Un caso di Psicologia dell’emergenza spiegato

Articolo di Alessandra Serio

Psicologia dell’emergenza Un caso speciale Il mio primo intervento come psicologa dell’emergenza ha visto la mia squadra di psicologhe, composta da una senior, una supporter, una collega in affiancamento e me, coinvolta in un incidente in cui un uomo aveva perso la vita. Quando siamo arrivate sul posto, sul luogo dell’incidente, assieme ai soccorritori, ai vigili del fuoco ed ai poliziotti, io ho cercato di osservare tutto, perfino le mie stesse emozioni, perché non ne venissi travolta e sopraffatta. C’era un silenzio assordante, ma tutti gli sguardi che ho incrociato avevano qualcosa da dire.

Ed il silenzio era carico di rispetto verso quell’uomo che, come abbiamo successivamente appurato, aveva deciso di togliersi la vita quella mattina. Eravamo state allertate in quanto i macchinisti del treno merci, scossi dall’accaduto, erano rimasti ai loro posti, probabilmente a fare i conti con un senso di angoscia soverchiante, o anche semplicemente turbati dalla possibile visione di quell’uomo che, pochi attimi prima, era ancora lì, tra loro. Non potevo comprendere in quale stato d’animo versassero, perciò mille ipotesi si facevano largo in me in quei frangenti, mentre osservavo la senior salire su quel treno, e stabilire un contatto con i due macchinisti che da lì a poco son scesi dal treno accettando di recarsi con noi in Pronto Soccorso. Il sentimento costante che predominava in me era la paura; una paura che aveva mille sfumature: non riguardava solo quanto appena accaduto, ma comprendeva anche la constatazione, oserei dire cruenta, della nostra finitudine, o ancora, la paura di espormi con chi sul posto aveva osservato le dinamiche dell’incidente, e dire qualcosa di troppo o di sbagliato in una circostanza già delicata. Una delle cose che è rimasta impressa è stata la catena umana che hanno formato le mie colleghe assieme ai soccorritori ed ai vigili del fuoco, a cui mi sono aggiunta, ed il cui intento era preservare l’identità e la dignità di quell’uomo, mentre la polizia scientifica raccoglieva reperti fotografici, ed i giornalisti cercavano di catturare l’intera sequenza con le proprie videocamere. Mentre ero lì in fila con gli altri il mio sguardo si è posato sulle mani di quell’uomo, e la mia mente ha iniziato a porsi mille interrogativi, a partire da quel dettaglio. Chissà quali volti avranno accarezzato quelle mani, chissà che non fossero lo scudo per i suoi bambini. Chissà, se aveva bambini. Questo continuavo a chiedermi, dal momento che non era ancora stato identificato. Per la sua famiglia, quella giornata, fino a quel momento, era ancora una soleggiata mattina, in cui tra un caffè ed uno sbadiglio, tra mille incombenze e corse al lavoro, si fa largo un giorno nuovo, tutto ancora da scrivere. Continuavo a pensare a quella famiglia, e a come quel giorno, per loro, avrebbe stravolto la vita. E continuavo a chiedermi in che modo noi avremmo potuto fare la differenza per loro. Poche ore dopo, siamo state ricontattate per raggiungerli. Una volta lì, ci hanno accolte con una delicatezza disarmante, nella compostezza del proprio lutto, ed io, entrata in casa loro, stavo attenta a non calpestare i loro sentimenti con parole inopportune. Ho osservato gli sguardi di tutti i presenti: dei genitori, della sorella, della moglie e delle figlie. Ma anche quelli delle mie colleghe, che come mi avevano detto pochi secondi prima di entrare “Potrai fare questo mestiere per anni, ma non ci si fa mai l’abitudine, è sempre un colpo al cuore”. Mentre ero lì, ho tastato con mano il dolore di un’intera famiglia, ho ascoltato i loro racconti di vita, i loro “perché?”, i loro pianti, le loro preoccupazioni. Ho visto le foto sulle pareti di quella casa, ed i sorrisi impressi in quelle foto. Ho parlato con ciascuno di loro.

