Leadership e responsabilità
di Raffaele Napolitano
La leadership è la combinazione di comportamenti individuali nell’esercitare particolari ruoli e funzioni atti alla pianificazione, ai processi di decision-making, all’implementazione e al controllo all’interno di un’organizzazione. Leadership significa esercitare un’influenza deliberata sull’ambiente circostante, in particolare sui collaboratori, al fine di raggiungere un obiettivo specifico. Tuttavia, la leadership non esiste in modo isolato, è influenzata da fattori intrinseci quali la cultura aziendale prevalente e la strategia aziendale, o esterni quali gli standard sociali. Le attitudini fondamentali e personali di un leader influenzano il suo stile di leadership.
La classificazione più nota è quella elaborata da KURT Lewin che distingue:
1. Lo stile autoritario è caratteristico di coloro che confidano sulla propria funzione gerarchica e che richiedono rigida subordinazione; questi leader si ritengono i soli intitolati a prendere decisioni e si rivolgono ai collaboratori con istruzioni e ordini. La conseguenza di questo stile è la mancanza di fiducia reciproca, l’instaurarsi di tensioni e conflitti. I gruppi guidati da leader autoritari mostrano di solito un’elevata produttività, che tende però a crollare in assenza del leader; inoltre presentano un clima emotivo solitamente sgradevole. Si può far rientrare in questa categoria anche lo stile persuasivo, definito successivamente da altri autori, nel quale il leader tende a spiegare le motivazioni delle decisioni prese, per farle accettare meglio ai collaboratori.
2. Lo stile cooperativo riguarda quei leader che coinvolgono i collaboratori nei processi decisionali, consentono agli altri di fare proposte per poi scegliere l’opzione più adeguata, riconoscono le capacità dei collaboratori usandone le competenze e i punti
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di forza in modo adeguato, e condividono gli obiettivi e le modalità di conseguimento con i collaboratori. Il leader cooperativo interviene in caso di deviazioni dagli obiettivi o quando percepisce che questi non possano essere raggiunti e cerca il contatto diretto e personale con i collaboratori. In seno al gruppo prevale un clima di mutuo rispetto e l’atmosfera è rilassata e informale.
3. Lo stile democratico è tipico dei leader che trattano i collaboratori come propri pari, malgrado differenze di funzione, competenze, età. Costoro si focalizzano sul potenziale del collaboratore massimizzandone la produttività. I processi decisionali sono collegiali, sia il leader che i collaboratori prendono le proprie decisioni condividendo un senso comune di responsabilità. Questa responsabilizzazione induce il collaboratore a lavorare con impegno anche quando il leader è assente. I gruppi guidati da leader democratici mostrano di solito una bassa produttività iniziale che tende però a crescere; inoltre il gruppo lavora anche in assenza del leader e il clima emozionale tende ad essere piacevole;
4. Lo stile “laissez-faire” è quello del leader che ha scarso interesse alle necessità dei collaboratori o al raggiungimento di obiettivi; si mostra ai collaboratori soltanto in caso di assoluta necessità, delega i controlli ad altri collaboratori o ad altri leader. In questo modo la cooperazione risulta difficoltosa e inefficiente, il leader perde parte del suo ruolo e si formano sottogruppi con leader informali. I gruppi guidati da un leader laissez-faire tendono a presentare un clima emozionale molto piacevole ma anche scarsa produttività.
Gli stili di leadership53 che possono essere messi in opera variano da leader a leader e da situazione a situazione. Il suddetto stile di guida può avere come estremi l’essere “incentrato sul leader” o l’essere “incentrato sul gruppo”; ciò dipende dalla misura in cui il leader condivide o meno con i propri collaboratori il controllo del gruppo stesso. Alcuni affermano che ci sia un momento opportuno per ognuno di questi cinque stili. L’orientamento verso uno stile “incentrato sul leader” tuttavia, sarebbe normalmente appropriato solo quando il gruppo manca della maturità e della comprensione necessaria per prendere buone decisioni, o forse anche in una situazione di crisi aziendale o
