Tecniche di fototerapia: usare la fotografia come terapia

di Lorena Rigoli

Le tecniche di fototerapia sono pratiche terapeutiche che utilizzano le foto personali, gli album di famiglia, e le foto realizzate da altri come elementi stimolatori per approfondire la comprensione e migliorare la comunicazione durante le sedute di terapia. La pratica delle tecniche di fototerapia può essere svolta da qualunque terapeuta specializzato o altro professionista di salute mentale, anche se non ha alcuna esperienza precedente in ambito artistico. Ogni terapeuta che utilizzerà queste tecniche lo farà in modo diverso, a seconda del proprio orientamento professionale o teorico e in base alle esigenze situazionali terapeutiche di ogni cliente. Si tratta di utilizzare le fotografie come comunicazione e non come arte. La psicologa e arte-terapista che meglio c’illustra nel suo articolo[1] le tecniche di fototerapia e il loro utilizzo in ambito terapeutico è Judy Weiser. Molto semplicemente le cinque tecniche sono direttamente corrispondenti alle diverse relazioni possibili tra l’individuo e la macchina fotografica, inoltre esse sono interdipendenti e interconnesse e non si possono separare se non per spiegare come funzionano. Esse sono:

  1. Fotografie che sono state scattate o create dal paziente: sia che esse siano state realizzate con una macchina fotografica oppure che il paziente si sia appropriato d’immagini scattate da altre persone o prese da riviste, cartoline ecc. I terapeuti non esplorano i fatti delle fotografie dei loro pazienti, ma cercano simboli personali, metafore e altre informazioni di cui il soggetto potrebbe essere inconsapevole al momento dello scatto della foto. Tralasciando il fatto che i pazienti portino fotografie già scattate di propria iniziativa, o su richiesta del terapeuta, queste possono essere utilizzate per confluire la discussione su aspetti della loro vita che vanno al di là di ciò che appare nelle loro foto.
  2. Fotografie del paziente che sono state scattate da parte di altre persone: le fotografie scattate da altri permettono di capire il modo in cui si è visti. Raramente le persone si fermano a considerare come comunicano in maniera visiva e consapevole le informazioni su se stessi a chi li guarda. Questa tecnica racchiude fotografie in cui qualcuno di diverso dal paziente ha deciso quando e dove fare la fotografia, in questo modo il paziente controlla meno come verrà la posa.
  3. Autoritratti: ovvero le fotografie che i pazienti fanno spontaneamente da soli durante le sedute di terapia, oppure scattate e raccolte in un momento successivo come compito assegnato dal terapeuta. Le foto di una persona, scattate dalla stessa, senza alcuna contaminazione esterna, permettono di esplorare chi sono quando nessuno le osserva, le giudica o le tiene sotto controllo. Essere in grado di vedere se stessi, senza il filtro di qualcun altro, può avere un effetto molto potente e un grande beneficio terapeutico. I pazienti possono utilizzare le proprie fotografie per stabilire un dialogo interno e valutare l’effetto che ha su di loro. Poiché gli autoritratti permettono un dialogo non verbale diretto con se stessi, essi potrebbero essere il tipo di foto davanti al quale lasciarsi andare alle proprie emozioni. Questo è il motivo per cui gli autoritratti, nelle situazioni di terapia, sono immediati ed efficaci nell’attivare processi profondi di elaborazione.
  4. L’album di famiglia ed altre raccolte foto-biografiche: gli album fotografici sono una sintesi dei tre tipi di tecnica descritti precedentemente (quelle fatte dalle persone, quelle fatte alle persone e gli autoritratti). Queste fotografie, a differenza delle altre sono disposte in sequenza ordinata, ricordano luoghi speciali, persone significative che hanno avuto una particolare importanza nella vita della famiglia. Le pagine dell’album mostrano come gli individui sono inseriti all’interno del sistema familiare, mostrando quindi anche chi sono nel complesso. Aiutare le persone a vedere se stesse all’interno dei loro contesti personali e storici le aiuta a comprendere meglio la loro situazione e i loro sentimenti attuali. Gli album contengono anche persone dimenticate, segreti, miti e di conseguenza, ciò che tra le loro pagine è stato omesso risulta, dal punto di vista terapeutico, più significativo di ciò che di fatto appare. In conclusione gli album permettono alle persone di ri-vedere le loro esperienze, i loro legami e le loro relazioni con gli altri e di scoprire meglio i loro sentimenti e situazioni attuali.
  5. Foto-proiettive: la quinta ed ultima tecnica di fototerapia è basata sul modo in cui le persone vedono il mondo intorno a sé attraverso delle lenti inconsce che influenzano percezioni, pensieri e sentimenti. Questa tecnica è chiamata “foto-proiettiva” poiché le persone proiettano sempre un significato sulle fotografie, per questo possiamo definire questa procedura come facente già parte delle altre tecniche più che come una tecnica a sé, ciò nonostante deve essere discussa separatamente e preferibilmente deve essere insegnata per prima ai terapeuti in formazione. Le “foto-proiettive” possono essere uno strumento efficace per aiutare l’autoconsapevolezza dei pazienti, soprattutto con coloro che sono abituati da tempo a sentire le proprie percezioni messe in discussione. Esse sono molto utili al fine di aiutare il paziente a fare i cambiamenti che vuole, mentre il terapeuta deve riuscire a vedere il mondo attraverso i suoi occhi.