Non avevo risposte definitive alle loro domande, perché ciascuno, col tempo, impara a darsi una risposta propria su ciò che gli accade. Ma tutto ciò che potevo, e soprattutto che sentivo, l’ho messo a loro disposizione. Dal momento che in casa erano presenti sia i genitori che la sorella dell’uomo, sia la moglie e le figlie, la senior della mia squadra ha ritenuto opportuno che ci dividessimo ad un certo punto, perché potessimo rivolgere energie ed attenzioni focalizzate e mirate. La moglie dell’uomo era visibilmente scossa dall’accaduto, e probabilmente temeva l’eventuale reazione delle figlie, che voleva preservare dalla notizia. Le mie colleghe le hanno lasciato tutto il tempo possibile per verbalizzare i propri sentimenti, prima di proporle di comunicare la notizia assieme a noi, in modo da attutire almeno in parte la reazione delle sue bambine, qualunque fosse stata; il messaggio che le volevano trasmettere in quel momento andava al di là delle mere competenze professionali dei singoli presenti; in quel momento eravamo un gruppo di persone motivate dallo stesso obiettivo: affrontare la situazione al meglio delle nostre forze, pur nei nostri ovvi limiti umani. La supporter ed io ci siamo scambiate uno sguardo d’intesa: al mattino, le mie colleghe ed io avevamo avuto modo di approfondire la conoscenza reciproca, ed erano emersi dettagli dei relativi percorsi e vicissitudini personali; io avevo condiviso con loro le mie emozioni legate alla perdita del mio papà ed ecco perché, pur trattandosi della mia prima uscita in affiancamento, avevo sentito così forte il desiderio di accostarmi alle bambine di quell’uomo, per poter offrire loro un minimo di contenimento, nel mio piccolo. Sapevo che si sarebbe trattato di un’arma a doppio taglio, sia perché esporsi aumenta la propria vulnerabilità, ed in un contesto simile, avrei voluto mantenere tutta la lucidità possibile per restare focalizzata sulle bambine, sia perché avevo il timore che offrire conforto a quelle bambine rispondesse più ad un mio bisogno che ad una loro esigenza, nel senso che, la mia precipitosità ed inesperienza avrebbero potuto sortire l’effetto contrario rispetto a quanto auspicato, innescando un’ulteriore trauma. Ciò che mi ha trasmesso coraggio in quei momenti è stata la presenza della supporter, su cui sapevo di poter fare affidamento, e con cui c’è stato uno scambio di energia tale da permetterci di intervenire in sinergia, alternandoci e proteggendoci l’un l’altra. Mentre la mamma era intenta a spiegare alle sue bambine, di 9 e 13 anni, la dinamica dell’incidente, la mia collega ed io siamo rimaste in silenzio, ed anche nel momento in cui le bambine sono scoppiate in un pianto incontrollato, abbiamo deciso di aspettare ad intervenire, ritenendo che probabilmente la cosa migliore in quel momento fosse lasciar fluire le emozioni in circolo, senza bloccarle.