53 SPALTRO E., “Culture di coppia, di gruppo, di collettivo”, in Psciologia Sociale, Boringhieri, Torino.
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decisionale. I cinque stili di leadership più comunemente attuati nei vari contesti operativi possono essere riassunti nelle seguenti macro categorie:
1. Prescrivere: il leader identifica i problemi, considera le possibili soluzioni, sceglie la più appropriata e indica ai suoi seguaci come comportarsi nel suo perseguimento. Il leader può prendere in considerazione le opinioni dei membri, ma essi non partecipano direttamente nelle decisioni, e pertanto accentra su di sé sia le procedure di “problem solving” che di “decision making”;
2. Convincere: il leader prende delle decisioni in autonomia e tenta di persuadere i membri del gruppo ad accettarle ed a supportarle. Un leader che usi questo stile può, nel processo comunicativo, evidenziare di aver considerato sia gli obiettivi dell’organizzazione che gli interessi dei membri del gruppo, indicando come in qualunque caso il gruppo stesso trarrà beneficio dalla decisione presa;
3. Consultare: i membri del gruppo hanno l’opportunità di influenzare il processo decisionale sin dal suo inizio. Il leader che usa questo stile in prima istanza presenta dettagliatamente la problematica e fornisce tutte le informazioni necessarie per avere un corretto feedback dai collaboratori. Egli poi invita il gruppo a suggerire possibili piani d’azione e una volta concluso questo processo di “brain storming” individua le soluzioni più interessanti e ad alto potenziale di “rewarding”;
4. Partecipare: il leader decide di partecipare alla discussione sulla problematica oggetto di analisi come se fosse un comune membro del gruppo, concordando in anticipo di condividere e perorare qualsiasi decisione venga successivamente presa e concordata;
5. Delegare: il leader definisce i confini all’interno dei quali risolvere i problemi o portare a termine la missione prefissata. A quel punto lascia che sia il gruppo in completa autonomia a trovare le soluzioni e portare avanti il lavoro così come deliberato.
E’ tuttavia necessario ricordare come nessuno di questi cinque stili sia giusto o sbagliato in sé, e che pertanto ognuno deve essere valutato criticamente.
In campo militare, ad esempio, l’imposizione ai soldati della decisione sul da farsi senza il minimo margine di discussione si rivela la soluzione ottimale. Questo di solito accade quando è evidente il bisogno urgente di prendere decisioni. Tuttavia, in
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circostanze normali, il leader che lavora con un gruppo deve saper discernere quando ogni stile di leadership sia più appropriato, e maturare la capacità di usare, quando è necessario, nuovi registri comportamentali.
Una volta definita e inquadrato compiutamente il concetto di leadership, è opportuno analizzare una serie di compiti che competono alla leadership, e che come si potrà subito intuire mal si conciliano con la gestione ordinaria dell’azienda.
In un circolo virtuoso, quanto più un imprenditore si libera di impegni operativi affidandoli a collaboratori responsabilizzati, tanto più potrà occuparsi del futuro della sua azienda. Un leader capace dovrà individuare le capacità distintive più consone alle necessità della propria impresa e più adeguate alla creazione del valore.
Compito del leader è possedere la vision più opportuna, che gli consenta di tracciare la rotta dell’impresa e di dare un senso alle azioni di ciascun collaboratore. La vision deve essere ovviamente associata ad ipotesi concrete e dimostrabili, nonché alla capacità di essere comunicata in modo trasparente e intuitivo. In questo modo i collaboratori accetteranno e condivideranno i valori che la vision richiede, potranno identificare ed apprezzare il proprio ruolo in azienda, migliorare le proprie competenze, e saranno invogliati ad assumersi responsabilità partecipando alla creazione dell’intelligenza emotiva aziendale.
Giova sottolineare che la realizzazione di visions particolarmente ambiziose (Kotter, 1999) infonde energia nei collaboratori, non solo perché li spinge nella direzione giusta, ma anche perché soddisfa alcuni bisogni primari dell’uomo: appagamento, appartenenza, riconoscimento, autostima.
In sintesi la vision rappresenta l’immagine aziendale desiderata nel lungo termine, e viene, normalmente, esplicitata dalla leadership attraverso frasi chiare e concise che ne definiscono l’essenza nei confronti di tutti gli stakeholder.
La mission è la ragion d’essere di un’azienda e deve essere pensata dal vertice imprenditoriale in modo tale che ciascun individuo, pur con diversi gradi di approfondimento, sia in grado di dare risposte precise relativamente ai suoi valori, ai suoi clienti, ai suoi prodotti ed alle sue priorità strategiche. La leadership deve garantire che la mission aziendale assicuri i seguenti requisiti:
1. Sia enunciata in modo chiaro e visibile;
2. Contenga le regole fondamentali della vita aziendale;
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3. Sia rispettata da tutti;
4. Tenga conto della soddisfazione dei collaboratori;
5. La mission assolve, quindi, tre funzioni;
6. La funzione di orientamento. Ogni stakeholder deve disporre di informazioni chiare per il conseguimento degli obiettivi comuni; la navigazione deve procedere su una rotta tracciata e nota a tutti;
7. La funzione di legittimazione. La prima legittimazione viene normalmente dall’imprenditore, ma, nell’impresa è ancora più importante la legittimazione proveniente dagli stakeholder, per ciascuno dei quali la mission deve prevedere un codice di comportamento, gli obiettivi e un sistema di valori;
8. La funzione di motivazione. Fissando per ciascun collaboratore, in modo chiaro e semplice, obiettivi raggiungibili, si stimola il collaboratore ad offrire il massimo impegno nel raggiungimento del compito affidatogli, ma ancor più a sviluppare un’autoanalisi volta a riconoscere il proprio potenziale di crescita professionale. Il collaboratore, in base alle sue potenzialità, dovrà essere in grado di dare una risposta alla seguente domanda: «Che tipo di contributo posso offrire all’impresa per il soddisfacimento degli stakeholder, innanzitutto i clienti?».
