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Psicologia dell’Adolescenza: cosa succede quando il ragazzo va in crisi

Mediante un’efficace metafora, James Anthony definisce l’adolescente come un emigrante che, lasciato il vecchio paese per muoversi verso nuovi orizzonti esperienziali, si trova a fronteggiare la scomoda sensazione di tradire le proprie radici.[1] Crescere per trasformarsi in adulto significa lasciare dietro di sé ciò che si è stati e diventare per molti aspetti qualcun altro.[2] La necessità di realizzare il proprio processo di individuazione costringe l’adolescente a sacrificare parti di sé alle quali si sente ancora vincolato dando il via a un rapido alternarsi di sprezzante indipendenza e di regressiva dipendenza, e perfino del coesistere, in un dato momento, di questi due estremi: il giovane si trova frequentemente in bilico tra l’onnipotenza del bambino e i compiti dell’adulto.

Il processo di formazione dell’identità diviene il faticoso viaggio iniziatico di chi si appresta a varcare «la linea d’ombra», quale fondamentale momento di passaggio, rompendo gli equilibri consolidati nell’infanzia per entrare in confidenza con aspetti sconosciuti di sé e avviare un processo di graduale maturazione. L’esigenza di diventare in prima persona l’intermediario tra il proprio mondo interno e quello esterno, tra i propri desideri e quelli degli altri, tra il proprio modo di percepirsi e l’ideale a cui si vorrebbe tendere, avrà come risultato l’emergere di una persona adulta.

 

Il vincolo che lega in modo inestricabile psiche e corpo per tutta l’infanzia, in quanto lo psichico prende forma dal corporeo, in adolescenza si indebolisce: le veloci trasformazioni investono in maniera disarmonica le diverse parti del corpo dando luogo a modificazioni qualitative e creando sgomento in una psiche ancora immatura che dovrà assestarsi a un livello relazionale più complesso sul piano fisico. L’adolescente dovrà cercare un senso agli accadimenti biologici e somatici che lo interessano cercando di ricostruire una nuova unità e un nuovo equilibrio psichico.

Il corpo si rivela così il luogo dell’identità e assume diverse valenze divenendo al tempo stesso: sessuato, strumento spaziale di misura del reale, mezzo di espressione simbolica, oggetto di investimenti narcisistici, possibile mezzo di offesa. Anche sul piano psichico, il compito del giovane comporta l’accettazione e il dominio delle pulsioni, il bisogno di sviluppare la capacità di mentalizzazione e di competenze volte all’indipendenza, all’autonomia. Uscito dall’esclusività egoica e con lo sviluppo della percezione del tempo unidirezionale, il conflitto intrapsichico tra il Self presente e futuro può generare tensione e angoscia. Winnicott la definisce crisi depressiva normale, necessaria per superare l’impasse critica della crescita: «…la scoperta ripetuta che le cose della realtà sono diverse da come dovrebbero idealmente essere può essere vista come una causa della frequente comparsa di sentimenti di insoddisfazione e depressione».[3]

La paura di confondere i livelli di realtà può impedire un impegno costruttivo nel processo di autorealizzazione e portare allo sviluppo di un pensiero dicotomico del tutto o niente o all’incapacità di fare valutazioni realistiche sulle conseguenze e gli aspetti di determinate azioni. Il lavoro che aspetta il fragile Io adolescenziale è quello, secondo Erik Erikson, della costruzione della propria identità a cui contrappone quello della confusione dei ruoli, il fallimento psicologico della sua realizzazione. La crescita si traduce nell’accettare la trasformazione del proprio corpo integrando i dati forniti dall’insorgere della pubertà, nel riformulare l’immagine di sé definita in precedenza, nell’arrivare a una costruzione simbolica dell’ambiente sociale, nell’affrontare le spinte centripete della dipendenza e quelle centrifughe dell’indipendenza.

La funzione assolta dall’ambiente in questo stadio è di vitale importanza tanto che molte delle difficoltà degli adolescenti per le quali viene richiesto un intervento terapeutico sono dovute a fallimenti ambientali. Erikson sostiene che «da un canto l’evoluzione segue sempre lo stesso schema di base,» ma che dall’altro «l’attuale situazione sociale colora e influenza fortemente lo sviluppo dell’identità».[4]

La crisi dell’identità diviene pubblica: «Non sono quello che dovrei essere e neanche quello che ho intenzione di essere, però non sono quello che ero prima».[5] Il ragazzo deve cercare di conciliare l’immagine di un Self infantile con l’esplorazione del nuovo Self emergente. Il passaggio attraverso una zona di «bonaccia» (doldrums area)[6] – una fase nella quale i giovani si sentono futili e in cui cercano di dar voce a quelle parti inesplorate in un’estenuante lotta per «consistere» (to feel real)[7] – rappresenta per l’adolescente la condicio sine qua non per instaurare un’identità personale e non adattarsi passivamente a un ruolo prestabilito. La complessità di una simile operazione richiede che l’adolescente sia in grado di integrare dentro di sé sentimenti di autonomia e separazione con quelli di appartenenza.

