Psicologia dell’ISIS: Strategie psicologiche e militari

Attenzione si sconsiglia la visione delle immagini ad un pubblico sensibile

Strategie psicologiche dell’ISIS

isis

Trattandosi di una guerra mediatica non si può non considerare, secondo gli esperti, quelle che sono le dinamiche sottese alla trasmissione delle informazioni tramite mass media e varie fonti terroristiche: infatti il controllo del pensiero avviene principalmente attraverso la ripetizione degli stimoli al grande pubblico di utenti e ciò viene ad inserirsi tra le varie tecniche di manipolazione mentale (Lean & al.1974).

La psicologia sociale ci spiega come è frutto di un pensiero comune che se noi non crediamo a una cosa che ci viene detta, non ne siamo influenzati. Questo pensiero però è ingenuo: noi non controlliamo interamente la nostra mente; come dimostrato infatti, sull’ irrazionale noi non abbiamo potere, ed è esso a decidere i motivi della messa in atto delle nostre azioni e le influenza profondamente (Mac Lean & al, 1974).

Ecco che il terrorismo non risulterebbe essere esente da condizionamenti di questo tipo: per imprimere nella mente un concetto basta ripeterlo più volte, ed è proprio così che noi acquisiamo una certa cosa. Ciò non vale solo per i prodotti ma anche per i modi di comportarsi e di parlare. Gli esperti affermano che il controllo sociale esercitato dagli jihadisti ha lo scopo di creare una massa di persone non pensanti, docili e sottomesse, ottenuto con strategie atte ad ostacolare il corretto funzionamento di aree corticali, riducendo l’attività di quelle deputate al controllo, alle facoltà razionali, e facendole agire come un gregge di pecore ipnotizzate che, stordite ed incapaci di prendere decisioni logico-creative, si incammina ignaro verso una società gestita da un potere centralizzato, tecnologico, assoluto.

In questo senso si tratterebbe di una guerra psicologica, ovvero “l’uso pianificato della propaganda “e di altre azioni psicologiche che hanno lo scopo principale di influenzare opinioni, emozioni, atteggiamenti e presentare i comportamenti ostili di gruppi stranieri, in modo da raggiungere i propri obiettivi (Defense, 1994).

Kuntzel affermerebbe che una chiamata alla Jihad sarebbe la costrizione obbligatoria per tutti i cittadini a partecipare alle operazioni militari; per scelta, da parte di un combattente e involontariamente da parte della vittima (Kuntzel, 2006). Seguirebbe allora la volontà degli Islamici di subire danni collaterali, e persino perseguire tattiche appositamente progettate allo scopo di causare la morte degli stessi civili, che ne potenzia così la capacità di sfruttare le stesse vittime civili, al fine di conquistare la simpatia dell’opinione pubblica nazionale ed internazionale. Per poter comprendere lo sviluppo di questa “condotta masochistica” , sostiene il criminologo, si dovrebbe partire dalla concezione del terrorismo come comunicazione; si deve entrate nella testa del terrorista (Travaglini, 2015); egli cerca una platea fatta di comuni addetti al lavori e decisori politici, cerca una meta comunicazione per poter diventarne protagonista, attore. Questo fenomeno è utile per comunicare qualcosa e gestire la comunicazione stessa rispetto all’effetto che produce, la persuasione.

Inoltre sembrerebbe essere favorita dalla possibilità di mandare messaggi comprensibili a tutti, in varie lingue. “Rivendico quindi comunico” (Travaglini, 2015): questo è il momento centrale nell’azione in quanto attraverso la rivendicazione il gruppo si presenta all’esterno, offre una immagine plausibile, magari terribile al pubblico. Travaglini punta lo sguardo su come un’organizzazione terroristica diviene forte e chiara come un “marchio di pubblicità aziendale”, prodotto a scopo manipolativo. Concludendo, secondo il giornalista, è doveroso affrontare il concetto di “violenza necessaria” (Musumeci 2015): come riferisce l’autore l’ISIS  è nato con un progetto relativo all’ideologia del nemico e pertanto questo porta lo stesso stato, seppure nato recentemente ed inizialmente poco esteso, a doversi difendere.