La mission ha valore se non si ferma al presente ma si proietta nel futuro, pertanto essa deve essere flessibile e ripensata almeno ogni anno.
La leadership dovrà operare col fine ultimo che la propria impresa raggiunga l’eccellenza grazie a competenze distintive che le consentano di essere diversa dalle altre.
Esistono una miriade di Pmi che godono di questa realtà, ma, a titolo esemplificativo, non si può non far riferimento alle competenze distintive di alcuni grandi brands: McDonald’s per la forza del marketing orientato ai giovani, Swatch per il design ed il marketing, l’industria delle macchine fotografiche giapponesi per la meccanica di precisione e per la microelettronica, Sony per la miniaturizzazione, Benetton per la pubblicità, Microsoft per il software, Volvo per la robustezza delle auto, Ikea per l’arredamento economico.
Come è già stato ampiamente descritto in letteratura, uno degli elementi del vantaggio competitivo dell’impresa è rappresentato dalla differenziazione; questa
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caratteristica può essere acquisita grazie al costante sviluppo delle competenze dell’azienda. Le competenze distintive si manifestano in genere come asset immateriali, e si sviluppano attraverso lo studio, l’addestramento, l’aggiornamento; aiutano a migliorare l’autostima dei lavoratori e lo spirito di squadra. Al fine di potenziare e di sfruttare le competenze distintive dell’impresa, la leadership dovrà avere ben chiari alcuni concetti: qual è il principale know how aziendale? Qual è il suo maggiore potenziale conoscitivo? Quale prodotto mette in evidenza il suo potenziale distintivo? Quale segmento di mercato può meglio apprezzare tali competenze, e quali altre opportunità di business possono nascere dal know how posseduto?
La leadership dovrà inoltre ed infine preoccuparsi di sviluppare in azienda le competenze emotive che consentano sia di trasmettere ai collaboratori il cuore, l’entusiasmo, il senso di appartenenza e lo spirito di sacrificio, sia di evitare la caduta nella routine, nella de-responsabilizzazione, nella burocratizzazione e nel disimpegno emotivo.
È interessante in tal proposito leggere cosa afferma il sociologo Alberoni54 riguardo all’entusiasmo: “la parola entusiasmo deriva dal greco essere in Dio. L’entusiasmo è quindi energia straordinaria, slancio, fede. È una forza che ci spinge verso ciò che è elevato, che ha valore, è una spinta verso il futuro, una fede nella propria meta, nelle proprie possibilità. L’entusiasmo è un esplosione di speranza. Curiosamente sono pochi quelli che sanno accettare l’entusiasmo in se stessi e coltivarlo negli altri. Molti si vergognano dei loro sentimenti, del loro slancio vitale, pensano che possa indebolire la loro razionalità e la loro capacità di auto controllo. Ma non è affatto vero. L’entusiasmo è una forza vitale che può essere sprecata nell’inseguire sogni ad occhi aperti, ma che può essere incanalata in un compito costruttivo, in una ricerca razionale. L’entusiasmo è fondamentale per convincere gli altri; se non siete sicuri di voi stessi, se non siete convinti del progetto che andate a proporre, come potete pensare di suscitare nell’altro interesse perché possa ascoltarvi? L’entusiasta ha un nemico subdolo: il cinico, il quale è appiattito sul presente, sul proprio egoismo, sulla propria pigrizia, sul proprio utile e non crede perché privo di fantasia e generosità. Nelle imprese ci sono molte persone di questo tipo, che fanno di tutto per spegnere l’entusiasmo di altri, soprattutto dei giovani che arrivano in azienda pieni di fede e di valori”. Alla base dei compiti di una leadership
54 ALBERONI F., (1968), “Status nascenti”, Il Mulino, Bologna
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eccellente sta la creazione e la formazione di un team di collaboratori da responsabilizzare e con i quali creare un clima di affiatamento e trasparenza. La cosiddetta “sindrome del cavaliere solitario”, dell’imprenditore “faccio tutto io” deve tendere a scomparire, salvo rischiare la scomparsa delle aziende, specie per i problemi generazionali connessi con la successione. Creare un clima di collaborazione vuol dire trasmettere fiducia e sicurezza, la fiducia di avere una leadership che sa dove sta andando, la sicurezza di poter disporre del vantaggio competitivo di una leadership che sa guardare nel futuro meglio dei concorrenti e che saprà dare sempre maggior valore all’impresa.