Il vero processo di individuazione inizia generalmente con una lacerazione della personalità e con la sofferenza che ne consegue: la crisi è parte integrante del processo adolescenziale. Questo processo non può essere affrettato né rallentato, ma può essere spezzato e distrutto, ovvero può cristallizzarsi in un’infermità psichiatrica. Ma il fatto che venga considerata come un’ «età a rischio» non legittima la patologizzazione automatica dei giovani protagonisti di questo stadio, sebbene risulti spesso difficile la diagnosi differenziale tra disagio fisiologico e situazione premorbosa: «Ognuno ha l’adolescenza che gli somiglia essa si inscrive nella sua storia di vita, nel suo passato, nel suo presente e nel suo futuro; si organizza in base alla sua personalità. L’adolescenza è la conquista di un’indipendenza psichica».[8] Il tutto ha termine grazie al compimento di un processo culturale che permette di elaborare gli aspetti tridimensionali dell’identità, di passare da una dimensione dominata dal senso di piacere a una dominata dal senso di realtà.[9] Ogni cultura deve risolvere il problema di definire gli stadi del ciclo vitale: «Le difficoltà che l’individuo deve affrontare sono mediate dai dispositivi che la cultura cui appartiene ha elaborato e reso attivi per adattarlo alla nuova situazione, per spiegare i significati dei nuovi ruoli, dei nuovi comportamenti che deve assumere».[10]

Arnold Van Gennep individua nei riti di passaggio tre fasi fondamentali quali: separazione dalla condizione precedente, marginalità rispetto al corpo sociale, ingresso nel nuovo status. Sulla base degli studi di Van Gennep, Victor Turner, celebre antropologo britannico, si interesserà alla fase di margine (caratterizzata da una sorta di limbo sociale, in cui gli status culturali antecedenti e quelli futuri vengono trasfigurati) che determina nell’hic et nunc del limen un’area di forte ambiguità sociale. Il rituale assume un’interessante funzione drammaturgica: esso consente la mediazione tra la forma sociale già determinata e l’indeterminatezza, interpretando la crisi contenuta nel cambiamento.[11]

Vengono a crearsi uno spazio e un tempo intermedio in cui è resa possibile la trasformazione grazie alla ricchezza simbolica che accompagna la rappresentazione dei rituali: il simbolo collega lo sconosciuto con il conosciuto, rende pubblico ciò che è privato, sociale ciò che è individuale. I riti assolvono in questo modo la funzione di integrare e dunque controllare le diverse parti del gruppo: «La sofferenza connessa ai riti di passaggio servirebbe a imprimere in modo indelebile una determinata visione delle cose, che si concretizzerebbe poi, nella vita di gruppo».[12]

Ogni società e ogni cultura sancisce quella che Erikson definisce «moratoria psicosociale»,[13] un periodo caratterizzato da una permissività selettiva verso coloro che sono ancora alla ricerca di quell’autonomia che gli consentirà di divenire adulti. Tuttavia nelle società occidentali la presenza dei riti di passaggio si è fortemente indebolita, la formazione dell’identità avviene prevalentemente in modo autoriflessivo e individuale (attraverso processi di elaborazione simbolica e metacognitiva) e senza l’humus di una ritualità condivisa, i valori alla base dei comportamenti sociali mancano di una valenza drammatica: il circolo all’interno del quale l’esecuzione rituale e i principi normativi si rafforzano vicendevolmente si spezza, rendendo confuso per quali nuove vesti si devono dismettere le passate.

Questa progressiva scomparsa dei riti di passaggio classici, nell’accezione più antropologica del termine, ha condotto gli adolescenti verso un’emancipazione frenetica e individualizzata, durante la quale l’azione ha assunto un ruolo di significativa importanza.

Se infatti, nella cultura della società preindustriale, il rito di passaggio permetteva, secondo David Le Breton,[14] alle nuove generazioni di succedere armoniosamente a quelle adulte e alla società di accogliere il bisogno di trasformazione individuale senza minacciare la sopravvivenza della società stessa, appare ancora attuale la definizione delle modalità di ritualizzazione simbolica che attraversano l’esperienza adolescenziale tramite la categoria di «rischio».