Quando le bambine si sono calmate, io ho voluto avvicinarmi a loro, avevo addosso il mio giubbetto identificativo, ma l’ho tolto ad un certo punto, mi sono seduta per terra prendendo ad entrambe una manina, per raccontare loro cos’è la vita senza poter avere un papà accanto, o almeno, nel mio piccolo, cosa avesse significato per me aver perso il mio papà ma che questo non mi aveva impedito di continuare a sentirlo accanto a me, ed in quel momento, nel farlo, non volevo essere la “psicologa Alessandra Serio”, volevo essere semplicemente Ale, e lasciar parlare la donna e la bambina che sono in me. Ho cercato di essere il più cauta, dolce e delicata possibile mentre parlavo a quelle bambine, perché sapevo che quelle parole, nel bene e nel male, si sarebbero sedimentate in loro, perché leggevo nei loro sguardi la profondità con cui eravamo sintonizzate, e non volevo assolutamente recar loro ulteriore sofferenza. Ho offerto loro una nuova ipotetica prospettiva in cui inquadrare quella situazione, perché il caos potesse avere anche solo un minimo di senso per loro; ho raccontato loro le emozioni che probabilmente si sarebbero susseguite a breve e lungo termine, rassicurandole circa il sentirsi libere di esprimerle, a prescindere da quanto le ritenessero negative, e che non si sarebbero dovute sentire inadeguate in proposito, e di far sempre presente a chi intorno a loro, di cosa avrebbero avuto bisogno, perché soprattutto nel contesto tra pari, i loro amichetti, per timore di ferirle, avrebbero potuto prendere le distanze, non trovando le parole ed il modo giusto per star loro accanto. Le bambine mi hanno abbracciata, mi hanno mostrato i loro giochi, mi hanno fatta sentire una loro nuova amica. Mi hanno sorriso, hanno scherzato con me. Ho potuto restituire loro un respiro di sollievo, in mezzo al caos dei loro sentimenti.
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E pur sapendo che si trattava di un sollievo effimero e temporaneo, ciò che avevo voluto offrire loro era una testimonianza, la stessa di cui avevo avuto bisogno io subito dopo la perdita, ossia, che quel dolore col tempo si sarebbe trasformato, e che ci sarebbe stato un “dopo” rispetto a quella sofferenza, un momento o un passaggio ad uno stato in cui avrebbero avvertito una ritrovata, ma sicuramente diversa, serenità. Non ho voluto forzare nessuno della famiglia parlare con me, ma ho detto a tutti ciò che sentivo. Come alla sorella dell’uomo, a cui mi sono rivolta, nel tentativo di ridurre il rimuginio che l’attanagliava in quel frangente, per esprimerle tutto ciò che provavo a riguardo, ed offrirle una nuova prospettiva di senso, che restituisse significato alla vicenda, perché quest’ultima non le impedisse di continuare a vivere e riprendere in mano le proprie abitudini, ma soprattutto, il proprio ruolo di mamma. Quella mattina suo fratello le aveva inviato un messaggio in cui le diceva di volerle bene, a cui lei aveva risposto subito, ma ora continuava a chiedersi se non avesse potuto fare qualcosa di più per lui, per cambiare il corso degli eventi. Io avevo avuto una fitta al cuore nel sentirla raccontare questo dettaglio, ed avevo rivissuto mentalmente tutte le risate che di solito l’unico che riusciva a strapparmi era proprio mio fratello, perciò mi sono avvicinata a lei, l’ho presa in disparte e le ho detto di essere rimasta colpita da quali parole suo fratello avesse scelto per salutarla. Avrebbe potuto semplicemente dirle addio, o che non ce la faceva più, invece le aveva detto che le voleva bene, e a mio avviso, ho ipotizzato che lui volesse sgravarla dal senso di colpa, caricando quel “ti voglio bene” di un significato che andava oltre il semplice esprimerle il suo affetto, ma che era possibile che lui volesse trasmetterle quanto lei avesse fatto talmente tanto per lui, che lui non se ne sarebbe potuto andare via senza ringraziarla. Ho visto i suoi occhi cambiare espressione, come se si fosse appropriata di quella nuova angolazione da cui le avevo fatto rivivere quell’aneddoto; le avevo offerto le mie lenti, perché potesse leggere un’altra versione della storia che continuava a raccontarsi ininterrottamente, pur rendendomi conto che era una delle tante possibili chiavi di lettura di una vicenda che lei avrebbe potuto accogliere o respingere.

Lei allora, poco prima che me ne andassi, mi ha abbracciata stretta, tra le lacrime e mi ha detto “Ti manderò pensieri felici, e non ti dimenticherò mai, anche col passare degli anni”. Ero entrata in quella casa, perché le nuvole scure formatesi quel giorno, lì, non avvolgessero quella famiglia senza lasciar loro scampo, ma potessero far strada ad un piccolo spiraglio di luce. Me ne sono andata, con la sensazione che fossero stati loro a fare questo per me. Magari inconsapevolmente. Mille pensieri ed altrettante emozioni contrastanti, ma mentre ero in auto con le mie colleghe ho chiuso gli occhi esausta, ed ho pensato una cosa soltanto: “Vi manderò pensieri felici, e non vi dimenticherò mai, anche col passare degli anni”. Ho scelto deliberatamente nel corso di quella giornata di lasciar fluire le mie emozioni e mettere in campo i miei sentimenti, i miei vissuti personali, e tutta me stessa, pur di connettermi con quella famiglia. L’energia in circolo ed il feeling tra le mie colleghe e me ha creato l’atmosfera ideale in cui sentirmi libera di provare legittimamente tutte le emozioni possibili, senza per questo sentirmi inadeguata o non all’altezza, perché potessi fare esperienza a livello mentale e corporeo, di quanto stesse accadendo intorno a me e dentro di me. Il disagio, l’insicurezza, la paura e l’angoscia con cui sono entrata in quella casa hanno lasciato spazio a sentimenti diversi, che si sono alternati e susseguiti, permettendo che si schiudesse una nuova parte di me, probabilmente un po’ più resiliente, proprio perché a contatto e a suo agio con le proprie paure. Solo qualche giorno dopo rispetto all’intervento, la senior si è messa in contatto con la sorella dell’uomo, che l’ha ringraziata per la nostra presenza quel giorno, perché anche questo le aveva consentito di riaccostarsi e riappropriarsi della propria quotidianeità, innanzitutto rientrando al proprio lavoro, segno per la nostra squadra che lei fosse una perfetta testimonianza di donna resiliente. Sì, quell’intervento mi ha scossa emotivamente, ma per aver avuto accesso all’intimità di una famiglia, nel momento più delicato della loro vita, mi sento una privilegiata.

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