Il trattamento psicologico nei casi di mobbing

Come superare il problema del mobbing col trattamento psicologico

L’intervento dello psicologo nei casi di mobbing

 

Antonella Matichecchia

 

 

Le vittime delle relazioni feroci e drammatiche relative alle dinamiche di mobbing si rivolgono ai terapeuti accusando i sintomi più diversi: disturbi del sonno (insonnia, ipersonnia), disturbi dell’alimentazione (anoressia e bulimia), emicranie frequenti, gastriti, disturbi relazionali (con gli amici, il partner, la famiglia), ansia, attacchi di panico e disturbi dell’umore la cui estrema espressione può tradursi in pensieri o atti suicidari (Hirigoyen, 1998; Ege, 1996, 1997; Casilli, 2000; Gilioli, 2000; Menelao, 2001).

Il trattamento di persone con problemi di mobbing è caratterizzato dall’iniziale inconsapevolezza che i loro problemi siano legati al lavoro, e questo può essere d’ostacolo allo psicoterapeuta, sia nel momento della diagnosi che dell’intervento. Purtroppo, la richiesta d’aiuto giunge quando il mobbing ha fatto il suo corso e lunghi periodi di vessazioni e umiliazioni hanno conseguito i danni più gravi non solo sull’immagine professionale della vittima, ma anche sulla sua identità e sulle sue relazioni extralavorative. I motivi che determinano una così tardiva richiesta terapeutica sono certamente numerosi.

Il primo è l’insufficiente conoscenza del fenomeno “mobbing”, determinata dall’ancora scarsa e confusa informazione sul tema. Un secondo motivo è legato allo stereotipo sociale della psicoterapia, secondo cui è una “cosa per matti”, un processo costoso e poco concreto. Queste convinzioni impediscono a molti di chiedere aiuto finché il loro disagio è tollerabile.

Un terzo motivo, forse il più importante, è, che, fino all’ultimo, le vittime di mobbing non riconoscono o non vogliono riconoscere il problema, perché si vergognano di essere succube sul luogo di lavoro o perché le strategie mobbizzanti cui vengono sottoposte sono, come spesso accade, indirette e subdole. In assenza di un’adeguata informazione e prevenzione specifica, prima di rivolgersi a un professionista le vittime subiscono vessazioni di tutti i tipi, a seguito delle quali sviluppano sintomi severi. L’intervento psicologico in questi casi si configura dunque come particolarmente urgente. L’esperienza clinica e la ricerca mostrano che non esiste un quadro sintomatologico di mobbing preciso e che, piuttosto, ogni persona sviluppa un sintomo o una sindrome differenti in reazione alle medesime strategie mobbizzanti.

Invece, ciò che accomuna le vittime di mobbing è un particolare modo di interagire con la propria realtà e di interpretarla. Le persone mobbizzate organizzano la propria esperienza intorno a quattro vissuti ricorrenti nella narrazione clinica; vissuti che rappresentano allo stesso tempo gli effetti del mobbing e le cause che lo mantengono e lo alimentano:

– solitudine : le vittime riferiscono di provare un profondo senso di isolamento. La vittima, vaglia parti significative della propria esistenza alla ricerca di cause che giustifichino in qualche modo il mobbing. Sul luogo di lavoro, la solitudine della vittima è attivamente perseguita dal mobber e ne rappresenta una strategia distruttiva;

sensi di colpa : il vissuto di colpa riguarda le vittime che sentono di essere responsabili per quanto accade. La violenza del /dei mobber appare talmente irrazionale che, per darle un senso, la vittima è portata a cercarne le cause nel proprio comportamento, in modo da attribuire un significato alle continue prevaricazioni. Inoltre, il mobbing ferisce gravemente l’autostima della vittima e la espone a sentimenti di inadeguatezza e inutilità così da rinforzare auto- attribuzioni di colpevolezza;

vergogna: i vissuti di solitudine e colpa determinano nella vittima un progressivo ritiro sociale. La vergogna provata per il fatto di essere oggetto di prevaricazioni sul luogo di lavoro può spingere la persona a nascondere i sintomi del proprio disagio, a mentire agli altri circa il suo umore e le sue condizioni di salute, a limitare ulteriormente la sua partecipazione alla vita sociale sia sul luogo di lavoro sia all’esterno. Tutto questo le impedisce di reagire adeguatamente, di cercare aiuto e, soprattutto, di cambiare i propri comportamenti;

vendetta: il vissuto di vendetta caratterizza l’esperienza delle vittime che hanno superato almeno in parte la solitudine, la colpa e la vergogna, la rabbia sottesa al vissuto di vendetta può tradursi in azioni distruttive contro il mobber che alimentano il conflitto, o peggiorano ulteriormente l’immagine della vittima, che corre il pericolo di licenziamento o addirittura quello di un’azione legale.