La passione del rischio spinge l’adolescente a rompere con la quotidianità per capire chi è, per comprendere i propri limiti, fisici e psichici, per definire un’immagine di sé che possa almeno parzialmente rispecchiare le aspettative del gruppo dei pari. Emerge chiaramente come i comportamenti a rischio si distanzino dai riti di passaggio. Negli ultimi il rischio non è cercato in quanto tale: ha un forte significato simbolico, è volto al raggiungimento di obiettivi specifici per lo sviluppo individuale; terminato il rito, il rischio non si ripete. Nei comportamenti a rischio, invece, l’esposizione a condizioni che possono compromettere la salute fisica e psichica dei ragazzi diviene il tentativo disperato di affermare la propria soggettività. Questi comportamenti si presentano come una nozione fluida e caratterizzata dalla stessa ambiguità che il termine «rischio» racchiude. Gli autori che da molteplici prospettive trattano del rischio in adolescenza tendono a usare come se fosse univoco un termine che accomuna invece tre prospettive molto diverse: morale della colpa, sociale del pericolo, statistico epidemiologico della probabilità.

Si rende pertanto indispensabile, per poter riflettere costruttivamente sul tema, conoscere la differenza tra il bisogno fisiologico di sperimentare nuove possibilità alla ricerca della propria identità e la messa in atto di comportamenti a rischio concreti, che possono irreparabilmente causare danni, anche fatali.

La differenza tra le normali difficoltà dell’adolescenza e la tendenza antisociale non risiede nel loro quadro clinico, quanto nella rispettiva dinamica ed eziologia. Alla radice della tendenza antisociale c’è sempre una deprivazione che, per quanto di modeste proporzioni, può comunque produrre un effetto duraturo. Un bambino deprivato aveva qualcosa di «sufficientemente buono»[15] e poi l’ha perso, in un’epoca in cui era sufficientemente sviluppato e organizzato per percepire come traumatica la deprivazione. Il bambino antisociale cerca un modo perché il mondo riconosca il suo debito, il debito che un ambiente fallimentare ha contratto con lui. La deprivazione non può considerarsi implicita nell’adolescenza: ciò che rende accomunabili tratti caratteristici della cultura adolescenziale a manifestazioni di carattere antisociale è, agli occhi dei meno esperti, un ingannevole isomorfismo. Smascherata l’evidente differenza d’intensità ed estensione, il periodo della bonaccia adolescenziale si distingue nettamente dal disperato tentativo di superare una voragine, una frattura avvenuta in un periodo di dipendenza relativa. L’interruzione delle provvidenze ambientali ha determinato una sospensione dei processi maturativi e un doloroso stato clinico confusionale. A proposito dell’interazione dei bambini con i loro adulti significativi, l’attenzione di Nathan Ackerman per i processi d’interiorizzazione del controllo parentale ha condotto a considerare gli atteggiamenti rifiutanti dei genitori la causa di una vita emotiva egocentrica: l’aggressività del bambino non riesce a rivolgersi verso l’interno e a contribuire allo sviluppo di meccanismi interiori di autocontrollo.[16] Ogni reazione a un urto interrompe la continuità dell’esistenza personale del bambino e ne ostacola il processo di integrazione. Se il bambino, divenuto adolescente, non avrà modo di vivere il processo di separazione-individuazione (inteso quale processo di sviluppo di tutti quei fattori che portano al costituirsi dell’identità personale) è facile che possa dar voce a un falso Self, caratterizzato da atteggiamenti manipolatori nei confronti del suo mondo interpersonale, dalla messa in atto di agiti antisociali e dall’infrazione delle regole imposte dal mondo degli adulti.[17]

Secondo Erikson l’adolescente ha il compito di scegliere una prospettiva di sviluppo a scapito di altre sentite come ugualmente gratificanti; la messa in atto di comportamenti trasgressivi è un modo per esplorare i possibili Self, per cercare di capire quale tra i tanti «personaggi» l’adolescente vuole interpretare. Alcuni ragazzi, dopo aver esplorato molteplici alternative, riescono a realizzare una sintesi personale d’identità; altri, fallendo, si affidano passivamente all’identificazione o alla controidentificazione di modelli esterni. I comportamenti trasgressivi, violenti o ribelli possono anche essere ricondotti alla dissociazione del soggetto, maturata all’interno delle prime relazioni con l’ambiente. Per l’adolescente ciò significa introiettare la negazione di sentimenti ed emozioni e la messa in atto di reazioni difensive che portano ad agire in modalità auto ed eterodistruttive (incidenti, violenza, teppismo) per sentirsi vivi e combattere la sensazione di inconsistenza.

