L’empatia nel neonato: un viaggio alle radici dell’empatia
Benché gli infanti e i bambini più piccoli non posseggano molte di queste capacità cognitive, essi possono provare empatia grazie ai meccanismi di attivazione elementari (mimesi, condizionamento classico e associazione).
Praticamente, dal giorno stesso della nascita i neonati sono turbati e contagiati dal pianto di un altro bambino, una reazione che alcuni considerano come il precursore dell’empatia.
Il primo studio controllato sul pianto denominato “ reattivo” è stato quello di Simner (1971), che lo ha osservato in bambini di due e tre giorni di vita. Egli ha dimostrato anche che la causa del pianto reattivo non è l’intensità del pianto dell’altro bambino, poiché i bambini non rispondevano allo stesso modo all’ascolto di un grido di pari intensità prodotto da un sintetizzatore digitale.
I risultati di Simner sono stati replicati in bambini di un solo giorno di vita da Sagi e Hoffman (1976), che hanno osservato anche che il pianto reattivo non è privo di una componente affettiva; è energico, intenso e indistinguibile dal pianto spontaneo di un bambino realmente afflitto.
Il meccanismo psicologico che ne è alla base potrebbe essere una forma di mimesi nella quale il neonato imita automaticamente il pianto di un altro bambino, dopo di che il suono del pianto e i cambiamenti che si producono nella configurazione dei suoi muscoli facciali avviano un processo di retroazione che lo mette in agitazione.
Il pianto reattivo può essere anche una risposta condizionata. I bambini possono acquisire per condizionamento un sentimento empatico di sofferenza quando osservano una persona che soffre e al tempo stesso hanno, indipendentemente, un’esperienza personale di sofferenza (sulla base dei principi del condizionamento classico).
Questa associazione tra la sofferenza reale di una persona e la sofferenza espressa dall’altra è inevitabile soprattutto nel rapporto madre-figlio/a nel primo anno di vita. Ma vi è anche un’altra possibilità: l’associazione, una variante del paradigma del condizionamento. I segnali della situazione della vittima ricordano all’osservatore esperienze simili vissute in passato e suscitano in lui emozioni corrispondenti a quella situazione.
La spiegazione psicologica più plausibile, a giudizio di Hoffman, è una combinazione dei processi di mimesi e condizionamento, coadiuvati dall’associazione.
Indipendentemente dalla causa, il neonato risponde a un segnale di sofferenza di un’altra persona provando a sua volta sofferenza. Il pianto deve perciò essere considerato un precursore primitivo ed elementare della sofferenza empatica.
Ci si potrebbe aspettare che il pianto reattivo del neonato sia limitato ai primi mesi di vita e che scompaia col nascere nel bambino della coscienza di sé e degli altri come esseri distinti, intorno ai sei mesi di età. Questa supposta diminuzione della sensibilità è stata confermata da uno studio di Hay, Nash e Pedersen (1981), nel quale erano tenute sotto osservazione dodici coppie di bambini di 6 mesi che interagivano in una stanza dei giochi, allestita in laboratorio, in presenza delle madri.
La scoperta principale fu che quando un bambino era afflitto, l’altro quasi sempre lo osservava, ma di rado piangeva o era a sua volta afflitto. Vi era però un effetto cumulativo: dopo aver visto più volte un bambino afflitto, anche l’altro bambino si affliggeva e cominciava a piangere.
A 6 mesi, appena prima di scoppiare in lacrime, il bambino ha uno sguardo triste e increspa le labbra, proprio come i bambini di quell’età quando sono realmente afflitti, segno dell’emergere della sua capacità di controllare le emozioni.
E’ notevole che Darwin (1877), che aveva osservato attentamente le risposte facciali ed emozionali del figlio fin dalla nascita, scriva qualcosa di simile, cioè che a sei mesi e undici giorni dimostrava in modo esplicito comprensione simpatetica per la sua balia, che fingeva di piangere.
I bambini non rispondono più automaticamente al pianto altrui, perché l’altro bambino sta diventando ormai un vero e proprio altro, che essi percepiscono, almeno vagamente, come un’entità fisicamente distinta da loro. Perché il bambino provi a sua volta sofferenza è ora necessario che i segnali di sofferenza altrui abbiano una durata maggiore.
