Disturbo Borderline di Personalità: un deficit nella capacità di mentalizzazione
di Anna del Torto
3.1 Disturbo Borderline di Personalità: un deficit nella capacità di mentalizzazione
Fonagy ha costruito un modello basato sulla mentalizzazione[1] derivato dalla teoria dell’attaccamento per spiegare alcune caratteristiche del Disturbo Borderline di Personalità: vede come nucleo problematico fondamentale del BDP il deficit di mentalizzazione.
La mentalizzazione implica l’attribuzione di un significato alle proprie azioni e a quelle degli altri in base agli stati mentali intenzionali come i desideri, i sentimenti e le credenze. Ci consente di capire cosa è nella mente e di comprendere i propri e altrui stati mentali, ed è una capacità fondamentale in quanto converge nello sviluppo del Sé come agente ovvero nello sviluppo della rappresentazione del Sé (Bateman e Fonagy, 2006).
Secondo Fonagy la mentalizzazione è una capacità che si sviluppa nel bambino a partire da una relazione di attaccamento sicuro nell’infanzia.
Infatti il neonato, per realizzare una normale esperienza del proprio Sé, ha bisogno che i suoi segnali emotivi incontrino un rispecchiamento preciso o contingente da parte della figura d’accudimento.
Comprendere il comportamento degli altri nei termini di pensieri, sentimenti e desideri rappresenta una conquista evolutiva fondamentale che nasce nel contesto delle relazioni di attaccamento (Bateman e Fonagy, 2006).
Una mole crescente di ricerca empirica evidenzia una correlazione tra mentalizzazione e attaccamento. La consapevolezza del caregiver degli stati mentali del suo bambino viene considerata sempre più un fattore predittivo dello svilupparsi di un attaccamento sicuro.
Una prova diretta di questa tesi è stata offerta da Elizabeth Meins e dai i suoi collaboratori. Questi autori hanno fatto un’analisi del contenuto del linguaggio di madri in interazione con i loro bambini all’età di 6 mesi e hanno codificato il numero di commenti della madre che riguardassero gli stati mentali del piccolo, il coinvolgimento emotivo del bambino e commenti sui processi mentali del bambino. Questi commenti poi sono stati classificati come appropriati nel caso in cui un siglatore indipendente convenisse sul fatto che la madre avesse interpretato in modo coerente lo stato mentale del bambino. La proporzione di questi commenti appropriati era strettamente connessa ad un attaccamento sicuro osservato nel bambino 6 mesi più tardi (Meins et al., 2001, cit. in Bateman e Fonagy, 2004).
Ma naturalmente, l’inverso dell’associazione tra buone capacità mentalizzanti del caregiver e attaccamento sicuro è che bassi livelli di mentalizzazione del genitore generano un attaccamento insicuro e molto probabilmente disorganizzato (Bateman e Fonagy, 2006).
Fonagy e colleghi hanno raccolto diverse prove che suggeriscono come l’assenza di un rispecchiamento contingente sia associata allo sviluppo di un attaccamento disorganizzato: quando un bambino non ha un genitore che sia in grado di riconoscere e di rispondere ai suoi stati interni, troverà molto difficile attribuire un senso alla propria esperienza e di conseguenza interiorizzerà l’immagine del caregiver come parte della propria rappresentazione di sé (Bateman e Fonagy, 2006).
Gli autori hanno chiamato Sé alieno questa discontinuità interna al Sé che causerà appunto disorganizzazione, frammentazione e incoerenza nel Sé del bambino che sarà a sua volta la causa, nell’età adulta, dei temporanei fallimenti della mentalizzazione.
Il fallimento di questa capacità provoca la ricomparsa di modalità pre-mentalistiche di soggettività che, insieme a un collasso della capacità di mentalizzazione, generano la sintomatologia del Disturbo Borderline di Personalità.
Secondo questo modello molta della fenomenologia del BPD viene vista come la conseguenza di un’inibizione della mentalizzazione connessa all’attaccamento e della costante pressione verso un identificazione proiettiva, ovvero la ri-esternalizzazione del Sé alieno autodistruttivo (Bateman e Fonagy, 2006).
