria, cominciarono a considerare alcune manifestazioni di criminalità come fenomeni a sfondo sociale ed economico. Lo studio della criminalità con metodo scientifico iniziò soltanto a metà del secolo XIX con la nascita della Criminologia. Essa si serve nello studio della realtà criminale dei metodi delle scienze naturali e sociali: delle indagini individuali, delle inchieste sui gruppi campione, delle statistiche di massa.
La criminologia è, pertanto, una scienza interdisciplinare che studia il comportamento antisociale allo scopo di conoscere le sue cause e di realizzare adeguati programmi di prevenzione e di trattamento.
Nel corso del suo sviluppo la criminologia si è fortemente caratterizzata per la contrapposizione di concezioni radicalmente diverse circa il tipo di risposta sociale necessaria per prevenire e trattare la delinquenza. Ad una visione sovrannaturale che considera il reato come espressione di forza incontrollabile si è opposta una concezione razionale, che considera l’uomo come soggetto capace di scelte responsabili.
Ad una prospettiva che considera il delinquente come espressione patologica di anomalie, problemi o conflitti, e la delinquenza come un sintomo da curare, si contrappone una prospettiva che considera il delinquente come un soggetto del tutto normale ed il reato come un evento regolato dagli stessi meccanismi psichici che sottostanno ad ogni altro tipo di comportamento. Ad un indirizzo che pone l’individuo al centro di ogni riflessione e che ricerca le cause del delitto in fattori relativi alla predisposizione individuale, alla storia personale, si oppone un orientamento che attribuisce fondamentale importanza all’ambiente, all’organizzazione sociale, alla struttura culturale, interpretando il reato come il risultato di queste spinte e determinanti che sovrastano le dinamiche individuali.
A seconda dell’affermarsi di questi paradigmi interpretativi e cioè delle generali modalità di affrontare, definire e concepire il problema dell’uomo di fronte alla norma penale, i contenuti ed i metodi della scienza criminologica si sono evoluti in modo differenziato. Nonostante ciò per molti anni la moderna criminologia si è sviluppata attorno ad un paradigma prevalentemente eziologico, caratterizzato dalla ricerca delle cause dell’atto delinquenziale (considerato ben distinguibile dai comportamenti non delinquenziali), mentre solo recentemente questo modello è stato contrastato dall’affermarsi di nuovi approcci teorici, che hanno introdotto una visione maggiormente complessa e problematica della criminalità.
Il più rilevante mutamento di paradigma verificatosi in criminologia in questi ultimi anni è rappresentato dallo sviluppo e dalla diffusione delle teorie della reazione sociale orientate verso lo studio dell’azione criminogena delle istituzioni di controllo sociale, delle prassi di discriminazione messe in atto dal sistema della giustizia e dei conseguenti processi di progressivo coinvolgimento nel crimine.
Attraverso questo nuovo approccio, l’oggettività e la neutralità delle nozioni di crimine e di delinquente sono state contestate ed è stata introdotta una visione più realistica del problema. Al termine “delinquenza ” si è affiancato il termine “ devianza” allo scopo di ampliare il campo di analisi dalla violazione di norme giuridiche alla violazione di tutte le norme che regolano la vita collettiva, comprese quindi le regole culturali. Questi nuovi approcci hanno visto opporsi i fautori delle diverse teorie criminologiche, si è aggiunto un nuovo contrasto che mette in gioco lo stesso oggetto della criminologia.
Le nuove teorie della reazione sociale, infatti partono dalla premessa che le norme e la loro applicazione non costituiscono una realtà oggettiva e neutrale ma configurano un sistema di controllo culturalmente e socialmente determinato. Queste teorizzazioni non si pongono più l’obiettivo di comprendere perché gli individui violino le norme ma tentano di comprendere i meccanismi attraverso i quali la delinquenza viene definita, prodotta, utilizzata.
Un altro problema di fondo che ha notevolmente condizionato lo sviluppo della teoria e della ricerca criminologica è strettamente collegato con la concezione dei rapporti sociali e con la interpretazione del modello di società che di volta in volta sono stati prescelti dal criminologo. Esistono strette correlazioni tra gli obiettivi, i metodi, le finalità applicative di una determinata criminologia e le scelte generali di tipo sociale politico e culturale operate dal ricercatore. E’ evidente che nella sua attività di ricerca il criminologo si colloca in prospettive diverse in relazione alle scelte ed al tipo di approccio utilizzato.
