Le parole che curano

Articolo di Emanuela Mangione

Sul “senso” della narrazione

 

“L’anima, o caro,

si cura

con certi incantesimi,

e questi incantesimi

sono i discorsi belli”.

 

Platone, Carmide, 157°

 

Nel counseling, come in ogni relazione terapeutica, il cliente qui, come il paziente in altre, si avvale dei contenuti delle proprie esperienze come mezzi per istaurare una tra le relazioni riferite. Troppo spesso però, ci si imbatte nella credenza che l’identità sia il costrutto delle nostre esperienze, a cui più sovente si lega una condanna.

Paragonando il percorso di ricerca che il cliente intraprende ad un pellegrinaggio, Sheldon B. Kopp scrive:

 

“Il pellegrino contemporaneo è distaccato dai miti capaci di infondere vita, miti che appoggiavano l’uomo tribale. È un isolato secolare che celebra la veglia funebre di un Dio morto. Quando Dio era vivo, e l’uomo gli apparteneva, la psicologia non era altro che un ‘ramo minore dell’arte della narrativa e della creazione dei miti’. Oggi, ogni uomo deve lavorare sulla narrazione della propria storia per poter riprendere la sua identità personale. Nell’intraprendere un pellegrinaggio psicoterapeutico, l’uomo inizia un’avventura nella narrazione. Tutto dipende dalla narrazione[…]. Il presupposto fondamentale è che la narrazione del racconto costituirà di per sé un buon consiglio. Questo secondo esame della sua storia personale può trasformare un uomo da una creatura intrappolata nel suo passato a un essere liberato per mezzo di esso. Ma la narrazione non è tutto. Lungo la strada del pellegrinaggio, ogni uomo deve avere l’opportunità di raccontare la sua storia. E, mentre ciascuno racconta la propria storia, un altro deve essere presente per ascoltarlo[1]”.

 

Per qualche strana sorte, chi più e chi meno, ma quasi tutti per natura, tendiamo a ricordare solo alcune cose delle nostre vite omettendone altre che, se raccontate, darebbero di noi una storia completamente diversa: “Più divento vecchio,” pare abbia detto Mark Twain “più vividamente ricordo cose che non sono avvenute”.

Tra le varie spiegazioni che possiamo darci, potremmo persino ammettere che, questo mostro sacro chiamato Novecento che ha prodotto la nascita della psicoterapia, ha instillato nel seno materno tutte quelle teorie sulle madri e i padri e sull’infanzia tutta, che abbiamo finito con suggere assieme al latte materno, per poi avvederci più in là che:

 

“I bambini, dopo tutto, sono inevitabilmente impotenti e dipendenti, malgrado le risorse che possono sviluppare per far fronte a quel mondo torreggiante in cui vivono. I genitori si rivelano sempre una delusione, in un modo o nell’altro. Le frustrazioni sono molteplici, e la vita è intrinsecamente incontrollabile”[2].

 

Insomma, nessuna infanzia è perfetta.

Inevitabilmente, cediamo al bisogno di fare certi aggiustamenti, alla tentazione di ricavare un senso nella biografia che ci appartiene, a ricucire i “sentieri interrotti della memoria” per usare la metafora heideggeriana[3] e in questa ossessiva ricerca di un senso sta il substratum della nostra natura: croce e delizia. A noi però si apre una scelta: o riconoscere la vita nella sua tragicità, o attribuirle un fine escatologico, oppure si può negoziare sui significati di senso che possiamo attribuirle.

Pertanto, qualunque sia la narrazione, né il cliente né la problematica che questo porti in seduta, sono quel che egli dice che siano necessariamente: non a caso la domanda fondamentale in questa sede pare proprio consistere nel “non Chi sei?” quanto nel “Come stai?”. Ciò che deve interessare non è infatti il contenuto della narrazione fine a se stessa, quanto i processi che si innescano come risposta a certi stimoli e il riconsiderarli, alla luce della raggiunta consapevolezza, per riportare (i clienti in questo caso) alla responsabilità di se stessi recidendo le maglie anguste e farraginose in cui il proprio modo d’essere poteva addebitarsi a terzi, in vista di un ritrovato benessere.

