Come riconoscere il ritardo mentale (psicologia)
DISTURBI DELLO SVILUPPO INTELLETTIVO: IL RITARDO MENTALE
Per disabilità intellettiva, si intende una grave alterazione della mente che si manifesta come sindrome psichiatrica globale legata al difetto dello sviluppo delle funzioni astrattive della conoscenza e dell’adattamento, che presenta un funzionamento intellettuale sotto la media insieme ad una carenza nel comportamento adattivo. Nonostante presenti un danno organico cerebrale, il ritardo mentale non è una condizione unitaria: «non è una singola malattia o alterazione, ma si riferisce ad una categoria molto generale di persone che hanno assai poco in comune se non il fatto di non ottenere buoni risultati ai test di misurazione dell’intelligenza e nel profilo scolastico»[1] (Ingalls, 1984). Secondo il DSM-VI, i criteri per una diagnosi di ritardo mentale sono:
- Funzionamento intellettivo significativamente inferiore alla media , QI minore di 70 ottenuto con un test di QI somministrato individualmente.
- Concomitanti deficit o compromissioni nel funzionamento adattivo attuale (cioè le capacità del soggetto ad adeguarsi agli standard propri della sua età e del suo ambiente culturale) in almeno due delle seguenti aree:
- comunicazione
- cura della propria persona
- vita in famiglia
- capacità sociali-interpersonali
- uso delle risorse della comunità
- autodeterminazione
- capacità di funzionamento scolastico
- lavoro
- tempo libero
- salute
- sicurezza
- L’esordio prima dei 18 anni di età.
Data la complessità di valutare complessivamente le capacità adattive di un bambino, la diagnosi di ritardo mentale si basa prevalentemente sul QI[2], che presenta indubbi vantaggi: i risultati dei test intellettivi, infatti, rappresentano un dato piuttosto obiettivo e attendibile. Dunque, il QI e il profilo cognitivo rappresentano il principale strumento di diagnosi di ritardo mentale, con le dovute misure di cautela applicata ai vari livelli del processo diagnostico. Infatti, il QI non va considerata come una misura assoluta del potenziale intellettivo del soggetto; inoltre, si dovrebbe fare una valutazione che preveda la comparsa delle difficoltà, e soprattutto dovrebbe ricercarne la causa. Un’altra critica mossa ai test d’intelligenza riguarda lo stampo europeo o nord-americano che caratterizza la maggior parte di essi: questo perché, per lo più, misurare l’intelligenza è una peculiarità della civiltà occidentale. Questo crea non pochi problemi nella valutazione di bambini estranei alla cultura occidentale, che quindi devono essere valutati con le pinze.
Al giorno d’oggi, vi è una crescente attenzione verso l’individuazione precoce dei fattori di rischio per lo sviluppo, e quindi gli interventi riabilitativi precoci sono molto più frequenti, anche in caso di deficit di entità lieve. Comunque, tanto più grave è il deficit, tanto più precoce e sicura può essere la diagnosi: addirittura, in casi in cui il deficit è sostenuto da un quadro malformativo/disgenetico, la diagnosi è possibile anche nei primi mesi di vita. Invece, i casi lievi o moderati vengono individuati con discreta certezza nell’età prescolare, associandoli ad un ritardo nelle abilità motorie e ad un ritardo del linguaggio. Queste carenze motorie, che peggiorano dopo i due anni di età, si evidenziano nella carenza di autonomia nel compiere azioni quotidiane e alterano la capacità ludica del bambino. Accade ancora che la diagnosi venga fatta all’ingresso a scuola, soprattutto in quei bambini che, somaticamente, non presentano segni distintivi. Questo fattore può influire sul giudizio altrui, infatti le difficoltà di rendimento possono essere sottovalutate fino ad una prova concreta di deficit.
