Come valutare l’Attendibilità del Testimone

 

L’attendibilità del testimone

Molto spesso si tende a confondere l’attendibilità del testimone con la capacità che egli può avere di testimoniare. Su questo punto recentemente la Corte di Cassazione ha precisato che la capacità a testimoniare “differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste, operando le stesse su piani diversi, atteso che l’una, ai sensi dell’art. 246 c.p.c.,3 dipende, come detto, dalla presenza in un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità (Cass. 30 marzo 2010, n. 7763). Il che significa che la valutazione va fatta, caso per caso, in concreto”.
L’ordinamento giuridico italiano fa riferimento alla figura del giudice come l’unico che può decidere sui fatti e sulla rilevanza dell’evidenza portata al processo ed è l’unico che può decidere, in base al proprio libero convincimento, se e in che misura utilizzare le prove portate dalle parti e i pareri dei periti. Per una minoranza della giurisprudenza utilizzare l’espressione ‘libero convincimento’ non è del tutto corretto, poiché in un processo fondato sulla decisione motivata dei giudici sarebbe più opportuno parlare di una valutazione legale e razionale: legale perché si esercita su prove legittimamente acquisite, razionale perché vi è l’obbligo di motivare la decisione secondo criteri di ragionevolezza, rispettando regole logiche, scientifiche e dell’esperienza.
Per la valutazione dell’attendibilità, come precisato dalla Corte di Cassazione, non basta solamente la valutazione di quanto il teste racconta (elemento di natura oggettiva), ma serve soprattutto la valutazione sulla persona del teste (elemento di natura soggettiva), analizzando il livello di intelligenza, la personalità, la competenza linguistica, la reazione allo stress, etc.
Sembra inoltre che in tutti i sistemi giudiziari, la fiducia esibita dal testimone sia un determinante fattore di predizione della sua attendibilità, nonostante secondo numerosi autori non ci siano elevate evidenze scientifiche di correlazione tra questi due aspetti (Neuburger, 1988). Esempio evidente è il sistema giudiziario statunitense che, come riportato anche da Deffenbacher nella rivista Law and Human Behavior, ha assunto come criterio per valutare l’attendibilità di ricognizione di persona il grado di sicurezza (confidence) dimostrata dal teste. Tale criterio è utilizzato dal magistrato come dal semplice cittadino chiamato a far parte di una giuria. A dimostazione di ciò lo psicologo Gary Wells e i suoi colleghi condussero un complesso esperimento, nel quale riprodussero un processo penale completo. È possibile distinguere due fasi. La prima in cui veniva messo in scena un reato di furto: all’interno della stanza nel quale veniva fatto accomodare il soggetto ignaro della condizione sperimentale improvvisamente entrava un attore che fingeva di rubare una calcolatrice. Le variabili di tale studio erano i tempi di permanenza nella stanza dell’attore e le parole che quest’ultimo rivolgeva al soggetto ignaro. Dopo l’uscita del finto criminale, lo sperimentatore chiedeva al soggetto di identificare il reo tramite line up fotografico e di esprimere il proprio grado di sicurezza nella scelta. Il risultato, che confermò quello già predetto da altri numerosi studi, fu che coloro che passarono meno tempo con l’attore avertissero lo stesso grado di sicurezza di coloro che poterono osservarlo per maggior tempo, nonostante la maggiore possibilità di incorrere in errore di identificazione. Di interesse maggiore fu il risultato della seconda fase dell’esperimento. Il soggetto conduceva una seconda intervista videoregistrata con un nuovo sperimentatore che non era a conoscenza né della scelta di identificazione fatta né dal grado di sicurezza dichiarato. Tali video vennero mostrati a un’ipotetica giuria cui venne chiesto di giudicare se il testimone avesse effettuato un’accurata identificazione. I giurati dichiararono di credere alle identificazioni dei testimoni molto sicuri di sé il 77% delle volte e a quelle dei teste meno sicuri il 59% delle volte. Questo come altri esperimenti hanno evidenziato non solo che il giudicante non è in grado di valutare correttamente l’attendibilità del testimone, ma hanno anche messo in luce il processo inferenziale per il quale i soggetti fanno affidamento sulla sicurezza mostrata dal testimone per valutare l’attendibilità. (Lindsay, Wells, & Rumpel, 1981) Non a caso gli avvocati cercano di preparare al meglio i loro clienti coscienti del fatto che vi è la possibilità che un testimone che dice la verità non è necessariamente creduto e che un testimone convincente non necessariamente dice la verità.
In conclusione è solo dopo un accurato esame del contenuto delle dichiarazioni rilasciate e della struttura della persona del testimone che risulta possibile formulare due opposti giudizi: “il testimone è attendibile” o “il testimone non è attendibile”. Giudizio da non confondere assolutamente con un’affermazione circa la realtà/non realtà dei fatti accaduti.