Quella sensazione di “essersi persi”, di “non trovare il bandolo della matassa”, l’impressione di essersi allontanati da se stessi fino a “non ricordare più chi sono”, quell’avvertito “senso di vuoto” insomma, pare costituire esattamente il medesimo quid che fa da sostrato a certe narrazioni.  L’aver costruito così “ordinatamente” la propria vita, secondo il principio del “conviene che si faccia così”, che assegna ad ogni stadio dell’esistenza dei momenti precisi, degli obiettivi precisi, degli obblighi precisi, pare poi restituire il pacco bell’e confezionato al mittente. Perché ci sorprende allora l’avvertire questo vuoto, se non si è che predisposto questo allontanamento?

“Una vita simile è come una narrazione priva di trama, tutta imperniata su una figura centrale sempre più tediosa, “io…io…io” che vagola nel deserto di “vissuti” senza più linfa” per usare le parole di Hillman[4]. Ora, si tratta di risuggere quella linfa.

Per molto tempo, buona parte della cultura ufficiale, concordava nel volerci convincere che noi siamo frutto di certi determinismi: che siamo quel che siamo perché siamo figli di certi genitori, perché siamo figli di certi ambienti e di una certa cultura. Con questo non voglio certo asserire che genitori ambienti ed esperienze non siano così significative da lasciare certe tracce, ma il percorrerle o meno è un’altra cosa, e si chiama libertà.

“Identificandomi senz’altro con il mio esserci empirico mi trasformo in un oggetto e mi annullo come libertà” [5]dice Jaspers.

Nemmeno la filosofia è rifuggita dallo stesso esito: il positivismo filosofico,  da cui è dipesa una visione settaria dell’uomo come “fenomeno” , è superata da troppo tempo perché ci si possa permettere di guardarci ancora a meri “fatti” filosofici sociologici o psichici che sia, o si trascenderebbe da quell’universo valoriale che concede di parlare non già più di “individui” ma di “persone” e metterebbe in crisi di conseguenza qualsiasi concetto di etica, qualora si discutesse ancora  in termini di probabilità, della libertà umana e della sua responsabilità. Forse, per rifuggire da tutti gli “-ismi” e in attesa di nuove visioni, parrebbe quasi saggio mantenersi nel mezzo ed orientare il tutto ad uno sguardo un po’ più sentimentale (“romantico” avrebbe riportato nuovamente a conosciute categorie) che concede di cogliere la bellezza di certe persone e di certe biografie che non incasellarle nelle maglie metalliche del concetto, come forse lo stesso Foucault voleva suggerire con il suo studio sui caduchi modelli di categorizzazione.

Allora, se la domanda è una domanda di “senso”, il senso manca quando viene a mancare la fantasia, l’immaginazione per sé e per i bersagli a cui addebitiamo le mancanze del nostro senso. Trovare un senso per se stessi, ciò che fa sentire bene, permette di alimentare l’immaginazione. Non è sufficiente essere perfettamente inseriti in contesti relazionali se poi sono disfunzionali al nostro sé, ne essere inseriti in alcun contesto sociale se è consumistico ed intimidisce la nostra fantasia, né c’è nulla che si debba necessariamente dimostrare. Le ansie i timori, le aspettative, la rabbia, sono tutte emozioni necessarie, bisogna solo trovare le immagini ed il linguaggio giusto per esprimerle.