Secondo Fonagy tra i tratti principali che caratterizzano questo disturbo troviamo la prevalenza di una modalità funzionale di equivalenza psichica, la ricomparsa della modalità del far finta, un pensiero che si declina in una modalità teleologica e il generale fallimento della mentalizzazione.
In realtà, le prime tre le vede come una conseguenza del temporaneo fallimento della mentalizzazione.
Secondo l’autore i soggetti con Disturbo Borderline di Personalità hanno una buona capacità di mentalizzare finché non si entri nel contesto delle relazioni di attaccamento.
Essi tendono a interpretare male la mente, sia propria che altrui, quando si trovano in una situazione di forte attivazione emozionale, causando un repentino decadimento della capacità di pensare gli stati mentali dell’altro (Bateman e Fonagy, 2006) .
Quando questo accade riaffiorano le modalità prementali di organizzazione dell’esperienza soggettiva, facendo si che la mentalizzazione ceda il posto all’equivalenza psichica.
Qui non esistono alternative possibili. C’è una sospensione dell’esperienza del come se e tutto diventa come vero.
Processi di pensiero rigidi e inflessibili, una sbagliata convinzione di essere nel giusto, la pretesa infondata di sapere i pensieri dell’altro sono solo alcune caratteristiche che confermano l’insorgenza dell’equivalenza psichica in questi pazienti (Bateman e Fonagy, 2006).
Sotto questa fenomenologia c’è la credenza secondo la quale realtà esterna ed interna sono equivalenti. E’ la mancanza di qualsiasi capacità di mettere in dubbio la veridicità e i limiti del proprio pensiero a giocare un ruolo fondamentale (Bateman e Fonagy, 2006).
Per quanto riguarda la modalità del far finta, la sua essenza sta nella separazione tra realtà psicologica e realtà fisica tanto da rendere impossibile qualsiasi contatto tra le due: realtà fisica e costruzione mentale sono totalmente slegate (Bateman e Fonagy, 2006).
I discorsi dei pazienti con BPD, che si trovano nella modalità del far finta, sembrano accennare ad una capacità mentalizzante ma gli stati mentali descritti non presentano nessuna implicazione reale.
Fonagy e Bateman (2006) si riferiscono a questo tipo di funzionamento psichico con il termine di pseudomentalizzazione.
In pratica l’eloquio ha solo l’apparenza di una comunicazione, ma l’interazione ne risulta assolutamente priva di significato.
Sostanzialmente in questi pazienti, con questo tipo di funzionamento del far finta, le idee non riescono a colmare il vuoto di significato che queste persone vivono, e questo le costringe a passare ripetutamente dall’una all’altra (Bateman e Fonagy 2006).
La modalità di funzionamento della propria esperienza soggettiva più primitiva e drastica è la modalità teleologica, nella quale i cambiamenti degli stati mentali sono considerati reali solo se confermati da un’azione fisica osservabile e contingente alle credenze, desideri e sentimenti del paziente (Bateman e Fonagy, 2006).
In questa modalità di funzionamento psichico impera il primato del concreto e l’esperienza è sentita come valida solo quando le sue conseguenze sono visibili a tutti.
Questi problemi, secondo gli autori, sorgono appunto come conseguenza di un temporaneo fallimento della capacità di mentalizzazione: codesti pazienti sono costretti ad un tale funzionamento improntato all’equivalenza psichica, al far finta o alla modalità teleologica perché hanno perduto parte della loro capacità di concepire gli stati mentali, propri e altrui (Bateman e Fonagy, 2006).
Tutto ciò porta e riesce a spiegare le difficoltà legate alle relazioni interpersonali, che rappresentano un aspetto fondamentale del Disturbo Borderline di Personalità, caratterizzate da tentativi di suicidio, gesti autolesivi e violenti (Bateman e Fonagy, 2006).
[1] La mentalizzazione implica la capacità di focalizzarsi sui propri stati mentali o su quegli degli altri, in particolare nelle spiegazioni del comportamento.
E’ un processo sostanzialmente preconscio di rappresentazione mentale. E’ rappresentazionale perché si deve immaginare quel che gli altri potrebbero star pensando o provando.[…]
Mentalizzare ci aiuta a regolare le nostre emozioni; le emozioni sono direttamente connesse alla nostra capacità di avverare o meno particolari desideri o propositi (Bateman e Fonagy, 2006).
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