Attualmente si parla di Criminologia multidisciplinare quale scienza autonoma che attinge in modo sistematico dalle diverse discipline applicate allo studio del crimine. In realtà la collaborazione delle diverse scienze all’interno della criminologia può essere realizzata con modalità molto diverse e la possibilità di questa collaborazione appare talmente problematica da aver indotto la formulazione di sempre nuovi termini. Si parla di multidisciplinarietà, pluridisciplinarietà, transdisciplinarietà ed interdisciplinarietà per indicare le diverse modalità di intervento delle diverse discipline delle scienze umane.
L’interdisciplinarietà costituisce la modalità ed il livello di maggiore integrazione tra le diverse discipline presupponendo non solo una comunanza di obiettivi della ricerca ma anche una elaborazione e verifica congiunta secondo una metodologia predeterminata e condivisa. In realtà il rischio derivante dalla diversità dei linguaggi delle diverse scienze, e quindi la incapacità di addivenire ad una comunicazione autonoma chiara e condivisa rappresenta uno dei maggiori ostacoli alla concretizzazione dell’opzione interdisciplinare.
L’approccio metodologico è specchio della difficoltà della ricerca nel trovare un linguaggio omogeneo, una metodologia comune, un terreno unitario su cui procedere, vista la convergenza delle diverse discipline che si occupano della questione criminale, con tutto ciò che ne consegue in tema di diversità di metodi, di fonti nonché di linguaggi. E’ proprio la formazione di provenienza del ricercatore che finisce inesorabilmente per incidere sulla scelta dei criteri, dei sistemi, delle prassi e soprattutto della metodologia della ricerca.
Attenta dottrina ha sottolineato come la criminologia moderna si debba porre nel panorama scientifico in una prospettiva di progettualità di connessione ed interrelazione con l’obiettivo di superare i limiti delle singole discipline e tramutarli in risorsa di complementarietà. Uno dei compiti del criminologo è quello di contribuire a creare le condizioni in termini di ipotesi, finalità, obiettivi, strategie e azioni, affinché i processi di interazione disciplinare e professionale non si esauriscano in un accostamento informativo o tecnico di contributi bensì siano espressione di una competenza metodologica che si ponga come finalità di connettere ed amalgamare tra loro il sapere delle stesse superandone così i limiti singoli.
Ecco l’importanza basilare che la criminologia proceda sulla strada della complementarietà / interdiscilinairetà con lo sguardo rivolto a trovare una metodologia comune ed omogenea che garantisca ai ricercatori di estrazione e formazione differente di trovare un comune metodo, nonché nuovi e condivisi canali comunicativi nella salvaguardia delle singole autonomie.
Essi si differenziarono in scuole che si posero frequentemente in posizione antagonista, prendendo come fondamento, le une la costituzione biopsichica dell’individuo e le altre la realtà socioambientale.
In quest’ottica è utile ripercorrere quelle che sono le tappe ritenute fondamentali nell’impostazione del metodo e della ricerca criminologica. L’indirizzo individualistico ritiene che le cause primarie o esclusive della criminalità sono da ricercare in fattori endogeni ed incentra lo studio della criminalità principalmente sulla personalità del singolo delinquente. E sostiene la predisposizione individuale alla delinquenza, cioè la probabilità dei soggetti segnati da certe caratteristiche di pervenire al delitto.
Esso è andato sviluppandosi: 1) negli orientamenti fisico-biologici; 2) negli orientamenti psicologici (psichiatrici e psicodinamici).
Nell’ambito dell’orientamento fisico-biologico che incentra l’attenzione sui fattori fisici del delitto, sono riconducibili numerose correnti, che hanno esteso via via le ricerche ai più diversi settori.
Così sono stati studiati i rapporti tra salute o infermità di mente e criminalità.
Le indagini statistiche più recenti hanno evidenziato come non trascurabile fattore criminogeno le cattive condizioni fisiche nella misura in cui contribuiscono ad alterare l’equilibrio psicologico del soggetto.
Particolare menzione meritano le correnti che hanno studiato i rapporti tra determinate tipologie fisiche e criminalità e per i quali i delinquenti presentano caratteristiche fisiche particolari che li fanno apparire diversi e distinguibili dagli altri essere umani. Precursori furono i frenologi per i quali esisterebbe una stretta correlazione tra la forma anomala del cranio, la struttura del cervello ed il comportamento antisociale.