Vendetta, vergogna, colpa e solitudine svolgono alcune funzioni:

razionalizzare l’esperienza del mobbing per contenere l’ansia di vessazioni e prevaricazioni che appaiono ingiustificate e irrazionali;
restituire alla vittima il controllo della situazione;
ridurre la percezione della complessità relazionale e organizzativa del mobbing a due soli fattori, ovvero il mobber e il mobbizzato;
limitare, anche se in modo inefficace, il grado di conflittualità tra mobber e vittima (Secci, 2005).

Solitudine, colpa, vergogna e vendetta agiscono in modo integrato strutturando strategie comportamentali che non solo alimentano il mobbing, ma si estendono all’intera esistenza della vittima e rendono difficili e dolorose anche le sue relazioni privateIl focus del lavoro terapeutico deve quindi riguardare tali vissuti,che sono contemporaneamente individuali e relazionali, e profondamente sentiti nel presente in cui la persona chiede aiuto. La definizione dell’intervento non può prescindere dalla definizione del fenomeno.

Riteniamo che il mobbing sia un sistema co-costrutito dal mobber e dalla vittima, momento per momento. Affermare
questo significa formulare l’ipotesi che il cambiamento in una parte del sistema, seppur minimo, determina modificazioni importanti nelle altre parti del sistema e nel sistema intero. Allora, l’aiuto alla vittima è mirato alla produzione di nuovi comportamenti e atteggiamenti rispetto alla sua condizione. L’intervento a indirizzo strategico sulla vittima di mobbing mira a innescare in tempi brevi un processo di cambiamento al livello delle dinamiche emotive, cognitive e relazionali che alimentano il disagio della persona.

I requisiti dell’intervento terapeutico a indirizzo strategico possono essere così sintetizzati:
– focalizzato sulla relazione;
– centrato sul “qui e ora”;
– teso a rompere gli schemi di persistenza del mobbing;
– volto a utilizzare le potenzialità del paziente.

Quando una persona ricorda un evento, di solito non rivive anche le sensazioni fisiche, le emozioni, le immagini, gli odori o i suoni associati ad esso. Solitamente, gli aspetti ricordati di un’esperienza si coagulano in una narrativa coerente, magari arricchita di stati d’animo particolari, che possono a loro volta influenzare il ricordo, ma mai, in nessun caso, ricordare significa rivivere. Proprio quest’ultima caratteristica connota il Disturbo post-traumatico da stress (DPTS): non si ricorda l’evento, lo si rivive, come se il tempo non fosse passato.

I ricordi “impliciti” di un evento traumatico presentano una qualità assai diversa. Quando un trauma viene ricordato, la persona “ha” l’esperienza:viene cioè trascinata dagli elementi sensoriali o emotivi dei traumi passati. L’aiuto psicologico alla vittima di mobbing può essere riassunto in quattro punti fondamentali:
– recupero dell’autostima;
– strutturazione di nuove relazioni o miglioramento di quelle attuali;
– comprensione delle proprie modalità di reazione al mobbing;
– apprendimento di nuove strategie di gestione del conflitto.

La psicoterapia si concentra soprattutto sulla costruzione di una narrativa che spieghi perché la persona sente in un modo particolare, con l’aspettativa che,comprendendone il contesto, i sintomi (sensazioni, percezioni, reazioni emozionali e fisiche) spariscano; alla luce delle più recenti acquisizioni neurobiologiche,però, l’ipoattivazione dell’area di Broca potrebbe interferire, non poco,con i normali percorsi psicoterapici e potrebbe sottolineare l’importanza di alcune tecniche psicoterapiche ove la verbalizzazione è più limitata come le tecniche di decondizionamento e l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR).

L’impossibilità che il paziente avverte nella costruzione di una narrativa coerente quando gli viene chiesto di parlare del trauma e il profondo stato di angoscia che accompagna il rievocarlo potrebbero, inoltre,essere le cause per gli elevati tassi di drop-out che si rilevano anche per le terapie psicologiche (Hembree, Foa, Dorfan e Kowalski. Do patients drop out prematurely from exposure therapy for PTSD, 2003).

Nonostante questo la maggior parte delle linee-guida riportano la psicoterapia come intervento di elezione per la cura del DPTS, riservando solo ai casi più gravi l’associazione con la farmacoterapia.

I trattamenti psicoterapeutici del DPTS si possono dividere in:
1) adattamenti terapeutici di tecniche già usate per il trattamento di altri disturbi;
2) trattamenti specifici concepiti per la cura dei sintomi post-traumatici.

Molti approcci psicoterapeutici potrebbero essere utili nel trattamento del DPTS e vi sono molte indicazioni aneddotiche sul loro utilizzo con successo,ma gli studi clinici controllati sono in genere insufficienti per fare una valutazione scientifica della loro efficacia (Schnyder. Psychotherapies for PTSD, 2001). Tra le tecniche psicoterapeutiche ad oggi prive di adeguato background di ricerca ricordiamo la terapia di coppia e familiare, la riabilitazione psicosociale, l’arte-terapia e lo psicodramma.

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