I canoni di bellezza nella storia: il caso dei disturbi alimentari

Alla corporatura è stato connotato valore diverso nelle varie culture umane a seconda del contesto storico e sociale predominante.

Dal vaglio dei dati transculturali e storici, si possono enucleare i due maggiori fattori che hanno contribuito al processo di valorizzazione corporea.

Il primo fattore è collegato alle funzioni fisiche legate alla sopravvivenza, il grasso era di fondamentale importanza nelle donne come sostegno alla gravidanza e all’allattamento e per gli uomini valido aiuto nella fredda stagione aiutandoli nel sopportare i lavori all’aria aperta.

Il secondo fattore è di ordine economico, il grasso è bello nelle società in cui le risorse e le ricchezze sono limitate, il corpo grasso diviene così oggetto di ammirazione in quanto icona di ricchezza e scorte abbondanti.

I canoni di bellezza in Africa Centrale

In tali contesti la grassezza viene incentivata, come testimoniano gli arcaici rituali diffusi in Africa centrale e orientale, quali “le cerimonie di ingrasso” o “le capanne per l’ingrasso”, dove le ragazze neo-puberi venivano sottoposte ad un regime di supernutrizione prima di essere presentate alla comunità.

Sebbene la spiegazione genetico/economica possa far luce sulle differenti visioni del corpo, presa a se stante risulta semplicistica e riduzionista, considerando inoltre che, la magrezza e i lineamenti sottili hanno spesso avuto una valenza culturale desiderabile come sinonimo di eleganza e giovinezza, ritenuta dote appetibile anche nei periodi di scarsità di cibo come nella piccola glaciazione europea del Tardo Medioevo o fra i Gange Etiopi.

L’aspetto corporeo e la sua sagoma hanno una valenza molto più profonda che il semplice canone di bellezza culturale in quanto aspetto organico di notevole rilevanza psicologica, costituisce il meccanismo di separazione tra ambiente organico interno nella sua presunta stabilità e l’ambiente esterno percepito instabile, è inoltre l’unica parte di sè completamente accessibile all’osservazione esterna.

Non sorprende quindi come la mole corporea sia stata spesso considerata lo specchio dell’anima.

Dando uno sguardo alle varie epoche che si sono susseguite si osserva chiaramente come la cultura abbia da sempre imposto prototipi di corporatura: nelle prime fonti storiche come l’Illiade e l’ Odissea vengono celebrate figure di gran coraggio associate a forma fisica possente e muscolosa.

I canoni di bellezza nell’Antica Grecia

Dall’Antica Grecia ci arrivano due tipologie contrapposte in relazione allo stile di vita imperante: ad Atene, città dedita alla filosofia e alla vita nell’agorà, il cittadino medio è raffigurato panciuto e dedito all’ingordigia; nella vicina Sparta, fondata sulla potenza militare, la corporatura celebrata era atletica, muscolosa, snella e pronta alla battaglia.

Un ulteriore aspetto indissolubilmente legato all’immagine corporea e influenzato dalla cultura è la pratica dell’alimentazione che nelle varie epoche si è sempre più allontanata dalla meccanica attività nutritiva. Le modalità alimentari non rappresentano più solo il soddisfacimento di un bisogno primario ed esistenziale, esse costituiscono uno degli emblemi del salto evolutivo che contrappone l’uomo agli altri regni animali, slegandolo dall’irrevocabile determinismo naturale, ed elevandolo a un sistema e ambiente culturale entro cui abbandona l’istinto e sviluppa le sue peculiari preferenze (Cardamone, Inglese, Zorzetto, 1999).

Le modalità di ricerca, preparazione e assunzione del cibo esprimono una precisa visione del mondo e una relazione temperata con il mondo animale e vegetale rilevando al contempo la complessiva organizzazione sociale.

Il rito del pasto, nelle varie culture ha assunto funzioni complesse con implicazioni edonistiche[1], religiose e collettive quali:

  • la socializzazione
  • il rinforzo dei legami di appartenenza
  • il rispetto delle gerarchie sociali e le regole matrimoniali, delineando attraverso il pasto
  • la fisionomia dei sistemi di chiusura o apertura dei vari mondi culturali (Levi Strauss 1962, 1964, 1998).

I canoni di bellezza nell’Antica Roma

Durante l’apice dell’impero romano di osserva una stridente differenza tra il popolo affamato e la nobiltà che  aveva cibo in eccesso; i banchetti romani divennero sempre più sfarzosi e abbondanti con svariate pietanze esotiche, è qui che la pratica alimentare perde il suo fine nutritivo sostituito da quello voluttuoso.