La leadership dovrà, inoltre, “preoccuparsi” dei clienti, approfondirne la conoscenza, studiarne i bisogni manifesti e latenti, coinvolgerli nello sviluppo, informarli sugli orientamenti strategici, cercare di stabilire con loro un rapporto analogo a quello che avrebbe con i suoi collaboratori. Infatti, nell’ottica del prosumer il cliente è per definizione un collaboratore e, nella “casa degli stakeholder”, il cliente è uno dei pilastri. Assicurata la necessaria attenzione allo zoccolo duro dei clienti fidelizzati, che creano una gran parte del valore per l’impresa, la leadership dovrà, costantemente, attivarsi per incrementare il numero dei clienti e, possibilmente, diversificarne la tipologia. Non sono rari i casi di aziende che si avviano verso un declino irreversibile, trascinatevi dalla crisi dei propri key-client.
Un altro importante compito della leadership è analizzare la propria fornitura sulla base della capacità di creare valore. La scelta dei prodotti chiave, il loro rafforzamento e completamento e le relative strategie, di tipo offensivo, difensivo o di disinvestimento, sono fra le decisioni più importanti che competono alla leadership. La strategia necessaria per sostenere una fornitura dipende però anche dal tipo di fornitura.
L’imprenditore dovrà verificare che tutti i collaboratori abbiano ben chiaro qual è il core business dell’impresa e quali sono gli strumenti perché quel business crei valore.
Nell’analizzare la propria fornitura un aspetto di estrema importanza è quello della valutazione del costo di produzione di ciascun prodotto. Una volta acquisita la conoscenza della redditività di ciascun prodotto sta all’imprenditore stabilire, per ciascuno di essi, una strategia di mantenimento oppure di abbandono. Un altro dei compiti della leadership è l’individuazione degli stakeholder. L’imprenditore, una volta
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creata la rete dei soggetti che possono contribuire, in modo più o meno rilevante, alla crescita del valore dell’impresa, dovrà anche preoccuparsi del suo monitoraggio.
Monitorando costantemente il sistema degli stakeholder, l’imprenditore sarà in grado di comprendere quali ostacoli o problemi i singoli soggetti stanno incontrando, o dovranno incontrare, e potrà pertanto introdurre una modalità pro-attiva di gestione. In particolare, la leadership dovrà cercare di individuare:
1. I principali problemi operativi dell’area presidiata da ciascun soggetto della rete;
2. Le cause di questi problemi;
3. Le principali urgenze da affrontare;
4. Gli interventi organizzativi necessari per superare gli ostacoli incombenti ed evitare quelli in fieri.
La comunicazione all’interno dell’azienda è uno degli strumenti fondamentali per il successo dell’impresa.
La fluidità della comunicazione interaziendale trova, spesso, ostacoli nelle differenti esperienze del personale, nei diversi gradi di cultura, preparazione, addestramento e mentalità, nelle diverse abitudini, nella sottostima dell’importanza della funzione, nella volontà di non diffondere le informazioni, nella gelosia. Per ottimizzare il processo della comunicazione, la leadership dovrà impegnare molte energie al fine di sensibilizzare le persone a leggere e ad ascoltare, di creare un clima per la libera circolazione delle informazioni e delle idee, di creare gli strumenti per la circolazione delle informazioni, di far sì che la politica aziendale sia recepita da tutti in modo chiaro. Quando si è parlato d’impresa eccellente è stato più volte sottolineato il valore della responsabilizzazione dei dipendenti in modo che essi, superato il ruolo della semplice dipendenza, si sentano portati a giocare quello della partnership (Moglia, 1998); per arrivare a questa conquista l’impresa deve comportarsi in modo trasparente e la comunicazione deve essere chiara e tempestiva.
Ogni dipendente deve essere messo nelle condizioni di valutare come sta andando lui stesso, il suo reparto, l’impresa; se non ha una chiara visione di che cosa ci si attende da lui, di come può contribuire al raggiungimento dei traguardi aziendali e se quanto fa non gli viene riconosciuto e non gli porta vantaggi concreti non potrà mai diventare un partner dell’impresa.