 

L’accuratezza

L’accuratezza, come già precedentemente riportato, è definita come la corrispondenza tra la realtà oggettiva del fatto e la realtà soggettiva raccontata dal testimone. Tale parametro per la valutazione dell’attendibilità, che riguarda gli aspetti cognitivi e percettivi della testimonianza, un tempo valutati secondo il solo buon senso, è stata oggetto di numerose ricerche scientifiche che hanno portato alla creazione di criteri di valutazione e misurazione delle diverse capacità individuali.
Prendendo in esame i primi esperimenti condotti su tale argomento è possibile distinguere due diverse tradizioni, una empirista e una costruttivista, che si focalizzano rispettivamente sulla misurazione della quantità e della qualità del ricordo che i soggetti hanno di un avvenimento di cui sono stati testimoni. Nei modelli proposti negli anni più recenti, tali aspetti vengono presi in considerazione in contemporanea e, in base alla condizione in cui vengono studiati (forced-report condition o free report condition), possono presentarsi come misure equivalenti o possono sostanzialmente variare.
La tradizione empirista che fa capo ad Ebbinghaus, focalizzata soprattutto sulla dimensione quantitativa, si pone come obiettivo di dare risposta a due quesiti fondamentali:  con quanta rapidità l’informazione può essere introdotta nel sistema?
 con quanta rapidità va perduta?
Utilizzando se stesso come soggetto sperimentale e assumendo il metodo del ri-apprendimento, Ebbinghaus concluse che esiste una correlazione lineare tra il tempo di apprendimento e la quantità di informazione ricordata e una correlazione inversa tra il tempo che passa dall’apprendimento e il decadimento dell’informazione.
Nonostante questi risultati siano stati confermati da successive ricerche, furono mosse numerose critiche e individuati notevoli limiti nella ricerca, il più importante dei quali fu in merito al campione utilizzato, in quanto Ebbinghaus fu l’unico soggetto dei suoi studi e questo impedì la possibilità di generalizzare i risultati sulla popolazione. La decisione di evitare l’uso di altri partecipanti sacrificò la validità esterna della ricerca nonostante la buona validità interna.
La stessa tradizione costruttivista, capitanata da Bartlett, criticò fortemente le ricerche e i metodi utilizzati dagli empiristi. Secondo i costruttivisti infatti l’attenzione andava focalizzata oltre che sulla quantità, anche e soprattutto sulla qualità del ricordo, consapevoli del fatto che una rievocazione può contenere omissioni, quindi riportare meno informazioni di quelle reali, ma può anche contenere aggiunte e modifiche che sono degli elementi caratteristici per la valutazione dell’accuratezza del ricordo.
In tempi recenti questo tipo di ricerca è stato in parte abbandonato a causa dei risultati scontati che presenta, ed è stato sostituito da ricerche intese a conoscere in che modo un giudicante si forma una convinzione sul grado di attendibilità della deposizione di un testimone. Questo cambio di prospettiva ha portato gli studiosi ad interessarsi più del problema della valutazione esterna della veridicità della deposizione che a quella di un’indagine sulla sua accuratezza. (Neuburger, 1988)

La credibilità

Non esiste una specifica categoria di giudizio per valutare la credibilità o meno della deposizione testimoniale. In mancanza di strumenti specifici, chi è chiamato a dare una valutazione sulla plausibilità o meno di quanto narrato in sede giudiziaria, non può che fare ricorso all’interpretazione. In linea di massima i giudizi di credibilità si basano molto sul comportamento esibito dal teste e dal modo in cui rende testimonianza. È infatti largamente diffusa la convinzione che sia possibile valutare la credibilità anche dai comportamenti non verbali che il soggetto mostra. Il modo in cui un soggetto depone costituisce una sorta di linguaggio secondario di cui l’osservatore attento può avvelersi per interpretare e talvolta per smentire il linguaggio principale. Per stimolare questi preziosi indici rivelatori, nel processo vengono utilizzate le contestazioni regolate dall’art. 500 del codice di procedura penale 4 (Ferrua, 2015).