Quando si prendono in considerazione tutte e cinque le tecniche insieme, appare evidente che esse non costituiscano cinque metodologie distinte poiché ognuna di esse è formata e sovrapposta a tutte le altre. Di conseguenza l’applicazione di queste tecniche si avrà sempre quando esse vengono combinate.

Oltre a queste tecniche principali ve ne sono poi altre utilizzate nei vari approcci psicoterapeutici, uno di questi è il genogramma fotografico. Si tratta di un sistema terapeutico che prende forma dall’integrazione del genogramma classico di Murray Bowen.[2] Nell’utilizzo di questo approccio risulta fondamentale inserire l’individuo innanzitutto in un contesto specifico ovvero quello della sua famiglia originaria e che la persona venga intesa come il risultato dei vissuti delle generazioni precedenti facendo riferimento soprattutto al punto di vista affettivo. L’utilizzo di album fotografici si inserisce allora in questo tipo di approccio fornendo l’occasione di osservare i rapporti familiari, di ricostruire un senso storico-cronologico tale da consentire al paziente di dotarsi di un adeguato vocabolario espressivo grazie all’individuazione di prospettive di significato esistenziali. Entrando nello specifico della tecnica elaborata dalla psicologa Anna Rita Ravenna sull’utilizzo del genogramma fotografico, l’impiego di foto costituisce un particolare modo per far emergere il contesto familiare come sfondo della vita del paziente e consente di dare vita a diverse modalità narrative.

Nel genogramma fotografico non si parte né da un modello teorico né da una struttura ideale o da uno schema fisso per organizzare il materiale; è l’esperienza emotivamente connotata e contingentemente evocata che indirizza il percorso sin dal momento in cui la persona sceglie le foto da portare ad un incontro terapeutico […] I frammenti di esistenza cristallizzati nelle “istantanee” iniziano così a prendere voce non più come parole isolate ma in quanto parti di un incontro dialogico tra sé e sé stesso in un continuo gioco di proiezioni che dall’emergere di particolari e significanti “inediti” porta da una foto ad un’altra attraverso l’emergere di nessi ed aspettative sino a quel momento sconosciuti.[3] Tutte le varie operazioni preliminari del paziente che vanno dalla disposizione casuale delle foto inizialmente rivolte con l’immagine verso il basso alla loro sistemazione in maniera strutturata, dopo aver seguito un filo conduttore alimentato dai ricordi, fanno da sfondo produttivo per il lavoro terapeutico.