Gli uomini patrizi praticavano la iperalimentazione fino alla saturazione a cui seguiva vomito in un apposito settore detto vomitorium, per poi una volta svuotato lo stomaco riprendere a mangiare pietanze.

Questo insolito rituale alimentare ricorda l’attuale pratica bulimica con iperalimentazione e condotte compensatorie, anche se non può essere definita una sua  diretta antenata in quanto lo scopo dello svuotamento non era in relazione alla paura di ingrassare ma per liberarsi lo stomaco così da poter ricominciare a mangiare. L’alimentazione si presta a un compito ancora più strategico nel digiuno, che ha assunto connotati altri rispetto alla semplice astensione, divenuto dimostrazione di grande forza d’animo e coraggio, esibito in contesti variegati come in politica o in religione (Gordon, 1991).

Nei documenti storici, si riportano numerosi casi di donne che hanno dato prova di forza attraverso l’inedia autoindotta di matrice mistica, nasce da questa prospettiva il tentativo di una possibile lettura etnopsichiatrica dell’anoressia nervosa; lettura che fa ricorso alla categoria devereuxiana di disturbo sacro.

Il ragionamento comparativo diacronico che seguirà, tra l’anoressia nervosa contemporanea e le manifestazioni ascetiche tardo medioevali, non vuole di certo sostenere la sovrapponibilità dei due fenomeni, l’intento è individuare fin dove possibile, delle corrispondenze così da rilevare i possibili elementi culturali attivi in entrambi i casi, un’analisi delle forze individuali e culturali interagenti sul medesimo piano di coesistenza e che possono determinare una medesima configurazione di sofferenza (Bell, 1995).

La privazione del cibo nell’ascetismo cristiano, il punto di vista di Platone

L’ascetismo cristiano trae le sue origini dalle teorie di Platone, secondo cui il ricongiungimento con il divino poteva raggiungersi soltanto con l’emancipazione dal mondo dei sensi, ottenuta attraverso la privazione del cibo e di altre necessità terrene.

Alcuni psichiatri moderni come Walter Vandereycken e Ron Van Deth (1995) hanno ipotizzato che molti casi di sante ascetiche possano essere interpretati come antesignani delle attuali forme di anoressia restrittiva, riscontrando nelle narrazioni di molti casi, delle analogie con i caratteri distintivi di questa patologia. In questo contesto Banks (1992 – 1997) riporta l’analisi di due casi di anoressia nervosa nell’America ipermoderna che poggiano le loro fondamenta proprio nella religione cristiana, in particolare l’autrice evidenza come le motivazioni culturali usate dalle anoressiche possano ricollegarsi in maniera più affine alle pratiche di rinuncia mistica e non esclusivamente ai canoni di bellezza occidentali.

Il digiuno è visto come metodo per controllare il proprio corpo

Prendendo in considerazione i punti di vista delle pazienti non influenzati dal pensiero biomedico si osserva come esse vedano il digiuno come tentativo di raggiungere un controllo del corpo, più che per raggiungere un’ideale estetico; l’autrice ritrova dunque nell’attuale anoressia nervosa una forte componente ascetica.

Il connubio cibo peccato nella visione cristiana

Il connubio cibo peccato è un’associazione presente fin dai tempi molto antichi, nel Nuovo Testamento si ritrovano digiuni pubblici per placare l’ira divina, il cibo molto spesso è associato a trasgressione e ingordigia, del resto è a causa del irresistibile morso ad una mela che l’uomo è condannato alle sofferenze della vita terrena. Ancora oggi nei paesi musulmani si ritrova la pratica del Ramadan, un mese nel quale i fedeli sono invitati all’astinenza di comportamenti peccaminosi, astensione dal sesso, dal fumo, dalla bestemmia ed è singolare che il cibo sia inserito tra i divieti imposti tra l’alba e il tramonto.

Nel complesso e variegato quadro del digiuno religioso si possono riconoscere i tratti comuni che ripongono l’attenzione su alcuni connotati che hanno assunto i disturbi alimentari:  la funzione di espiazione dei peccati espletata dal digiuno ed al tempo stesso la natura destabilizzatrice che il digiuno provoca in ogni comunità.