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Nel progettare il proprio processo di comunicazione l’impresa non può ignorare gli aspetti psicologici ed emotivi delle relazioni che caratterizzano l’organizzazione aziendale nel suo insieme. L’impresa è costituita da relazioni e da persone e pertanto è pervasa di ambiguità, vulnerabilità, conflittualità, ma gli studi più avanzati hanno evidenziato che è possibile far scaturire energia positiva da valenze negative. È necessaria una leadership in grado di favorire approcci comunicativi “caldi” orientati a sollecitare dialogo, ascolto e fiducia. Solo attraverso il coinvolgimento del “cuore” (Whyte,1997), oltre che della mente delle persone, è possibile ottenere la condivisione del dettato strategico dell’impresa e quindi “produrre” l’energia necessaria all’impresa per superare ogni tipo di difficoltà.
Se la leadership è stata capace di costruire un’adeguata rete relazionale, l’azienda disporrà di quella che Derek Abell (Fiocca, 1994) chiama la «finestra strategica», e cioè il sensore in grado di prevedere i cambiamenti che possono avvenire nell’ambiente circostante, e sarà preparata alla difesa del proprio vantaggio competitivo.
Un altro compito fondamentale che spetta alla leadership è la pianificazione, ossia l’individuazione di tutti i possibili obiettivi aziendali e la scelta delle priorità.
La pianificazione aziendale deve partire da una bozza di piano poliennale, per il quale potrebbero essere utili i seguenti criteri:
1. Definizione di obiettivi, azioni, mezzi e strumenti di monitoraggio attraverso l’interlocuzione con i collaboratori;
2. Raggruppamento di obiettivi e di azioni per affinità;
3. Strutturazione gerarchica degli obiettivi; quelli di livello superiore devono includere quelli di livello inferiore;
4. Posizionamento degli obiettivi e delle azioni sulla scala temporale, attraverso relazioni di causalità;
5. Feedback su previsioni, informazioni e dati raccolti;
6. Individuazione degli strumenti necessari per la realizzazione del piano.
Nell’elaborazione del piano si dovrà evitare che questo sia il prolungamento storico del passato: è cioè auspicabile che non si basi sui trend. Il piano dovrà avere un impatto tale sull’impresa, da determinare un miglioramento sensibile rispetto ai risultati tendenziali prevedibili.
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Occorre, inoltre, sottolineare che l’immagine aziendale è come l’impresa, vuole essere vista e percepita da terzi. Ciò comporta, da parte della leadership, di essere in grado di dare risposte precise alle seguenti due domande: come ci vede oggi il mondo esterno, cosa dobbiamo fare perché il mondo esterno ci veda come vorremmo ci vedesse.
Le componenti che influenzano l’immagine aziendale sono sostanzialmente quattro:
1. Il comportamento dei collaboratori. Le attività di ogni dipendente, siano esse di vendita, di ricerca, di produzione, di segreteria, oppure di assistenza, influiscono tutte sull’immagine dell’impresa, in relazione alla capacità di ognuno di interfacciarsi con l’esterno;
2. L’empatia dei venditori, l’efficienza della centralinista, la gentilezza con cui si viene ricevuti, la cura nel confezionamento, le modalità nello svolgimento del recupero crediti, sono tanti piccoli tasselli che concorrono alla formazione dell’immagine di un’impresa;
3. Il design. Esso è rappresentato dal logo dell’impresa, dai cataloghi, dalle brochure, dal sito web, dallo stile di progettazione del prodotto, dalla sede dell’azienda e dall’ambiente di lavoro;
4. La comunicazione. La comunicazione aziendale è lo strumento con il quale si trasmette all’esterno l’immagine dell’impresa ed è essa stessa l’immagine dell’impresa. Non per nulla, il guru della comunicazione aziendale, Marshall McLuhan, sostiene che il mezzo è il messaggio.
L’immagine aziendale deve essere chiara ai clienti, ma anche a tutto il sistema degli stakeholder. Essa deve, in primo luogo, mettere in evidenza che le competenze distintive dell’impresa sono fondamentali per la soddisfazione del segmento di clientela obiettivo e che essa si basa su prove che hanno suscitato testimonianze da parte dei clienti.
Un’accorta gestione dell’immagine viene confermata dalla fierezza dell’appartenenza che mostrerà il personale e dal compiacimento dei clienti di essere serviti da quell’impresa.
È opportuno curare l’armonia fra la sfera interiore e il mondo esterno. Questa responsabilità, che compete al leader, potrebbe sembrare un elemento esterno ai
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problemi della gestione aziendali e al rapporto con i collaboratori, ma in realtà non lo è. Se il leader riesce a trovare condizioni di vita che si adattino alla sua personalità e alle sue aspirazioni, riuscirà a vivere in armonia con se stesso, e quindi anche con il mondo esterno, e sarà in grado di gestire la propria impresa in modo ottimale.