L’incidenza del ritardo mentale sulla popolazione varia a seconda degli studi, ma approssimatamente si aggira intorno al 2% se ci si basa solo sull’analisi del QI. Purtroppo, nel 43,3% dei casi la causa non viene riconosciuta, il 33,1% è riconducibile a lesioni acquisite del sistema nervoso centrale preperinatale, nel 10.9% a sindromi dismorfico/malformative crerebrali nosograficamente determinate, nel 9,1% a disturbi disgenetici, nel 3,6% a patologie dismetaboliche (Ingalls, 1984). Si riscontra una lieve prevalenza nel sesso maschile (60% circa): se si pensa ai bambini con paralisi cerebrale infantile, anche qui si riscontra lo stesso dato, che viene una maggiore vulnerabilità dei maschi al danno cerebrale al momento della nascita, e che potrebbe essere valida anche per quanto riguarda il ritardo mentale. Non vi sono caratteristiche fisiche specifiche associate col ritardo mentale. Quando esso fa parte di una specifica sindrome, saranno presenti le caratteristiche cliniche di quella sindrome, ma più grave è il ritardo, più alta è la probabilità di condizioni neurologiche, neuromuscolari, visive, uditive, cardiovascolari, e di altre condizioni. Il decorso del ritardo mentale è influenzato dal decorso delle condizioni mediche generali sottostanti e da fattori ambientali. Se la condizione medica generale sottostante è statica, è più probabile che il decorso sia variabile e dipendente da fattori ambientali: non dura necessariamente tutta la vita. Soggetti affetti da un ritardo mentale lieve nei primi anni di vita, attraverso un training e opportunità adeguati sviluppano buone capacità adattive in altri ambiti, e possono non presentare più il livello di compromissione richiesto per la diagnosi di ritardo.
Esistono tre modalità complementari di approccio per classificare i ritardi mentali. Una prima classificazione è puramente eziologica, per lo più medica; un’altra distingue i soggetti in educabili e addestabili; l’ultima, si basa sul QI e divide i soggetti in fasce che riflettono il livello della compromissione intellettiva: lieve, moderato, grave e gravissimo[3] (Baldini, 1995):
- Ritardo mentale lieve (livello del QI da 50-55 a circa 70)
- Ritardo mentale moderato (livello del QI da 35-40 a 50-55)
- Ritardo mentale grave (livello del QI da 20-25 a 35-40)
- Ritardo mentale gravissimo (livello del QI sotto 20 o 25).
- Ritardo mentale gravità non specificata, quando vi è ragione di presupporre un ritardo mentale, ma l’intelligenza del soggetto non può essere verificata con i test standardizzati.
I bambini con ritardo lieve possono apprendere qualche abilità di lettura e numerica, anche se poco utili a compiere azioni di vita quotidiana. In media, il livello raggiungibile può essere paragonato a quello della terza classe, a detta di Baroff (1992); riescono a raggiungere il controllo dell’intelligenza operatoria concreta ma non hanno gli stumenti del pensiero ipotetico, oltre a non riuscire a considerare criticamente le loro operazioni cognitive, questo se si fa un paragone con le fasi di sviluppo piagetiane[4].
Per quanto riguarda i livelli di autonomia, se opportunamente educati, riescono ad eseguire azioni come lavarsi o mangiare o anche semplici compiti casalinghi. Inoltre, le loro funzioni ludiche non sono compromesse, così come la capacità di interagire con i coetanei e stabilire relazioni di amicizia. Al massimo, presentano difficoltà nei giochi complessi o negli sport competitivi, così come nella gestione del denaro.
Questi soggetti sono consapevoli del loro handicap, proprio perché lieve: questo può portare alla nascita di problemi comportamentali in risposta alla presa di coscienza della propria “diversità” e ai sentimenti di inadeguatezza. Clinicamente parlando, possono sfociare in manifestazioni pseudo-nevrotiche o in disturbi depressivi e, più raramente, in comportamenti aggressivi, presentando una regressione rispetto alla tranquillità e protezione che percepivano nell’ambiente delle scuole elementari. I bambini che rientrano nella fascia del ritardo medio non vanno oltre il livello di una prima classe; nel corso del ciclo elementare, imparano a riconoscere parole semplici o a leggere frasi brevi.