Avendo destato un considerevole interesse almeno fino alla metà del sec. XIX essi ebbero il merito di attirare l’attenzione sulla necessità di un’osservazione diretta dei singoli delinquenti, invece di limitarsi a formulare vaghe e astratte teorie generali del delitto. Ma le teorie che più di tutte influenzarono il pensiero criminologico nel campo individualistico antropologico furono quelle lombrosiane.
Ancorato alle teorie delle scienze naturali dell’epoca quali la teoria dell’evoluzionismo di Darwin, Cesare Lombroso (1835-1909) attraverso lo studio antropometrico di molti delinquenti sostenne nella sua opera più famosa la nota teoria del delinquente nato. Trattasi di un tipo antropologico di individuo che per le sue anomalie congenite sarebbe fatalmente portato al delitto, indipendentemente dalle condizioni ambientali ed esteriormente riconoscibile dalle stimmate degenerative anatomiche.
L’approccio di tipo biologico o indirizzo morfologico rappresenta il primo tentativo organico e scientifico di spiegare i come ed i perché del delitto e del delinquente. Se è vero che si è trattato del primo tentativo di approccio allo studio delle cause del fenomeno criminoso è altrettanto vero che negli ultimi tempi le ricerche di tipo biologico sono ritornate in auge per verificare se esistano fattori biologici o situazioni familiari e ambientali dei primi anni di vita che influenzino e favoriscano la commissione di reati.
Il fascino mistificatore della biocriminogenesi continuerà ancora a lungo a stimolare ricerche volte ad individuare fattori interni alla persona capaci di dimostrare una predisposizione individuale al crimine, alterandone il substrato morfologico-funzionale dell’organismo.
Il cosiddetto Progetto Genoma, volto ad identificare e catalogare i singoli geni responsabili della trasmissione ereditaria dei caratteri ha spinto verso nuove forme di determinismo biologico che comunque devono tener conto delle variabili culturali ed ambientali. A tal proposito è stato osservato da autorevole dottrina come sia assolutamente difficoltoso elaborare ricerche che sappiano scindere l’incidenza dei fattori genetici da quella dei fattori familiari ed ambientali.
L’ambiente familiare, infatti, rappresenta una variabile sociale e non genetica della riproduzione della criminalità nelle generazioni future tale che può essere semplicemente dovuta alle difficoltà dei genitori delinquenti nel predisporre un ambiente favorevole allo sviluppo dei propri figli.
Proprio alla luce di tali constatazioni nei primi anni novanta è stata realizzata una ricerca su 52 coppie di gemelli monozigoti separati poco tempo dopo la nascita, che ha fornito risultati significativi per l’ereditarietà del comportamento antisociale.Le prime ricerche a carattere ereditaristico condotte sui gemelli monozigoti e, quindi con identico patrimonio genetico, sul finire degli anni venti tentarono di dimostrare la base genetico-ereditaria del comportamento ereditario.
Gli studi di questo genere erano comunque deficitari sotto il profilo metodologico e delle tecniche di raccolta dei dati. Anche le ricerche di tipo genealogico hanno tentato di dimostrare statisticamente l’esistenza di una presunta ereditarietà nel comportamento criminale.
La scoperta di una maggiore presenza di soggetti con problemi di giustizia tra ascendenti e collaterali rispetto alle famiglie che non hanno mai avuto condanne nel loro ceppo, non può essere addotto come elemento probante della tesi in argomento. Infatti sono soprattutto le variabili di deprivazione socio-ambientale, la vicinanza di esempi negativi di identificazione e la conseguente facilità di apprendimento di modelli sottoculturali a spiegare la causa di una maggiore presenza di atti criminosi.
Alcuni studi sui figli adottivi hanno messo in luce alcune correlazioni significative tra commissione di reati ed ereditarietà, sebbene attenta dottrina abbia osservato sotto il profilo metodologico, come anche detti studi possano essere gravemente inficiati quanto al risultato finale da variabili come l’allontanamento non immediato del bambino dalla famiglia, con possibili interferenze anche determinanti di fattori prenatali o inerenti alle fasi precoci dello sviluppo.
L’approccio psicologico – psicoanalitico, sviluppatosi tra la fine dell’ottocento ed i primi decenni del novecento, è volto soprattutto allo studio ed all’individuazione di quelle peculiari caratteristiche psichiche e personologiche potenzialmente capaci di spiegare il come ed il perché del comportamento criminale.