Contestualmente la leadership dovrà preoccuparsi che i propri collaboratori godano anch’essi di una buona armonia fra il mondo interiore e quello esterno. Questo obiettivo è conseguibile facendo sì che i collaboratori trovino una convergenza fra i propri valori personali e quelli dell’impresa.
La leadership dovrà quindi costruire una cultura d’impresa progettata su valori; se si vuole ottenere quella convergenza il percorso è lungo e difficile, ma al termine di quel percorso l’impresa avrà acquistato “un’anima” e conseguito un comune sentire tra tutti i membri dell’organizzazione. Nella formulazione della vision e della mission aziendale l’impresa eccellente dovrà quindi lavorare sulla base di valori condivisibili non solo da tutti i collaboratori, ma anche da tutti gli stakeholder; il processo dovrà quindi essere condotto seguendo il circolo virtuoso top-down/botton-up/top-down.
Le più recenti indagini sugli “imprenditori di successo” mettono in luce che il compito fondamentale del leader è quello di innescare sentimenti positivi nei propri collaboratori (Goleman, 2002). Ciò accade quando sanno creare una riserva di positività che consente di liberare quanto c’è di meglio in ogni individuo; nella sua essenza, quindi, il compito fondamentale della leadership è di tipo emozionale.
Sebbene questa dimensione della leadership sia spesso invisibile o ignorata, il successo dell’imprenditore, della sua impresa e la soddisfazione dei collaboratori dipende proprio da essa. Pertanto, l’intelligenza emotiva, ossia la capacità di essere intelligenti nella sfera delle emozioni, ha un’enorme importanza; compito fondamentale del leader è quello di esercitare la propria intelligenza emotiva.
Da alcuni anni i più noti psicologi del lavoro hanno dimostrato che l’intelligenza emotiva, nel contesto lavorativo, è essenziale ai fini del successo in qualsiasi organizzazione. L’importanza dell’intelligenza emotiva viene peraltro ricondotta al principio ancestrale dell’organizzazione degli esseri primitivi aggregati in bande, accomunati da vincoli di protezione reciproca, la cui sopravvivenza dipendeva dalla comprensione e dalla stretta collaborazione.
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Per molto tempo imprenditori e manager hanno considerato le emozioni alla stregua di un rumore di fondo che disturbava il normale esercizio dell’impresa, ma l’epoca in cui le emozioni erano ignorate, perché considerate irrilevanti ai fini aziendali, è ormai tramontata. Oggi, in qualunque settore operino, le aziende hanno bisogno di raccogliere i vantaggi offerti da leader in grado di generare nell’impresa quella “risonanza emozionale” che consenta a ciascuno di realizzare le proprie aspirazioni e di rendere concrete le proprie potenzialità. È importante notare che, se può essere semplice realizzare una soddisfazione emozionale individuale e privata, il compito è più complesso quando un leader voglia creare una risonanza emozionale nel gruppo dei propri collaboratori.
Giova innanzitutto constatare che la presa di coscienza delle proprie singole realtà emozionali rappresenta, per l’intera organizzazione dell’impresa, l’inizio di un’utile analisi delle abitudini comuni su cui quelle realtà emozionali si fondano e dalle quali sono alimentate. È proprio questo, infatti, il punto di partenza del leader che voglia diffondere l’intelligenza emotiva nella sua organizzazione.
Un gruppo di persone può infatti intraprendere il cambiamento solo quando avrà compreso appieno la realtà dei propri meccanismi interni e, soprattutto, quando i singoli membri dell’impresa saranno consapevoli delle situazioni dissonanti o di disagio in cui stanno eventualmente operando.
La comprensione di tali realtà, a livello emozionale, è di fondamentale importanza; tuttavia, la consapevolezza dell’esistenza di dissonanze e disagi non è sufficiente per realizzare un cambiamento. È infatti necessario che i membri del gruppo risalgano alla causa del malcontento, una realtà emozionale che di solito non ha origine in un dissidio con il leader ma, molto spesso, nelle regole di base e nelle abitudini consolidate e assimilate dal gruppo. Partendo dalla comprensione della realtà emozionale, delle regole e delle abitudini che esistono nell’organizzazione, sarà possibile elaborare una “visione ideale collettiva” che, per coinvolgere effettivamente tutti, dovrà essere in sintonia con quella personale di ciascuno.
Una volta che sia stata compresa la realtà aziendale e individuata una visione ideale collettiva, si potrà poi valutare qual è il divario esistente fra le due e pianificare una strategia per portarle a combaciare. Sintonizzando realtà e ideale si crea il contesto per
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trasformare un gruppo dissonante in un gruppo dotato di intelligenza emotiva più efficace.
Quando il leader identifica le realtà emozionali e le abitudini di un’azienda può avviare un diffuso processo di trasformazione orientato all’intelligenza emotiva (Goleman, 2002).