Riescono ad eseguire addizioni e sottrazioni fino a dieci, e in generale il loro linguaggio è funzionale agli scopi comunicativi, infatti riescono a produrre un racconto orale semplice, pur non comprendendone sempre tutti i nessi logici fondamentali. Sono in grado, per quanto riguarda l’autonomia, di mangiare da soli utilizzando forchetta e cucchiaio, e riescono a vestirsi con l’aiuto per abbottonarsi. Riescono, inoltre, a compiere semplici commissioni, e, pur non sapendo come usarlo, capiscono il valore del denaro. Tendenzialmente sono impulsivi, poiché è presente una certa fragilità nel controllo emotivo; spesso vengono sottovalutate le loro esigenze affettive, che potrebbe comportare l’insorgere di sindromi da carenza affettiva e reazioni aggressive per scaricare le sensazioni intollerabili o per la frustrazione nel non riuscire ad elaborarle, a causa del deficit cognitivo.
Vi è quindi un certo rischio di organizzazione stabile di nuclei psicotici, molto primitivi e poveramente strutturati. Per quanto riguarda, invece, i bambini con ritardo grave, essi controllano male il loro pensiero simbolico. Possono riconoscere i colori, i concetti più semplici di tempo e spazio, e concetti numerici fino a due. Riescono ad usare autonomamente il cucchiaio, a vestirsi e lavarsi con supervisione; comprendono più di quanto riescano a produrre verbalmente, infatti il linguaggio è povero e spesso presenta disartria[5]. A tratti, questi soggetti tendono ad isolarsi, e possono presentare stereotipie povere o condotte auto-aggressive. Infine, i bambini nella fascia di ritardo gravissimo non hanno del tutto sviluppato gli schemi dell’intelligenza senso-motoria; riescono a raggiungere la costanza dell’oggetto, anche se con un controllo labile.
Capiscono richieste espresse attraverso i gesti e accompagnate da qualche parola a forte contenuto emotivo; inoltre, coesistono gravi limitazioni tali da richiedere l’assistenza da parte di altri, anche per le autonomie primarie. Indubbiamente, ogni caso ha le sue specifiche peculiarità, e, potenzialmente, lo sviluppo di ogni essere umano dipende da un’ampia gamma di fattori, e non meno importanti sono le stimolazioni che derivano dal contesto e l’ambiente socio-culturale in cui il bambino cresce, nonché il grado di accettazione da parte della famiglia. I fattori etiologici possono essere primariamente biologici o primariamente psicosociali, o una combinazione di entrambi. Infatti, in circa il 30-40% dei soggetti non può essere determinata un’etiologia chiara. I principali fattori predisponenti includono:
- ereditarietà (circa il 5%): includendo gli errori congeniti del metabolismo trasmessi soprattutto per via autosomica recessiva, altre anomalie di un singolo gene a trasmissione mendeliana e ad espressività variabile, e aberrazioni cromosomiche;
- alterazioni precoci dello sviluppo embrionale (circa il 30%): comprendono mutazioni cromosomiche o danni prenatali dovuti a sostanze;
- problemi durante la gravidanza e nel periodo perinatale (circa il 10%): e cioè la malnutrizione del feto, la prematurità, l’ipossia, infezioni virali o altre infezioni, e traumi;
- condizioni mediche generali acquisite durante l’infanzia o la fanciullezza (circa il 5%): infezioni, traumi, e avvelenamenti;
- influenze ambientali e altri disturbi mentali (circa il 15-20%): che riguardano la mancanza di accudimento e di stimolazioni sociali, verbali, o di altre stimolazioni, e disturbi mentali gravi.
[1] Ingalls, R.P., Insufficienza mentale – Problemi e prospettive, Zanichelli, 1984, p. 18
[2] Il Q.I. esprime come le capacità intellettive di un soggetto si collocano rispetto ai propri coetanei in un continuum dove la prestazione media cade sul punteggio 100. Rappresenta esso una misura della deviazione della prestazione individuale rispetto alla media del gruppo d’età di appartenenza del soggetto. Viene generalmente e attendibilmente misurato con una scala psicometrica standardizzata sulla popolazione di appartenenza del soggetto.
