lo straordinario potere della parola

Lo straordinario potere curativo della parola: tecniche di psicologia per aumentare la resilienza

Articolo di Alessandra Serio

“Vi ripeto, non potete sperare di unire i puntini guardando avanti; potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i punti che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro. Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete…questo approccio non mi ha mai lasciato a terra, e ha fatto la differenza nella mia vita.”
Queste parole sono tratte dal discorso di Steve Jobs ai neolaureati della Stanford University, il 12 giugno 2005, e consentono una riflessione su due concetti: la narrazione e la resilienza (Elliot, 2011).
L’ “unione dei puntini” consiste nel poter costruire o ricostruire attraverso una storia ciò che siamo. Un approccio resiliente e narrativo consiste nel poter entrare in contatto con le proprie risorse
Secondo Paul Rocoeur va evitato che le trame narrative intrappolino nella ripetitività l’individuo, anziché liberarlo.
Ogni individuo co-costruisce la realtà attraverso narrazioni e racconti, e queste rappresentano il collante della complessità delle varie esperienze: la costruzione e la narrazione delle storie generano processi etero ed auto-riflessivi che agevolano la condivisione e la riflessione sul Sé.
Per collegare i concetti di resilienza e narrazione, è utile ricorrere alla citazione d Short e Casula, secondi cui “La resilienza mette in ordine le perle delle esperienze di gioia e di dolore con un filo di correlazioni di significati che rende plausibili le interpretazioni positive e ristruttura le negative” (Short e Casula, 2004).
I concetti che collegano la resilienza alla narrazione sono quelli di: ordine, spiegazioni, significato, plausibilità, interpretazione, ricostruzione di storie.
Il ”mettere in ordine le perle” rimanda alla dinamica del processo narrativo, tramite cui, la matassa ingarbugliata delle proprie emozioni può essere dipanata, acquisire senso e plausibilità.
Nel momento in cui un individuo riesce a mettere in parole la propria storia, individua anche una nuova direzione di crescita: ciò avviene in quanto la narrazione è un’apertura, una possibilità che genera nuove potenziali storie, e favorisce nuove possibilità.

Uno dei concetti chiave in merito alla narrazione, formulato da Cyrulnik è “la chimera di sé”: l’efficacia della narrazione è dovuta alla possibilità che essa venga socializzata; grazie al processo creativo, l’esperienza traumatica risulta “comprensibile” e “dicibile” non solo da chi l’ha vissuta, ma anche a chi accoglie il racconto dell’esperienza. Il lavoro narrativo perciò accorcia la distanza tra chi ha subito un trauma e tutti gli altri, dissolvendo quel muro, grazie ad un linguaggio finalmente condiviso.
La metafora della chimera, animale mitologico costituito da pezzi di altri animali (corpo da leone, testa di capra, coda di serpente) è volta a descrivere il passaggio dalla realtà traumatica alla narrazione: i racconti prodotti infatti, sono veri nelle loro singole parti, e restituiscono a chi subisce un trauma, una nuova immagine di sé che può essere condivisa co l’esterno (Guizzetti, 2014).
La narrazione di sé permette di collegare e ordinare gli eventi della propria vita, nel tentativo di mettere nero su bianco quanto a livello mentale appare confuso, al fine d fare chiarezza in sé. Poter “sistemare” i propri pensieri su un foglio, o in uno spazio ad essi destinato, consente di inserirli in una cornice di senso, restituendo loro un significato.

Il sociologo italiano Paolo Jedlowski afferma che è proprio grazie alla narrazione che l’esperienza può compiersi pienamente : con ciò si intende che l’esperienza acquisisce completezza nel momento in cui la si può risperimentare, magari condividendola sotto forma di racconto. Ciò vale anche e soprattutto riguardo le esperienze traumatiche.

L’individuo crea da sé i significati delle esperienze vissute, ed ogni racconto ha in sé il tentativo di promuovere una catarsi, una liberazione da parte di chi scrive, come afferma Boris Cyrulnik, nel suo testo “Autobiografia di uno spaventapasseri. Strategie per superare le esperienze traumatiche” , che rappresenta uno spunto di riflessione attorno al concetto di resilienza, fil rouge che collega le storie di chi, come racconta l’autore, in seguito ad un’esperienza traumatica, è riuscito a ritrovare se stesso (Cyrulnik, 2008).
Se il contesto familiare e culturale è supportivo, allora il dolore può acquisire una propria voce e rappresentazione, e può essere narrato attraverso una storia finalmente accessibile a se stessi e agli altri. E grazie alla nuova rappresentazione del dolore, si genera un nuovo sentimento verso se stessi, passando dalla vergogna all’orgoglio (Beccaria, 2012).