Di questo parere è anche la dangerous decisions theory (DDT) secondo cui in particolare la lettura del volto di un teste e le sue espressioni emozionali giocano un ruolo importante nel promuovere decisioni “pericolose” relative alla sua credibilità (Porter & Brinke, 2009). Un noto esperimento condotto da Kauffman et al. (2002) ha dimostrato ciò; i partecipanti furono suddivisi in otto gruppi a sei dei quali è stata mostrata una delle sei differenti versioni videoregistrate di una testimonianza rilasciata da una vittima di stupro, ruolo svolto da un attrice professionale. Le sei versioni differivano esclusivamente rispetto all’ambiguità della situazione (nella versione forte la donna rifiutava costantemente le avance e respingeva attivamente l’uomo quando si è proposto fisicamente, mentre nella versione debole la natura del rifiuto della donna risultava molto più oscuro e dubbio) e in relazione alla condizione emotiva (nella condizione congruente la donna ha inscenato un insieme di emozioni che ci si aspetterebbe in una vittima di stupro, mostrando quindi la disperazione e raccontando la storia con singhiozzi occasionali, talvolta esitando come se stesse lottando per mantenere il controllo; nella condizione neutra ha raccontato la storia mostrando poca emozione; nella versione incongruente, che appare più positiva e piacevole, sono state inscenate anche emozioni paradossali come sorrisi timidi e riservati rivolti alla telecamera). Per confrontare l’effetto di “guardare la vittima mentre rilascia testimonianza” con “la lettura di una trascrizione della sua dichiarazione”, ai due gruppi rimanenti è stata fornita una versione cartacea della testimonianza in cui non era presente alcun riferimento alle emozioni della vittima. Dopo la visione e la lettura della dichiarazione resa, ai partecipanti venne sopposto un questionario. Le risposte erano presentate secondo una scala Likert a 7 punti ai cui estremi corrispondevano le valutazioni “credibile/non credibile” o “possibile/inverosimile”.
I risultati mostrarono che le espressioni emozionali utilizzate durante la testimonianza possono essere un forte determinante della credibilità percepita di una vittima, nonché della colpa e delle convinzioni sulle quali basare la propria sentenza del caso. In particolare quando la visione della testimonianza è stata confrontata con la lettura della sua trascrizione, i risultati hanno indicato che la percezione della credibilità diminuiva quando il testimone si trovava nella condizione emozioni neutre o incongruenti mentre rimaneva invariata nella condizione di congruenza. Questo implica che l’effetto che hanno le espressioni emotive non è quello di aggiungere credibilità al teste ma piuttosto quello di ridurre la credibilità nel momento in cui le emozioni visualizzate non vanno a conformarsi con le aspettative che si creano su come il testimone dovrebbe comportarsi. Questo suggerisce che i giudizi di credibilità sono fortemente influenzati dalle nostre credenze sociali.
Per molti versi tale risultato è allarmante in quanto l’ordinamento giuridico presuppone che le decisioni siano prese su un qualcosa di razionale e che avvenga una valutazione di fatto su ciò che è realmente accaduto piuttosto che sulle reazioni emotive delle descrizioni di presunti eventi.
Forse altrettanto allarmante è nei partecipanti una mancanza di consapevolezza dell’influenza che le espressioni emotive hanno sui loro giudizi di credibilità. In tutte le condizioni infatti i soggetti hanno riferito che sia la forma della testimonianza sia il suo contenuto sono stati importanti nella formazione della loro impressione. Questo corrisponde ai risultati ricavati da altri studi che mostrano grandi differenze tra le informazioni effettivamente utilizzate dai partecipanti nei giudizi di credibilità e delle loro convinzioni circa le informazioni utilizzate (Shaw et al., 1999). Quando tali fattori operano nei contesti forensi ed incidono in modo significativo nelle decisioni giudiziarie possono rappresentare una minaccia per la giustizia.

di Denise Isabella
2 È il tema di celeberrimo film di Akira Kurosawa: Rashomon. Il lungometraggio si sviluppa attorno l’uccisione di un samurai, avvenuta per mano di un brigante che avrebbe anche abusato della moglie di lui. Il samurai e la moglie avanzavano nella foresta quando un bandito, il feroce Tajomaru, li ha aggrediti. La vicenda viene raccontata da quattro testimoni, fra cui il brigante-violentatore, la moglie del samurai, la vittima (che parla attraverso un medium), ed infine un boscaiolo, che avrebbe assistito all’aggressione. Le versioni sono contrastanti e non si capisce bene quale sia la verità. La donna è stata violentata? Era consenziente? Il marito è stato ucciso mentre fuggiva come un vigliacco o si è suicidato per evitare il disonore del tradimento della moglie? Ognuno dei protagonisti dà la propria versione, compreso lo spirito del morto, evocato da una maga. Le quattro diverse testimonianze, ugualmente plausibili, differiscono tra loro al punto da far pensare che i testimoni abbiano assistito a quattro diversi eventi.
3 Art. 246 c.p.c.: “Non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio”.

 

4 Art. 500 cpp: 1. Fermi i divieti di lettura e di allegazione, le parti, per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. Tale facoltà può essere esercitata solo se sui fatti o sulle circostanze da contestare il testimone abbia già deposto. 2. Le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste. 3. Se il teste rifiuta di sottoporsi all’esame o al controesame di una delle parti, nei confronti di questa non possono essere utilizzate, senza il suo consenso, le dichiarazioni rese ad altra parte, salve restando le sanzioni penali eventualmente applicabili al dichiarante. 4. Quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate. 5. Sull’acquisizione di cui al comma 4 il giudice decide senza ritardo, svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte, che può fornire gli elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità.

 

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