La violenza passa attraverso due processi forti: la de umanizzazione del nemico e la de islamizzazione; entrambi vanno di pari passo in quanto con il primo si intende il processo di violenza psicologica latente volto a screditare l’altro, mentre il secondo automaticamente porta avanti lo stereotipo dell’altro non islamico inteso come nemico (Musumeci 2015). Basterebbe vedere che cosa sta accadendo nella nostra società. Sono stati numerosi gli attacchi terroristici, come ci fanno notare gli esperti : l’ Attacco alle torri gemelle (2001); poi inizia la guerra mediatica in cui nessuno può sentirsi sicuro (vengono mostrate infatti immagini del disastro e nessun mezzo di comunicazione è esente dalla riproposizione a ciclo continuo di tali immagini); la minaccia di Bin Laden, seriamente intenzionato a distruggere il sistema sociale occidentale; segue una vera e propria guerra in cui le immagini brutali e traumatizzanti vengono mostrate su tutti i media (guerra preventiva in Afghanistan, Iraq); inizia una recessione economica (Orwell,1984).

Questi atti sarebbero promotori di aggressività, violenza, minacce; ci viene detto che sono il sesso, la pornografia, le immagini erotiche a fare capolino da ogni dove. Orwell sottolinea come a livello psicologico, oltre alla manipolazione e il tentativo di convincimento, si accompagna la violenza, che può di fatto annoverarsi tra i mezzi utilizzabili come veicolo per un messaggio politico (Orwell,1984). Come dimostrato, sarebbe proprio la violenza politica, oltre all’ uso dei mass media, a promuovere  contenuti anche per favorire ignoranza e condizionamento mentale;

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La violenza, dice il reporter, è come un’ arma a doppio taglio che utilizzata dai terroristi favorisce lo sviluppo del fenomeno di “Gamification”, ovvero l’ utilizzo di una violenza psicologica indiretta attraverso la messa in atto di giochi di ruolo e combattimento all’infedele, finalizzati a dare un minimo di formazione, reclutare e fidelizzare ma soprattutto a far rompere le barriere etiche che governano la vita; inoltre riscontriamo un a forte opera di propaganda a sostegno della violenza psicologica volta alla diffusione di brochure turistiche del Califfato rivolta a raggiungere le famiglie di combattenti stranieri per attirarlo a sé (Musmeci,2015).

E’ lui stesso a poter affermare che i jihadisti non usano soltanto la violenza per persuaderci bensì anche la comunicazione che è un mezzo di contrasto al terrorismo: infatti si tratta di una guerra ibrida che avviene in Web, in cui troviamo due veri e propri eserciti schierati che lottano per un comune fine. Chi decide di combattere l’ISIS ha trovato difficoltà su questo campo e il tempo di reazione è lento (Musumeci,2015); vi sono sempre più Psychological Walfare Operations, l’ esercito britannico che ha costituito una brigata di combattimento in Web. Inoltre ci sarebbero anche dei limiti legati al fenomeno cioè le decapitazioni, le decapitazioni di gruppo, le esecuzioni nei modi più cruenti, i bambini che uccidono, forse non solo la radicalizzazione ma anche la necessità di creare una reazione forte che giustifichi la crescita di comportamenti violenti e la guerra aperta, possibile divisione nella cultura occidentale tra estremismo/conflitto senza limiti e passaggio alla conciliazione (Musumeci, 2015).  Concludendo  è lo stesso Musumeci a ribadire come lo Stato Islamico non debba essere inteso solo come slogan o episodi; non si può affrontare in poco tempo e andrebbe ulteriormente analizzato per poter essere valutato in modo migliore.

di Anna Finaurini

     

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