[3] Baldini, L., Psicologia evolutiva e disturbi dello sviluppo nell’infanzia, Il Pensiero Scientifico, 1995, pp. 161-169
[4]Jean Piaget distingue quattro stadi fondamentali dello sviluppo: lo stadio senso-motorio (0-2 anni), lo stadio pre-operatorio (2-6 anni), lo stadio operatorio concreto (6-12 anni) e lo stadio operatorio formale (da 12 anni in poi). L’età di passaggio da uno stadio all’altro varia a seconda dei bambini ma l’ordine degli stadi è immutabile. Durante il primo stadio, il bambino impara a conoscere il mondo attraverso le attività fisiche che compie. All’inizio, il suo “io” è al centro di tutto e non concepisce spazio e causalità perché non ha la nozione di oggetto. In seguito, inizia a percepire la permanenza degli oggetti e a coordinare l’attività visiva con quella tattile, la causalità tende a esteriorizzarsi e il tempo diventa progressivamente indipendente dall’io, il bambino riesce dunque a immaginare il percorso fatto dall’oggetto anche quando questo non è visibile e si sviluppa l’idea del ricordo relativo alle azioni che egli compie. Al secondo stadio il bambino impara il riconoscimento di sé, identifica la propria immagine allo specchio e riesce a vedersi con gli occhi dell’altro, inoltre sviluppa il linguaggio non per scopi comunicativi: non ha intenzione di ascoltare il proprio interlocutore poiché è ancora pervaso da quella tendenza all’egocentrismo che lo induce a osservare le cose solo dalla sua prospettiva. Un altro elemento importante è l’irreversibilità del pensiero, il bambino “pensa ma non può pensare il suo stesso pensiero” e concentra la sua attenzione su un unico aspetto di un avvenimento tralasciando gli altri che sono altrettanto fondamentali. Caratteristiche tipiche di questo secondo stadio sono l’animismo e l’artificialismo, inoltre egli attribuisce all’uomo un carattere di onnipotenza tale da essere il fautore di ogni cosa, perciò i suoi genitori diventano i principali artefici del suo mondo. Nel terzo stadio, si assiste alla scomparsa dell’egocentrismo del linguaggio, il bambino comunica con i propri simili allo scopo di scambiare informazioni ed è in grado di spiegare il proprio pensiero. Si sviluppa il concetto di reversibilità che gli permette di compiere un’operazione logica e di comprendere che alcune proprietà della materia, quali il numero, il peso e la quantità restano invariate qualsiasi siano i cambiamenti nella forma o nella disposizione spaziale subiti. Il bambino acquisisce, inoltre, la capacità di classificare e di ordinare in serie gli oggetti, riconoscendo l’appartenenza di questi ultimi a una determinata classe e riuscendo a disporli secondo una data sequenza. Piaget è stato il primo a ritenere che ci fosse un collegamento tra lo sviluppo dell’intelligenza nel bambino e il giudizio morale. Egli infatti fa una distinzione tra morale eteronoma, che si sviluppa intorno ai 5 anni, e morale autonoma, che nasce intorno ai 7 anni. Nel primo caso il bambino percepisce le regole come assolute e ritiene che una trasgressione di tali regole comporti un castigo, nel secondo tiene conto anche delle motivazioni delle azioni e non interpreta più le regole come immutabili; nasce quindi il senso morale. Nell’ultimo stadio, infine, non si parla più di bambino ma di adolescente e il pensiero che in precedenza si limitava agli oggetti concreti lascia spazio all’immaginazione e alla riflessione diventando un pensiero ipotetico-deduttivo. Si passa dunque a un egocentrismo intellettuale, destinato ad attenuarsi a poco a poco fino a raggiungere uno stato di equilibrio quando il pensiero si riconcilia con la realtà. In questo periodo si sviluppa anche la personalità, sotto l’influenza delle regole e dei valori che l’adolescente riconosce e del senso morale. Si assiste quindi al suo inserimento nella società adulta. (Nicola Lalli – sito web).
[5] La disartria fa riferimento alla difficoltà all’articolazione delle parole.
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