Lo studio delle storie personali di vita, dei conflitti intrapsichici, l’analisi psicologica del profondo, i tentativi di elaborare criteri e modi di misurazione anche statistica degli aspetti della personalità, hanno rappresentato un ulteriore tassello aggiunto alla comprensione del complesso fenomeno criminale ma non certo hanno saputo fornire una coerente e convincente visione e spiegazione d’insieme.
L’approccio sociologico a differenza dell’approccio biologico ricerca le cause della criminogenesi anziché in fattori interni all’individuo nella società stessa. Il contributo della sociologia è ed è stato determinante per una nuova rielaborazione dello studio del fenomeno criminale, spostando l’accento dall’individuo alla società. Oggetto dell’analisi è il crimine e la criminalità e non il criminale ed il suo comportamento, anche se le influenze e le interferenze dell’uno e dell’altro approccio sono frequenti.
Ma anche questo approccio non è immune da vizi di ordine epistemologico e di metodo. Il comportamento criminale non è solo espressione di un fenomeno sociale ma è piuttosto il risultato della sommatoria del livello biopsicologico, del livello sociologico-ambientale e del livello normativo.
Infatti la moderna criminologia sta tentando di avere un approccio al fenomeno criminale sempre più integrato che affronti il problema nella sua complessità. L’approccio multifattoriale parte dalla consapevolezza che le condizioni sociali non sono idonee da sole a spiegare il crimine ed ha portato a tener conto non più solo del fattore biomorfologico, psicologico o sociale, ma di tutti insieme quali concause del comportamento deviante. L’indirizzo multifattoriale che caratterizza la più recente criminologia respinge le
teorie unicausali o unifattoriali, sia individualistiche che sociologiche. Queste concentrando unilateralmente l’attenzione su particolari condizioni ed elevandole a dignità di cause generali ed onnicomprensive della criminalità, trascurano le continue correlazioni tra componenti ambientali ed individuali, rispetto alle quali ogni divisione è artificiosa. Le teorie multifattoriali pervengono alla conclusione mediatrice, esprimente nel suo valore macrodescrittivo soltanto una tendenza, non preclusiva di libere determinazioni individuali: tra
predisposizione ed ambiente vi è un rapporto di proporzione inversa. Nel senso che l’ambiente può favorire il comportamento criminale dei soggetti potenzialmente predisposti: tanto più forte è la predisposizione tanto meno necessari ed influenti sono i fattori criminogeni ambientali; con l’accentuarsi del carattere criminogeno dell’ambiente possono pervenire al delitto categorie sempre più ampie di soggetti meno o anche solo marginalmente predisposti. Quanto più sono i fattori criminogeni ambientali tanto meno necessari ed incidenti sono le predisposizioni individuali.
L’approccio giuridico ha fornito un reale contributo attraverso la scienza del diritto allo studio del fenomeno criminale occupandosi soprattutto di definire il reato da un punto di vista normativo, sanzionandolo e punendolo. La sanzione ed in senso più ampio la dimensione normativa ha storicamente rappresentato uno dei primi e principali strumenti di controllo sociale e di garanzia dell’osservanza delle regole del comune vivere civile. Accanto al fatto penalmente illecito il secondo pilastro del diritto penale moderno è la personalità dell’autore dell’illecito penale . Circa i rapporti tra reato e autore la storia del diritto penale oscilla tra: a) un diritto penale del puro fatto, che si limita ad una esclusiva considerazione del fatto costituente reato evitando ogni indagine personologica per l’esigenza di punire la malvagità non dell’uomo ma dell’azione; b) un diritto penale dell’autore per il quale il reato non è che un sintomo della pericolosità sociale del soggetto; c) un diritto penale misto del fatto e della personalità dell’autore, che pur restando ancorato al fatto come base imprescindibile di ogni conseguenza penale, tiene conto della altrettanto imprescindibile esigenza di valutare la personalità del reo, però esclusivamente al fine di determinare il tipo e la quantità della pena.
Il criminologo prima ancora di spiegare come e perché un determinato soggetto si pone in conflitto ed in rottura con le norme, dovrà calarsi nella sua dimensione normativa individuale cercando di decifrare se la persona ritenuta responsabile delle proprie azioni sia in grado di porsi obiettivi e di prefigurare gli esiti delle azioni, nella condizione di riconoscere l’esistenza e la rilevanza delle norme che strutturano la convivenza sociale, capace di orizzontarsi nella complessità dei vincoli entro i quali si concreta l’azione.
Leggi tutti gli articoli di Criminologia
Scrivi a Igor Vitale