Grazie all’intelligenza narrativa, che pone il focus sul “come” rispetto agli eventi, l’individuo, mentre racconta la propria storia, ha la sensazione di poter padroneggiare il tempo, anziché di esserne travolto (Sbattella, 2009).
Ne La condition de l’homme moderne, Dinsen scriveva che qualsiasi dolore può essere sopportato, qualora venga trasformato in racconto, ed in tal senso, molti libri biografici ed autobiografici rappresentano un esempio di resilienza (Castelli e al, 2010).
I racconti consentono agli individui esposti ad esperienze avverse, di rielaborare più facilmente le proprie sofferenze; pertanto, sono stati condotte ricerche i tipo qualitativo sulla resilienza avvalendosi del metodo delle narrazioni, le quali risultano fattori protettivi dello stesso processo resiliente: tale azione infatti, influenza anche le esperienze successive (Ungar, 2003).
Per Cyrulnik il racconto è uno dei “tutori” della resilienza, ed il poter raccontare le proprie ferite vuol dire fare in modo che esse possano comparire nella mente di un’altra persona, ed essere accettati (Cyrulnik, 2000).
Nel caso di un’autobiografia, l’autore si rende protagonista di una sorta di favola, in cui gli avvenimenti tragici acquisiscono un senso, e gli eventi vengono simbolizzati (Cyrulnik, 2003).
La narrazione trova espressione anche nel contesto terapeutico: la narrative therapy, secondo l’approccio di Ungar, si basa sul processo di costruzione di significati, mediante l’interazione con il terapeuta; tale scambio favorisce il costituirsi di un’identità relazionale.

Le narrazioni resilienti sono costituite da tre fasi:
– reflecting (riflessione): grazie a cui è possibile contestualizzare eventi passati e procedere alla decostruzione di vecchi schemi
– challenging (sfida): consiste nella possibilità di costruire nuove narrazioni, sulla scia di vecchie situazioni in cui ci si è rapportati con successo a situazioni difficili
– defining (definizione del sé): consiste nella sperimentazione di una nuova versione di sé (Ungar, 2001).
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La resilienza si costruisce grazie al processo di interiorizzazione che prende il via attraverso le narrazioni, e permette l’inscrizione del trauma nella propria storia personale. Una nuova “definizione” del trauma, ne mitiga l’impatto negativo, in quanto, secondo Denham, l’esperienza tragica non costituisce di per sé un trauma, ma è il modo in cui l’individuo vi attribuisce un determinato significato che la connota in senso traumatico (Denham, 2006).
L’intervista narrativa, è uno degli strumenti di cui ci si avvale, durante le ricerche qualitative, per indagare la resilienza, i processi di costruzione di senso del soggetto, ed è costituita da protocolli non strutturati (Poggio, 2004).
Non vi è un modo assoluto per indagare ed interpretare le narrazioni, ma, il contributo dato da esse consiste nel disvelare i processi tramite cui l’individuo organizza, interpreta e fa fronte alla realtà (Lieblich, 1998).
Pennebaker ha studiato i meccanismi che permettono di trarre beneficio dalla scrittura espressiva: secondo le ricerche, il requisito è che l’esperienza possa essere tradotta in linguaggio, perché ciò permette di riorganizzare il processo di elaborazione cognitiva del trauma.
Secondo Aldous Huxley, l’esperienza e in generale la vita, non è ciò che accade ad un uomo, ma ciò che un uomo decide di fare con ciò che gli accade. La narrazione permette di assemblare i significati degli eventi nel puzzle della vita, rendendola una vita densa di significato.
Gli eventi narrati risultano semplificati, più accessibili, più comprensibili.
Nel caso di un evento traumatico, la narrazione, grazie al riordinamento delle parole in una struttura verbale che sia suggestiva e coinvolgente da un punto di vista emotivo, e ben organizzata da un punto di vista cognitivo, permette di restituire un senso all’esperienza traumatica stessa (Acocella e Rossi, 2017).

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