A questo proposito, riporto qui parte delle personali interpretazioni di J Hillman, a proposito di un documentario televisivo trasmesso in dodici puntate all’inizio degli anni Settanta intitolato “An American Family”:

 

“Un clima meno salutare per il nostro daimon che cerca di vivere con i nostri genitori, nel luogo e nella situazione che loro ci hanno dato, si crea quando i nostri genitori non hanno alcuna fantasia su di noi. Un simile ambiente oggettivo, neutro, una simile vita normalizzata, razionale, è un vuoto in cui non spira alcun vento. I cosiddetti bravi genitori si astengono dal fare fantasie sui figli: ciascuno deve vivere la propria vita e decidere autonomamente. I “bravi genitori” non intromettono i propri preconcetti, i propri valori e giudizi: il giovane individuo ha bisogno soltanto di essere guardato con approvazione incondizionata. “Sono certo che riuscirai bene, qualsiasi cosa deciderai di fare”, “Ricordati che sarò sempre dalla tua parte, di qualunque cosa si tratti” la fantasia che governa queste idiozie parentali è il distanziamento, eufemisticamente detto indipendenza: tu, nella tua cameretta, con il tuo televisore e il tuo telefono personale. L’indipendenza come distanziamento trova la sua espressione giornaliera (meglio, serale) nell’interurbana, la grande droga degli americani, con la fatidica frase: “Ti voglio bene “pronunciata al telefono. Mai un po’ di indignazione, di ansia, mai qualche fantasia; l’amore come anestetico. Questa frase, “Ti voglio bene”, che rimbalza a pappagallo da genitore a figlio e ritorno, può nascondere molti significati, ma di sicuro non significa amare, perché quando si ama si è pieni di fantasia, di idee e di ansie. Esemplare di questo vuoto è il documentario televisivo […] An American Family, la cronaca vera della “vita” quotidiana dei Loud, una famiglia di Santa Barbara, in California, formata da papà, mamma e cinque figli. Giorno dopo giorno assistiamo al graduale crollo di tutto, matrimonio, famiglia, personalità individuali, e la ragione è sotto i nostri occhi: quella famiglia non ha nessuna fantasia vivente.

La grande differenza tra questi californiani e le persone ritratte da  Čechov o nei romanzi sulla disgregazione delle famiglie borghesi, nei Buddenbrook, per esempio, sta in una vita familiare arricchita da adesioni ideologiche di classe, interessi culturali, conversazioni che esaltano l’immaginazione, desideri folli, rimpianti e, soprattutto, disperazione. La letteratura conferisce alla disperazione il complesso sapore dell’ironia e la bellezza della tragedia. Quei personaggi fittizi non soltanto vivono intensamente la famiglia; vivono intensamente la fantasia. Quelle famiglie fittizie sono più vive della finzione familiare vissuta dai Loud, in cui non c’è spazio per l’immaginazione.

“Se esiste quella che si potrebbe chiamare una cultura negativa, una cultura con il segno meno, i Loud ce l’hanno. Il rock a tutto volume è il punto più alto della creatività familiare…non c’è alcuna religiosità, non c’è alcuno Yahwè a minacciare castighi né alcuna Maria a offrire perdono, non c’è alcun senso biblico dell’aldilà, né alcun catechismo, né i miti di Zeus e di Era; non c’è sensibilità offesa da vendicare, né un vero senso del bene e del male, non c’è sentore di un giudizio morale incombente sulla famiglia”.

Marito e moglie “siedono in soggiorno senza, così pare, una paura al mondo: non ci sono demòni a mandargli brutti sogni né bestie feroci alla porta. Un incendio arriva a pochi metri dalla loro casa …e loro ne accennano incidentalmente: se brucia la casa, c’è l’assicurazione; non c’è niente che abbia il potere di sconvolgerli”. Non fanno parte di alcun gruppo o associazione e non hanno hobby… “nessuna passione, come il cinema, la pittura, la lettura, il cucito. Se sono a casa, se ne stanno sdraiati attorno alla piscina”.

[…]” Mi sembra che siamo una famiglia molto ben inserita” dice la signora Loud dopo il crollo e il divorzio. E ha perfettamente ragione: i Loud si inseriscono benissimo nel sogno americano, con la loro piscina azzurra nel giardino dietro casa e la loro iperattiva passività. La negazione come fantasia; l’innocenza come ideale; la felicità come meta […].

