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Novembre 23, 2014 In Psicologia Clinica, Uncategorized By Igor Vitale

Come si fa un colloquio psicologico?

Il colloquio è un processo interattivo che a luogo tra due persone, è diverso dalla conversazione perché ha un obiettivo specifico e cioè aiutare il pazienta a risolvere un problema. Chi fa un buon colloquio è in grado di estrapolare il maggior numero di informazioni.

Chi conduce il colloquio deve:

  • Possedere capacità diagnostiche e di osservatore
  • Conoscere diversi trattamenti e i limiti di questi
  • Saper instaurare un’alleanza diagnostica con il paziente
  • Saper prendere decisioni in tempi brevi
  • Saper comunicare con il paziente in modo chiaro e comprensibile
  • Conoscere il proprio BIAS cioè la tendenza a percepire un livello minore o maggiore di patologia rispetto a quello presente

La decisione di andare da uno specialista viene dopo un ragionamento diagnostico, o da pressioni ambientali, un caso particolare è rappresentato da quelle persone che vanno dallo psicologo dopo varie esperienze e voglio avere un nuovo parere;in linea generale il paziente è ben disposto perché vuole risolvere un problema anche se a volte è imbarazzante raccontarlo.

Il paziente che si autoinvita di solito arriva dopo un ragionamento diagnostico, è possibile che abbia trovato una causa inorganica alla sua sofferenza o una concausa organica e inorganica così come un disagio che non sa classificare. Ci sono differenza tra pazienti che sono alla prima esperienza e quelli insoddisfatti da esperienze precedenti, i primi possono essere:

  1. Perplessi rispetto al consulto
  2. Disorientato perché ha un problema psichico
  3. Avvilito perché deve chiedere aiuto e la buona volontà non basta
  4. Colpevolizzato
  5. Disorientato dalle informazioni che riceve
  6. Imbarazzato

I secondi spesso avvertono una discrepanza di opinioni con il precedente analista rispetto alla diagnosi e al trattamento, l’insoddisfazione può essere  solo del paziente ma anche dei familiari e essere imputata a vari fattori:

  • Paziente e psicologo hanno modelli interpretativi diversi
  • Paziente e clinico divergono sui rimedi da utilizzare
  • paziente e psicologo hanno aspettative diverse rispetto ai risultati
  • il paziente vuole risultati immediati e questo non è possibile
  • paziente e clinico non sono d’accordo sulla gravità dei risultati
  • il paziente è insoddisfatto del risultato globale
  • il paziente è soddisfatto del precedente risultato precedente ma non su tutti i problemi

Non bisogna dimenticare le richieste implicite.

Diverso discorso è per i pazienti inviati dai familiari in questo caso sono loro ad aver fatto un ragionamento diagnostico, il paziente può essere concorde con loro o completamente in disaccordo; è sempre importante analizzare gli antecedenti così come conoscere:

  1. il ragionamento clinico fatto dai familiari
  2. il ragionamento clinico del paziente
  3. se il paziente per qualche motivo rifiuta la terapia

il paziente inviato da un collega è un altro caso, in questo caso il paziente può:

  • concordare con l’analisi precedente ma volere un parere diverso
  • essere a disagio con il terapeuta precedente
  • essere in disaccordo con l’invio ma non poterlo evitare
  • essere in disaccordo perché ha un’idea di cura ma non essere riuscito a esprimerla
  • l’inviante non sa risolvere l suo caso
  • Bisogna scoprire se condivide l’invio e il rapporto con l’inviante.

Bisogna capire se l’invio è corretto per non improvvisarsi in ruoli che non competono lo psicologo, se l’invio è corretto bisogna differenziare i pazienti che vengono volontariamente e i TSO, nel primo caso bisogna vedere se la disponibilità è solo apparente, nel secondo caso rientrano molti casi tutti accomunati dal tema dell’alleanza che in diventa difficile da trovare.

Diverso è il caso in cui l’inviante vuole un parere, anche qui il paziente può essere indispettito e faticare a trovare un’alleanza col terapeuta, la consultazione sembra un esame e la diagnosi un giudizio; bisogna stare molto attenti ai pazienti che recitano per compiacere lo psicologo.

Il primo colloquio serve per conoscere il paziente, per capire il suo problema, non esistono tempi standard ma tempi ottimali ricordando sempre che  la situazione del primo colloquio può durare alcuni minuti ma anche delle ore.

Durante il colloquio vengono fuori elementi utili per la diagnosi, non esiste un colloquio muto, se non riusciamo a raccogliere informazioni:

  1. Il colloquio è stato condotto male: il terapeuta non sa utilizzare in modo appropriato gli ostacoli relazionali che vengono fuori durante il colloquio, che avviene o per poca esperienza o per l’assetto emotivo-cognitivo con il quale il terapeuta utilizza le tecniche a sua disposizione.
  2. Il clinico non sa leggere i dati in suo possesso: forse per colpa di un uso aprioristico di un modello;
  3. Il paziente non ha le informazioni che il clinico gli chiede: può  darsi che il paziente non abbia mai riflettuto sui suoi problemi e non sa metterli in relazione con altri eventi; può anche darsi che un particolare clima emotivo eserciti sul terapeuta dei sentimenti che gli impediscono di leggere i dati;

Vediamo le variabili che determinano la modalità di conduzione del colloquio:

