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Psicologia della violenza di genere

Articolo di Giuseppina Seppini

Nel 1996 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.), ha coniato il termine Intimate Partner Violence (I.P.V.), per definire la violenza presente all’interno dei legami intimi, definendola in quanto “forma di violenza fisica, psicologica o sessuale che riguarda sia soggetti che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di coppia, sia soggetti che all’interno di un nucleo familiare più o meno allargato hanno relazioni di carattere parentale o affettivo” (WHO, 1996).

 

Per meglio comprendere il concetto di violenza domestica, appare sostanziale adottare un approccio ecologico (Levendosky, Graham-Bermann, 2001). La dimensione della violenza, è un elemento che spesso caratterizza già la famiglia di origine del maltrattante, con la compresenza di differenti aspetti disfunzionali (abusi fisici e sessuali, dipendenze da alcool o droghe, povertà, patologia psichiatriche, criminalità). Ciò non significa comunque che aggressività e violenza connotino tout court il nucleo famigliare originario. Queste possono albergare anche in tutti i contesti famigliari, indipendentemente dal ceto economico-sociale e culturale di appartenenza. Si assiste però ad una trasmissione intergenerazionale di comportamenti violenti, veicolati e dipendenti dalle relazioni primarie dell’individuo, che introducono ad un rapporto di deumanizzazione dell’altro e al disconoscimento dell’alterità (Albarello, Rubini, 2008).

La famiglia in quanto nucleo, non sempre rappresenta quel luogo sicuro, quel rifugio, all’interno del quale si palesano relazioni affettive positive, di supporto, di accudimento, protezione. Elementi di conflitto e di oppressione spesso alimentano in un circolo vizioso relazioni negative, precludendo alla famiglia stessa, il riconoscimento in quanto istituzione.

Fattori individuali, contestuali e relazionali, in cui si inserisce la dimensione della violenza domestica, possono inoltre rappresentare fattori di rischio per la salute fisica della donna, che se in stato di gravidanza, possono addirittura influenzare lo stato di salute del nascituro (Cataudella, Zavattini, 2015).

Come hanno dimostrato studi sulla psicodinamica delle relazioni violente, queste non possono essere comprese se non inserite all’interno delle dinamiche relazionali di coppia, definendo appunto la violenza all’interno di quest’ultima come Intimate Partner Violence (I.P.V.).

L’ I.P.V. si realizza attraverso differenti manifestazioni di comportamenti violenti, con l’obiettivo di controllare e assoggettare il partner, nell’ambito di una relazione esistente o conclusa. Le manifestazione della violenza, sono caratterizzate da ciclicità[1], che logora e distrugge l’esistenza della vittima, con perversione dei confini intra ed extra diadici[2], con conseguente intorpidimento e soffocamento dello spazio vitale della vittima.

La vittima si fossilizza in una sorta di circolo perverso, all’interno del quale la violenza subita, viene affrontata con un approccio salvifico, nel tentativo ostinato di salvare la relazione, con l’anelito di riuscire a cambiare il partner (Filippini, 2005). Per una questione di prevalenza statistica gli studi sull’I.P.V. si concentrano sulle situazioni in cui la vittima è la donna, anche se esistono coppie dove i ruoli sono invertiti ed il processo di vittimizzazione interessa l’uomo.

I conflitti vincolari che si manifestano all’interno del ciclo della violenza, possono ripercuotersi negativamente laddove vi sia un coinvolgimento della prole, influenzando lo sviluppo di bambini e adolescenti; si parla in questo caso di violenza assistita. La violenza assistita si realizza ogni qualvolta il bambino o l’adolescente diviene testimone di atti di violenza, che interessano persone alle quali è affettivamente legato e per lui significative. Le conseguenze della violenza assistita, sono rappresentate dalla successiva manifestazione dell’I.P.V. e non soltanto in qualità di persona abusante ma anche di predisposizione a diventare vittima (Salerno, Giuliano, 2012 ).

[1]             Il riferimento è al modello ciclico della violenza elaborato da Walker nel 1970. Secondo tale modello esiste un’alternanza di fasi che si manifestano all’interno della coppia, caratterizzate da tensione, esplosione dell’aggressività, apparente remissione dei comportamenti violenti, richieste di riappacificazione e perdono, nonché riproposizione momentanea del rapporto idilliaco, per la paura da parte dell’offender di essere abbandonato e di perdere il controllo sulla vittima.

[2]             Riduzione della distanza psicologica tra i membri della coppia, dissolvimento dei confini individuali e compromissione psicologica e irrigidimento dei confini relazionali esterni alla coppia stessa (familiari e sociali).

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