Alla fine del primo anno, il bambino risponde ancora alla sofferenza di un altro bambino suo coetaneo incupendosi in viso, increspando le labbra e poi scoppiando a piangere, ma adesso può anche mettersi a piagnucolare e a guardare silenziosamente l’altro bambino (Radke-Yarrow e Zahn-Waxler, 1984).
La maggior parte dei bambini, benché alcuni prima di altri, cominciano a reagire meno passivamente alla sofferenza altrui e adottano comportamenti chiaramente diretti a ridurre la propria sofferenza. Kaplan (1977) ci riporta l’esempio di una bambina di 9 mesi che aveva mostrato, in passato, intense reazioni empatiche di fronte alla sofferenza di altri bambini. Di solito in questi casi non distoglieva lo
sguardo dalla scena, benché ne fosse evidentemente turbata.
Quando un altro bambino cadeva, si faceva male o piangeva, la bambina restava a fissarlo, con gli occhi pieni di lacrime. In quei momenti era sopraffatta dall’emozione, e finiva per scoppiare a piangere e a camminare verso la madre per essere consolata. La situazione fa soffrire la bambina, la quale cerca conforto così come fa d’abitudine quando soffre.
Riassumendo, verso la fine del primo anno la sofferenza empatica è ancora egocentrica, perché nel bambino è presente, in linea con le teorie di Piaget sullo sviluppo cognitivo, una forma di pensiero rigidamente egocentrico in base alla quale il bambino percepisce tutto ciò che gli accade come riferito a sé stesso.
In una ricerca condotta Hoffman (2006) alla New York University, ad esempio, un bambino di un anno portò la propria madre da un amichetto che piangeva affinché lo confortasse, ignorando la madre del bambino, che si trovava anch’essa nella stanza, segno di una sofferenza empatica quasi egocentrica. Questa confusione si osserva anche quando, intorno a un anno di età, i bambini imitano
la sofferenza altrui, forse per meglio comprendere ciò che l’altro sta provando; ad esempio, se una bambina si fa male alle dita, un’altra bambina di un anno potrebbe mettersi la mano in bocca per vedere se fa male anche a lei.
Questo mimetismo motorio, come viene chiamato, è il significato tecnico originale della parola empatia, nell’accezione in cui essa venne usata per la prima volta negli anni Venti da E.B.Titchener, uno psicologo americano. (Il significato è leggermente diverso da quello con il quale la parola greca empatheia, sentire dentro, venne originariamente introdotta nell’inglese: si trattava di un termine inizialmente usato dai teorici dell’estetica per indicare la capacità di percepire l’esperienza soggettiva altrui).
Egli cercava una parola che fosse distinta da simpatia, la benevola compassione che si può provare per la sofferenza altrui ma che non comporta alcuna condivisione. Il mimetismo motorio svanisce dal repertorio dei bambini quando i primi approcci di stabilire un contatto fisico (dare colpetti, toccare), cedono il passo ad interventi positivi più differenziati: baci, abbracci, aiuto fisico, richieste d’aiuto ad altre persone, consigli e conforto simpatetico (Radke-Yarrow e Zahn-Waxler, 1984).
E’ evidente che sebbene i bambini si limitino ancora, in gran parte, alle forme di attivazione empatica preverbali, sono adesso meno legati al loro sé cinestetico e soggettivo, e più ancorati, per via cognitiva, alla realtà esterna. Benché ancora manchi loro il senso del proprio corpo come oggetto che è possibile rappresentare fuori del sé soggettivo (fino ai 18-24 mesi, essi sono incapaci di riconoscere la propria
immagine allo specchio), sono però sulla strada per conseguirlo (quando un oggetto in movimento appare nello specchio alle loro spalle allungano la mano dietro di sé), e sanno che gli altri sono entità fisiche separate (Baillargeon 1987; Lewis e Brooks-Gunn 1979). Possono pertanto rendersi conto che l’altro avverte dolore o sofferenza, e le loro azioni sono chiaramente dirette ad aiutarlo.
Essi non sanno che i loro desideri sono in relazione con il mondo circostante, e suppongono che gli altri vedano le cose così come le vedono loro. Sanno che l’altro soffre, ma sono ancora troppo egocentrici per usare tipi di aiuto che non siano quelli da cui loro stessi ricevono conforto.
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