Ricapitolando, il primo passo verso l’azienda “orientata all’intelligenza emotiva” è la messa a nudo delle verità e delle realtà aziendali. Purtroppo, spesso i leader non riescono a far emergere la realtà e rischiano così di essere sopraffatti dalla sindrome della reticenza, di essere tagliati fuori e di risultare in disarmonia. Ciò accade perché hanno scarsi contatti con il personale, vivono in un’atmosfera rarefatta e sono esclusi dalla realtà emozionale della vita quotidiana, oppure perché utilizzano metodi autoritari e gerarchici, costringendo i dipendenti a chiudersi in un rancoroso silenzio, silenzio che può costare molto caro all’impresa. Quando i leader operano con stili prepotenti, autoritari e dissonanti, la cultura aziendale che si produce è, inevitabilmente, tossica. Che effetto fa lavorare in un’organizzazione priva di intelligenza emotiva? Spesso, alla bassa efficienza complessiva si sommano malattie psicosomatiche che abbattono ulteriormente i lavoratori. Le abitudini deleterie dell’azienda danno luogo a una cultura in cui nessuno si chiede più il come e il perché di quello che sta facendo. Tutti tirano a campare, giorno dopo giorno, spinti da atteggiamenti, norme e politiche nocivi.
L’aspetto più negativo della dissonanza all’interno di un’azienda è infatti il suo effetto sui singoli individui: quando la loro passione si affievolisce, questi possono perdere la consapevolezza delle proprie qualità. Invece di riscontrare eccellenza e fiducia, quando ci si imbatte in un’azienda “tossica” si trovano spavalderia, ottuso conformismo, aperto risentimento e celate frustrazioni. I dipendenti sono sul posto di lavoro, ma si sente chiaramente nell’aria che il loro cuore e la loro anima sono rimasti fuori dall’azienda.
Spesso il leader di un’azienda tossica è schiavo della cosiddetta sindrome della rana bollita: “Se si immerge una rana in una pentola di acqua bollente la rana salta fuori istantaneamente, se invece la si mette in una pentola d’acqua fredda la rana, lentamente, finisce bollita”. Il destino di alcuni leader non è molto diverso da quello della rana: si adeguano alla routine quotidiana, lasciano che piccole abitudini si consolidino e, così facendo, decadono lentamente nell’inerzia.
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Queste considerazioni non devono far pensare che un’organizzazione “tossica” non possa cambiare; il problema è che il percorso verso l’impresa orientata all’intelligenza emotiva è più arduo.
Il leader, se è realmente tale e se possiede intelligenza emotiva, prima o poi si accorge che deve costruire un ponte verso i propri dipendenti.
Per avviare il processo di disintossicazione il leader deve iniziare con il “guardarsi dentro” per prendere atto del “sé” reale. È come guardarsi in uno specchio opaco: è difficile capire come si è realmente. Il leader deve evitare sia l’autoinganno, una potente trappola psicologica capace di sviare i tentativi di autovalutazione e di dare un’immagine distorta del sé, sia le menzogne vitali6. Un aiuto nel processo di autovalutazione può venire da colloqui aperti e informali con le persone che ci sono più vicine, sia sul piano del lavoro, che sul piano privato, non crogiolandosi nei rassicuranti feedback positivi, ma facendo molta attenzione a quelli negativi.
Il passo seguente è l’identificazione del sé ideale, ossia del tragitto che si vuole veramente percorrere. Una volta individuato il sé ideale si accende il fuoco della speranza, l’antidoto contro l’inerzia indotta dalla routine e dalle abitudini consolidate.
Successivamente il leader dovrà cercare di cogliere ciò che sente, pensa e percepisce della sua organizzazione, dovrà usare l’intelligenza emotiva per osservare e per interpretare gli impercettibili indizi di ciò che sta realmente accadendo, dovrà diventare un potente sensore, sia per rilevare ciò che l’azienda è, e ciò che potrebbe essere, sia per intercettare la potenziale visione ideale.
Dopo avere fotografato la realtà, dovrà passare alla fase della condivisione della visione ideale di ciascun collaboratore, quella visione che ognuno ha in sé, sia come individuo, sia come membro di un’organizzazione.