I canoni di bellezza nel Medioevo, la pratica del digiuno

È vero infatti che il digiuno proclamato come purificazione dell’anima, era al contempo condannato nel Medioevo come atto di superbia, la ragione può risiedere nel susseguirsi di situazioni di carestia avvenute nel corso della storia, è comprensibile quindi l’inquietudine che suscitavano nella comunità, coloro che decidevano volontariamente di non cibarsi.

Il loro comportamento poneva gli altri in una sorta di destrutturazione cognitiva e destabilizzazione, come accade oggi di fronte a un corpo anoressico, proprio perché si disdegna quello a cui tutti aspirano, nutrimento e buona salute.

Il concetto di anormalità dipende dalla cultura

Tenendo in considerazione che il concetto di a-normalità dipende dalla cultura e dal contesto storico in cui si è osservato il modello comportamentale, e non volendo associare l’inedia auto indotta all’anoressia, è forte l’analogia fra i due fenomeni prevalentemente femminili, vissuti come espiazione e segno di forza dalle praticanti, nonché condannati dalla società.

Quello che colpisce è l’identificazione della persona con l’atto del digiunare e l’autocompiacimento narcisistico che le eleva a sante o anoressiche. L’anoressica, di fronte alla fragilità del proprio Io e alla incomprensione del proprio sistema sensoriale, trova nel controllo dell’ingestione del cibo,un’esperienza di continuità e di coerenza che permette un senso di coesione del Sé (Guidiano, 1996). Il comportamento delle sante medioevali si iscriveva nella cornice della rigorosa fede religiosa condivisa dalla cultura del tempo ma portata all’estremo, anche le anoressiche contemporanee si iscrivono perfettamente nella cultura moderna della dieta e della linea ma portata anch’essa alla esasperazione.

Il digiuno come pratica spirituale per raggiungere i canoni di bellezza

Dunque appare chiaro che il digiuno è una pratica antica, che veniva e viene tuttora utilizzata  come strumento di autoaffermazione e difesa da un potere superiore.

Anima e Corpo sono comparsi ripetutamente nelle culture del passato per rappresentare insieme o tra loro opporre, ragioni di vita spirituale e materiale, drammatizzando spesso un’ anima imprigionata in un corpo, chiara è l’analogia al modello della psicopatologia dei disturbi del comportamento alimentare, fondata proprio sul drammatico confronto tra mente e corpo che crea la dissociazione somatopsicologica, tristemente caratterizzante della vita psichica delle pazienti anoressiche. Una visione dell’anoressia come condizione femminile purificata è quindi già storicamente presente, i disturbi alimentari si pongono quindi fin dall’antichità come categoria comportamentale atta a modificare, non solo il corpo, quanto la sua possibilità di espressione femminile e di potenzialità simbolica. Si pensi ad esempio ai sintomi secondari indotti dall’estrema scelta della magrezza, come la mancanza di cicli mestruali, icona della negazione alla sessualità che si affianca alla negazione del corpo sessuato; il tutto in assoluta aderenza con un’ideale estremo di rifiuto di qualsiasi forma di istintualità (Costa etc., 1996). L’alimentazione, si presta ad un compito ancora più strategico nel momento in cui, i modelli dell’incorporazione vengono ritualizzati per entrare in relazione con una particolare divinità, Freud (1912-13) fu il primo a ricondurre al rapporto con il sacro la plausibile ragione per cui la mediazione orale con la carne, il sangue e i vegetali, debba essere sempre preceduta e seguita da operazioni purificatorie e riparatorie. Nelle antiche tribù l’alimentazione non è mai frequente e distratta, ma viene sempre preparata con meticolosa attenzione, per scongiurare il rischio di precipitare nel caos primigenio della natura. Queste tracce di memoria antropologica le si ritrovano nelle preoccupazioni anoressiche concernenti sentimenti d’indegnità morale, di peccato, di orrore sacro, di metamorfosi somatica e di mutazione incombente della loro stessa natura. I racconti di queste pazienti richiamano un percorso ascensionale in cui il rapporto con il cibo incrocia le dimensioni dell’interdetto e del tabù, dell’indicibile doloroso, silenziosamente sperimentato (Steiner, 1980).

 

[1] Edonismo: der. Del gr, “piacere” – Concezione filosofica che riconosce come fine dell’azione umana il piacere; nella storia della filosofia è rappresentata soprattutto dalle dottrine dei filosofi greci Aristippo di Cirene e Epicuro. Per estens., qualsiasi atteggiamento del pensiero, o sistema di vita, che consideri come essenziale il conseguimento del piacere.

Questo articolo sui canoni di bellezza nella storia ed i relativi disturbi alimentari è di Alice Maggini.

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