Un’altra tecnica che permette di usare e trattare le immagini come vero e proprio strumento di riflessione terapeutica è il fotoromanzo. Illustrerò questa tecnica prettamente nel suo utilizzo terapeutico tralasciando la sua nascita, la sua popolarità e il boom editoriale che provocò nel dopoguerra. Il fotoromanzo è un tipo di racconto costituito da fotografie scattate su un set simile a quello cinematografico. Ciò che interessa al terapeuta, in questa modalità d’intervento, è che la produzione d’immagine spetta al paziente. La persona coinvolta nel lavoro può svolgere vari ruoli all’interno del lavoro stesso, come nello psicodramma. Può essere il regista, oppure il fotografo; a volte può essere regista e allo stesso tempo stare sulla scena; o, ancora, può mettere in scena se stesso facendosi rappresentare da qualcun altro. Ciò dipende dalla distanza che la persona, o il terapeuta, sente giusta mantenere rispetto ai vissuti emozionali attivati nel lavoro svolto, e l’aspetto che riveste maggiore importanza, in questo tipo d’intervento, è la costellazione che le foto scattate dalla persona vanno a rappresentare.[4]

Nel momento in cui viene composta un’inquadratura in un certo senso viene disegnata la propria dinamica emotiva, affettiva e relazionale. Ogni singolo scatto è la rappresentazione visiva del proprio essere al mondo. Anche i gesti e le posture, nella misura in cui sono vissuti nel momento della posa, offrono qualcosa alla relazione terapeutica.[5] Un altro aspetto importante poi del fotoromanzo, oltre a quello evocativo, è quello dialogico. Il racconto non è contenuto nelle fotografie ma nella didascalia, lo spazio tra un’immagine e l’altra. Questa distanza può essere definita come il fulcro del fotoromanzo poiché la didascalia crea uno spazio narrativo che altrimenti sfuggirebbe alla consapevolezza, ma più nello specifico è nello spostamento tra un’inquadratura e l’altra che l’individuo libera la sua fantasia, raccontando la sua storia. Questo processo permette quindi di mettersi in gioco come si vorrebbe: è divertente, e nello stesso tempo intenso, quando tutte le persone danno vita al loro fotoromanzo, riconoscere se stessi nel prodotto finale. In qualche modo tutti hanno raccontato qualcosa di se stessi con ironia e partecipazione. Molto spesso il raccontare di sé attraverso l’uso di altri non ancorati alla realtà della propria immagine narcisisticamente “protetta”, fornisce la possibilità di creare storie che escono dalla quotidianità e si immergono nella fantasia e nei bisogni più o meno inconsapevoli.[6] Per questo motivo il fotoromanzo può essere molto coinvolgente, in quanto offre la possibilità di inventare le azioni, episodi della vita che non sono rappresentati nelle fotografie. In conclusione le tecniche di fototerapia si intrecciano l’una nell’altra, formando molteplici possibilità terapeutiche.

 

 

 


[1] J. Weiser, PhotoTherapy Techniques in Counseling and Therapy: Using Ordinary Snapshots and Photo- interactions to Help Clients HealTheir Lives, PhotoTherapy Centre Press, Vancouver, 2004.

[2] M. Bowen, Dalla famiglia all’individuo, Astrolabio, Roma, 1979. Secondo M. Bowen le relazioni significative della persona al centro del sistema terapeutico prendono consistenza solo attraverso l’analisi dell’intero contesto familiare comprensivo di almeno tre generazioni. Egli era solito analizzare le vicende delle famiglie al fine di ottenere informazioni concrete e risalire a quante più generazioni possibile. È evidente nel suo lavoro la ricerca dell’influenza delle generazioni precedenti sui membri della famiglia che manifestano direttamente un disagio. All’interno di questi approfondimenti  l’Autore ha iniziato ad usare il termine “triangolo” per descrivere la coesione tra padre,madre e prole soprattutto in un contesto schizofrenico.

[3] A.R. Ravenna e S. Iacoella, Il genogramma fotografico, in “Formazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia”, 2006, 7, pp. 18-27.

[4] O. Rossi, op. cit., p. 69.

[5] Ivi, p. 69.

[6] Ivi, p. 71.

Scrivi a Igor Vitale