  • Gravità della situazione clinica del paziente: differenziando tra situazioni acute e croniche che richiedono modalità specifiche di conduzione; chi presenta sintomatologie acute deve venire differenziato tra crisi psicologiche (il soggetto vive uno stato di sofferenza ma senza subire una destrutturazione) e crisi psichiatriche ( il paziente soffre talmente tanto che non riesce ad usare le sue capacità)

Durante il colloquio bisogna trovare il maggior numero di informazioni nel più breve tempo  possibile mantenendo una buona alleanza; il terapeuta deve trovare risposte ai seguenti quesiti:

  1. il paziente è un buon interlocutore o bisogna sentire anche altre persone;
  2. c’è bisogno dell’intervento di un altro specialista?
  3. il paziente è in grado di assicurare un’adeguata compliance?(= adesione motivata alle indicazioni, non solo farmacologiche)
  • L’effetto della psicopatologia del paziente sul clinico e sulla conduzione del colloquio: alcuni tipi di patologie del paziente possono indurre il terapeuta a comportarsi in un determinato modo condizionando la diagnosi, le reazioni emotive del clinico possono essere raggruppate nel seguente modo:
  1. reazioni al paziente comuni e generalizzate in una sorta di contagio emotivo non sempre è lineare ma può esercitare reazioni sull’autostima  o sul funzionamento personale del terapeuta.
  2. reazioni a quel particolare paziente in modo specifico
    • Livello di formazione e capacità tecniche di chi conduce il colloquio: il primo incontro fa nascere ansia non solo nel paziente ma anche nel clinico che entrambi gestiscono con le operazioni di sicurezza che non sono altro che meccanismi di difesa, eccone degli esempi: cercare di mostrarsi sempre intelligente,assumere una posizione inquisitoria…………… la reazione d’ansia del paziente viene controllata meglio da un clinico con esperienza la cui competenza tecnica gli permette di affrontare il problema con una certa elasticità….

L’ansia produce anche alcuni effetti specifici:

  1. diminuita sensibilità ai contenuti del paziente che lo induce ad una reattività che rende la comunicazione difficile
  2. una valutazione inadeguata dell’effetto che il clinico ha sul paziente
  3. lettura parziale degli elementi psicopatologici
  4. necessità di intervenire in continuazione
  5. assunzione di una posizione di passività

L’alleanza diagnostica è di fondamentale importanza in un rapporto terapeutico e prevede che entrambi abbiano un ruolo, non si instaura automaticamente ma i vuole volontà da entrambe le parti, ci possono essere delle fratture dell’alleanza a cui paziente e clinico devono lavorare, non è indispensabile che queste fratture siano segnalate solo dal terapeuta. La costruzione dell’alleanza dilata i tempi del processo diagnostico ma è il prezzo da pagare, l’alleanza può anche essere costruita sulla diffidenza e la sfiducia.

Gli elementi informativi possono venire direttamente dal paziente con quello che dice o inferiti dall’abbigliamento e da altri particolari. Il valore attribuito a questi cambia a seconda della patologia del paziente. Il clinico si deve chiedere:

  1. quali informazioni sono importanti per la comprensione del disturbo
  2. tra le informazioni quali vanno tralasciate
  3. quanto e quando fare domande

Bisogna ricordare che le informazioni possono essere esaurienti parziali o consapevolmente o inconsapevolmente distorte.

Bisogna stare molto attenti anche al tono dell’umore mostrato dal paziente e non scambiarlo per altro ricordandosi che i sentimenti e le emozioni espressi dal paziente sono correlati:

  1. al suoi stato psicologico
  2. eventi stressanti che lo hanno condotto alla crisi
  3. tolleranza alla malattia
  4. difficoltà a chiedere aiuto
  5. relazione con il clinico
  6. la  fiducia o diffidenza nei confronti della terapia
  7. ansietà rispetto al futuro
  8. ansietà nel contesto familiare

Anche il funzionamento mentale è implicato nel processo diagnostico, Maxmen (1986) ha proposto uno schema da seguire per l’osservazione dei disturbi mentali: qualità di pensiero, qualità di associazioni, contenuto di pensiero e capacità di astrazione  (gli psicotici sono carenti in questa capacità) è ovvio che ogni patologia ha uno specifico funzionamento mentale che il clinico deve conoscere, così come deve sapere quali strumenti usare con ogni tipo di patologia. Andreasen (1983) per quanto riguarda  il delirio di persecuzione propone le seguenti domande: ha mai avuto problemi ad andare d’accordo con le altre persone?, le è mai parso che gli altri fossero ostili?; nessuno ha mai tentato di danneggiarla?; perché le persone tramano contro di lei?

per quanto riguarda le modalità d’interazione con il paziente bisogna vedere come questo si relaziona con il racconto del suo vissuto e con il clinico; tenendo anche conto che il paziente può mettere in atto delle misure di sicurezza. La modalità d’interazione del paziente si può verificare con tutti, solo con il clinico o solo nella situazione diagnostica.

I contenuti possono essere poco chiari e questo può provocare delle difficoltà nell’interazione.

I pazienti non sono l’unica fonte d’informazione per il clinico ma anche amici, familiari e colleghi…..possono essere molto utili, a volte poi ci sono casi particolari in cui è utile avere informazioni da terzi, in particolare dai familiari, come con bambini, adolescenti e adulti che a causa della loro patologia non sono attendibili (Morrison ,1983).

Nella maggior parte dei casi i familiari sono interpellati quando il paziente ha dato il suo consenso,  le aree da indagare sono molte.

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