Accade, però, che talvolta, per creare risonanza emotiva il leader debba prima sconfiggere l’inerzia e le viscosità intrinseche dell’azienda. Egli dovrà pertanto creare i presupposti, sia per innescare conversazioni, apparentemente avulse dai problemi aziendali, sia per fare domande allo scopo di capire i sentimenti delle persone. Da queste conversazioni iniziali, a poco a poco, scaturiscono tematiche più significative e meno generiche, tematiche che tendono a innescare discussioni mirate sulla realtà dell’organizzazione. Ma, quel che più conta è che quando le persone parlano delle problematiche dell’azienda, della sua realtà emozionale e di come ci si sente a lavorarci
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dentro, tendono, in qualche misura a fare propri i problemi e i sogni dell’imprenditore, e si avvia il processo di transizione dal reale all’ideale. Si tende a creare un linguaggio condiviso che genera, a sua volta, un senso di aggregazione e di risonanza, dal quale nasce lo stimolo necessario per passare dalle parole all’azione.
La continuità del sistema organizzativo è collegata alla competenza ed alla “sicurezza” con le quali viene guidata l’azione. Tali capacità devono essere assicurate e mantenute o incrementate nel corso del tempo. Si richiedono così provvedimenti che individuino soggetti particolarmente motivati ad assumere il ruolo di leader. Ciò significa promuovere un vero e proprio processo di acquisizione della leadership. I requisiti base non sono necessariamente identificati nelle doti innate del leader. Possono essere ritenuti sufficienti una notevole carica motivazionale alla guida, il forte convincimento circa la bontà della missione aziendale, la volontà di apprendere e di sperimentare le proprie capacità.
L’iniziativa di dar vita al processo proviene principalmente dagli stessi soggetti interessati. Le azioni che caratterizzano il percorso in oggetto sono:
1. L’aspirante leader deve sviluppare la propria conoscenza, appropriandosi degli strumenti concettuali che lo mettano in grado di valutare criticamente le esperienze da egli maturate;
2. È poi opportuno che sviluppi le comunicazioni fra sé e gli altri membri del gruppo, cercando di occupare qualche nodo centrale o sviluppando nuove “maglie” della stessa rete;
3. Un passo ulteriore riguarda la disponibilità del soggetto nel proporsi alla soluzione di problemi anche parziali, cioè l’aspirante leader può autocoinvolgersi sfruttando le conoscenze acquisite per proporre interventi. Egli così è in grado di sviluppare le proprie capacità decisionali acquisendo nel gruppo un prestigio legato all’esperienza di iniziative di successo proposte e realizzate;
4. Sarà poi importante appropriarsi degli strumenti e delle metodologie idonee a costruire un numero di soluzioni superiore a quello proposto da altri. La numerosità delle alternative non è legata alla numerosità delle informazioni raccolte, quanto all’abilità di saperle opportunamente impiegare. Ai fini di un coerente percorso decisionale appare controproducente accumulare troppe informazioni;
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5. Il leader deve coinvolgere attivamente tutti i membri del gruppo durante la formulazione delle decisioni. Far emergere la propria decisione da un’aperta discussione nella quale si sollecita il contributo di tutti facilita il buon esito di qualsiasi proposta;
6. A questo punto l’individuo ha maturato una capacità decisionale scissa da una concreta traduzione operativa delle soluzioni proposte. Solo lo sviluppo di doti di attenzione e di tempestività nell’individuazione dei rischi, consente di maturare la necessaria capacità realizzativi. Tali doti risultano legate all’esperienza. L’azione deve essere svolta senza impazienza ma anche senza indugio. Il successo e la reputazione del leader sono legati indissolubilmente ai risultati e questi dipendono anche dal tempo in cui si svolge l’attività pianificata;
7. Infine, un carattere sostanziale del comportamento dell’individuo che intende assumere funzioni di guida del gruppo è la assoluta correttezza ed onestà intellettuale ispiratrici delle proprie azioni.
In ogni circostanza è opportuno che il leader potenziale mostri un elevato rispetto di se stesso, non avventurandosi in operazioni per le quali non avverta una sufficiente competenza propria o dei propri collaboratori. Nel contempo, appare di analoga importanza mantenere il rispetto per gli altri, siano essi individui interni o esterni al sistema. Ciò significa ispirarsi a principi di chiarezza e trasparenza, cercando di non alimentare il clima di ambiguità spesso presente in misura eccessiva nelle organizzazioni. Tacere su fatti e situazioni di rilevante importanza per il gruppo o addirittura riferirli in modo alterato, non può essere mai considerato indice di riservatezza o di assunzione di una responsabilità esclusiva, che non si intende condividere con altri. Al contrario, emergono in tal caso l’insicurezza e la tendenza al raggiro, assai lontane dal carattere di un capo che per essere accettato deve principalmente ispirare fiducia. Egli deve affermare e riconoscersi con i principi di comportamento etico e di conformità ai codici morali in uso nell’ambiente sociale. Questi ultimi sono da considerare sempre più irrinunciabili nell’attuale contesto economico, nonché fattori in grado di assicurare la sopravvivenza dei sistemi organizzati nel medio – lungo andare.
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