Da un punto di vista psicoanalitico si assiste all’aumento di condotte derivate dalla linea narcisistica rispetto a quella oggettuale. L’adolescente deve scegliere nuovi oggetti, ma deve scegliere anche sé stesso in quanto oggetto di interesse e stima. Il narcisismo di cui gli adolescenti sono affetti è basato sull’onnipotenza e l’idealizzazione di sé, ottenuta per mezzo dell’identificazione introiettiva e proiettiva con l’oggetto idealizzato. L’adolescente si trova a doversi confrontare con le aspettative che il mondo esterno mette in lui e a identificarsi con le stesse. Assume, secondo questi assunti, un importante significato l’interazione col gruppo dei pari.

All’interno di quest’esperienza, l’adolescente impara a «contrattare» sé stesso, a confrontarsi e ad affermarsi. Se l’adolescente rinuncia a questi compiti evolutivi si inserisce in un branco. Quest’ultimo rappresenta la rinuncia ad avere una relazione paritaria con l’altro, condizione questa indispensabile per la maturazione emotiva e la costruzione di un’identità. Se infatti il singolo si identifica nel branco, basterà che un solo membro commetta deliberatamente un agito antisociale perché ciò provochi la coesione degli altri, i quali, anche se presi singolarmente non approvano l’atto estremo, si dimostrano solidali verso colui che agisce in nome del branco, servendosi in questo modo degli estremi per aiutarsi a consistere. I sintomi antisociali rappresentano, secondo Winnicott «una brancolante ricerca di ricupero ambientale, e indicano speranza».[18]

Un adolescente che ha sviluppato un disturbo di personalità, altrimenti definito dall’autore «disturbo di carattere», è un adolescente malato, la cui esperienza passata è costellata di eventi traumatici, e che ha sviluppato un modo personale di far fronte alle ansietà insorte. Nelle forme più lievi è necessario un ambiente specializzato che abbia finalità terapeutiche e che possa dare una risposta di realtà alla speranza espressa dai sintomi. In quelle più gravi, là dove la psicoanalisi è possibile, sarà compito dell’analista trovare il significato dell’acting out nel transfert, per potergli attribuire un valore positivo. Nel disturbo del carattere c’è una malattia nascosta nella personalità intatta; i disturbi del carattere coinvolgono attivamente, in un certo modo e in una certa misura, la società. Paradossalmente «È l’elemento antisociale che determina l’implicazione della società».[19]

La società deve accogliere la sfida, deve reagire positivamente, venire incontro sia al fenomeno della bonaccia adolescenziale – e non stigmatizzarla come se fosse parte integrante del processo evolutivo – sia agli agiti antisociali, smettendo di trattarli come se l’ambiente fosse scevro di responsabilità. Il problema è posto da Winnicott sotto forma di memento: la società attuale è abbastanza sana per poterlo fare?

[1]Cfr. Anthony, 1990, pp. 53-72.

[2]Redl, 1977, p. 423.

[3]De Wit & Van der Veer, 1991, p. 86.

[4]De Wit & Van der Veer, 1991, p. 48.

[5]Erikson, 1968, p. 89.

[6]Winnicott, 1965a, p. 114.

[7]Winnicott, 1965a, p. 114.

[8]Siaud-Facchin, 2006, cit. in Faliva & Cozzani. Lo sviluppo nell’adolescenza. In Faliva (Ed.), 2011, p. 78.

[9]Cfr. Senise, 2003, p. 24.

[10]Senise, 2003, p. 24.

[11]Cfr. Barone. Abitare il limite. Adolescenti e liminalità. In Barone (Ed.), 2005, pp. 17-18.

[12]Senise, 2003, p. 266.

[13]Erikson, 1968, p. 184.

[14]Le Breton, 1995, cit. in Barone. Abitare il limite. Adolescenti e liminalità. In Barone (Ed.), 2005, pp. 20-21.

[15]Winnicott, 1965b, p. 170.

[16]Cfr. Ackerman, 1968; Malagoli Togliatti, 1996, pp. 99-112.

[17]Winnicott, 1965b, pp. 177-193.

[18]Winnicott, 1965a, p. 180.

[19]Winnicott, 1965b, p. 265.

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