In passato, gli attriti familiari riguardavano importanti conflitti tra le rispettive fantasie dei vari protagonisti e delle diverse generazioni, come il conflitto tra il seguire le orme professionali del padre o il proseguire gli studi, tra il restare legati alla terra e l’inurbarsi  perché in ultima analisi, non è dall’autoritarismo o dalla confusione dei genitori che i figli fuggono, i figli fuggono dal vuoto insopportabile del vivere in una famiglia senza altre fantasie che il fare compere, lavare la macchina e scambiarsi convenevoli. Il grande valore delle fantasie dei genitori, per i figli, è di obbligarli a opporsi, a riconoscere che il proprio cuore è eccentrico, diverso, insofferente dell’ombra che su di esso getta l’occhio dei familiari. Molto meglio quei genitori che vogliono a tutti i costi un figlio maschio e poi chiamano la bambina Giuseppe o Andrea e la vestono da maschietto, che i genitori che non hanno alcun desiderio circa il nascituro, se non altro, la sua ghianda avrà una sfida da superare, una realtà contro cui combattere, la realtà delle fantasie dei genitori, che può portare a smascherare la superstizione parentale stessa, a veder che io non sono condizionato dai miei genitori, non sono il loro risaltato.”[6]

 

 

Kopp pare essere d’accordo con Hillman su questo punto:

 

“La vita è molto noiosa per coloro che sono troppo timidi, troppo privi di immaginazione, troppo normali per apportarvi un senso di stile personale, di scopo individuale, di colore, di brio, di godimento, di eccitazione. La ricerca del Don Chisciotte, il pellegrinaggio personale della sua vita folle, era vivere ‘nel mondo come viene attraversato dall’uomo così come dovrebbe essere’. Se questo è il vino della follia, allora dico: ‘Riempitemi il bicchiere’.

Gli altri membri della famiglia e della comunità di Don Chisciotte rimasero estremamente sconvolti nell’apprendere che lui aveva scelto di credere in se stesso. Disprezzarono il suo desiderio di seguire il proprio sogno. Non associarono la nascita della follia del cavaliere alla monotonia mortale della sua vita in mezzo alla loro bigotteria. La nipote pudica, la governante saccente, il suo noioso barbiere e il pomposo prete del villaggio, tutti sapevano che erano stati i suoi libri ‘pericolosi’ a riempire la mente frastornata di Don Chisciotte con idee sciocche a renderlo folle.

Questo ambiente mi ricorda le famiglie da cui talvolta emergono i giovani schizofrenici. Tali famiglie danno spesso un’idea di stabilità ipernormale e di bontà moralistica. In realtà hanno sviluppato un sistema segnaletico intricatamente sottile per mettere in guardia qualsiasi membro che stia per fare qualcosa di spontaneo, qualcosa che rovescerebbe il precario equilibrio familiare mettendo a nudo l’ipocrisia della loro pseudostabilità sovracontrollata.”[7]

Articolo di Emanuela Mangione

[1] S. B. Kopp, Se incontri il Buddha per strada uccidilo. Il pellegrinaggio del paziente nella psicoterapia, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1975, p. 26. Nel virgolettato la citazione fatta dallo stesso Kopp tratta da Lionel Trilling, “Authenticity and Modern Unconscious”, Commentary 52, n. 3 (settembre 1971): 41.

[2] S. B. Kopp, Guru:Metaphors from a Psychotherapist, Science and Behavior Books, Inc., Palo Alto, Calif., 1971, p.153.

[3] M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1968.

[4] J. Hillman, “Il codice dell’anima”

[5] K. Jaspers, Filosofia, vol. 1., Ugo Mursia Editore, Milano,  !977.

[6] Ibidem, pp. 210-214; Hillman nel virgolettato riporta parti dell’introduzione di Anne Roiphe al testo del documentario in The World Almanac and Book of Facts, Pharos Books, New York, 1991.

[7] S. B. Kopp, Se incontri il Buddha per strada uccidilo. Il pellegrinaggio del paziente nella psicoterapia, p. 86. Il virgolettato in Kopp è riferito a J. W. Krucht, Five Masters: A Study in the Mutations of the Novel, Indiana Univ. Press, A Midland Book, Bloomington, Ind., 1959, p. 81;

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