La Comunicazione Non Verbale nell’Antica Grecia

Alcuni spunti sulla gestualità e sui movimenti scenici nella Medea di Euripide. Un articolo di Iacopo Santovincenzo

 

Quando pensiamo alla Medea di Euripide pensiamo ad un libro. Entriamo in una libreria e chiediamo un’edizione Bur o  Mondadori, con o senza traduzione a fronte. Poi torniamo a casa, ci sediamo e cominciamo a leggerlo. Forse saltiamo l’introduzione, forse no. Passiamo al titolo. Buttiamo l’occhio sui personaggi. Giriamo ancora una pagina. Ci siamo. Tra parentesi e in corsivo leggiamo: [entra la Nutrice]. E continuiamo la nostra lettura servendoci delle note a piè di pagina, utili per spiegarci alcuni dettagli che non ci sono molto chiari.

Della Medea, sia Euripide che gli Ateniesi a lui contemporanei avevano un’idea completamente diversa. Perché a volte dimentichiamo che la Medea era un’opera teatrale. Gli Ateniesi non la leggevano, la vedevano rappresentata sulla scena del teatro, un teatro che aveva delle regole molto diverse dal nostro ed era molto più povero del nostro (per esempio, c’era un numero limitato di attori, non c’erano le luci né delle scenografie complesse). E a teatro, così come al cinema, e diversamente dai libri che leggiamo, non sono importanti solo le parole: contano anche le musiche, i costumi, la danza, l’intonazione della voce, e, naturalmente, contano i gesti. E quali erano i gesti che mettevano in atto gli attori che recitavano la Medea? Non possiamo saperlo, anche perché le didascalie sceniche, quelle che nei testi teatrali oggi troviamo tra parentesi e in corsivo e che ci spiegano i movimenti degli attori, non c’erano affatto o erano “nascoste” nei versi[1]. Quindi dobbiamo rassegnarci ad aver perso molto di quello che, per i concittadini di Euripide, era la Medea. Qualcosa, però, possiamo ricostruire a partire dalle parole.

Vediamo degli  esempi.

 

  • VERSI  1069-1075

Nei versi 1069 – 1075 leggiamo:

παῖδας προσειπεῖν βούλομαι. — δότ΄͵ ὦ τέκνα͵

δότ΄ ἀσπάσασθαι μητρὶ δεξιὰν χέρα.

ὦ φιλτάτη χείρ͵ φίλτατον δέ μοι στόμα

καὶ σχῆμα καὶ πρόσωπον εὐγενὲς τέκνων͵

εὐδαιμονοῖτον͵ ἀλλ΄ ἐκεῖ· τὰ δ΄ ἐνθάδε

πατὴρ ἀφείλετ΄. ὦ γλυκεῖα προσβολή͵

ὦ μαλθακὸς χρὼς πνεῦμά θ΄ ἥδιστον τέκνων[2].

 

Questo momento della tragedia era certamente ancora più emozionante per uno spettatore di quanto lo sia per noi lettori. Sicuramente l’attore (maschio) che interpretava il ruolo di Medea compiva tutti i gesti che lei descrive. Ma c’è di più. Il gesto di baciare le mani, che esiste anche nella nostra cultura e che è, nella maggioranza dei casi, la galanteria di un uomo vecchio stile verso una signora, per i Greci aveva un significato diverso: era un gesto di supplica di un inferiore verso un superiore. Medea quindi, che stava per uccidere i suoi figli, fragili e impotenti davanti a lei, nel momento estremo compie un gesto che la fa sembrare per un attimo, vittima e non carnefice, e che dimostra come, nonostante la sua decisione di ucciderli, lei amasse disperatamente i suoi figli. Quanto doveva essere stato d’impatto questo gesto per uno spettatore greco,  quanto pathos in questa scena così importante!

 

  • VERSI 336- 339

Nella tragedia assistiamo poi ad una scena di supplica durante l’incontro tra Medea e Creonte. Medea cerca di guadagnare del tempo prima di dover andare in esilio così da poter mettere in atto i suoi propositi di vendetta. La donna mostra una grande abilità nel persuadere il suo interlocutore, abilità che probabilmente esercitava non solo con un sapiente uso delle parole, ma anche grazie alla gestualità. Cosa ci porta a pensare questo?

 

Μη. μὴ δῆτα τοῦτό γ΄͵ ἀλλά σ΄ αἰτοῦμαι͵ Κρέον .

Κρ. ὄχλον παρέξεις͵ ὡς ἔοικας͵ ὦ γύναι.

Μη. φευξούμεθ΄· οὐ τοῦθ΄ ἱκέτευσα σοῦ τυχεῖν.

Κρ. τί δαὶ βιάζῃ κοὐκ παλλάσσῃ χερός;

Μη. μίαν με μεῖναι τήνδ΄ ἔασον ἡμέραν

 

  1. Questo no! Ti supplico Creonte
  2. Creerai problemi, come sembra, o donna!
  3. Io andrò in esilio, non ho supplicato per ottenere questo da te.
  4. Perché, allora fai resistenza e non lasci la mia mano?
  5. Permettimi di rimanere questo solo giorno.

 

Al verso 339  Creonte dice: “Perché fai resistenza e non lasci la mia mano?”.

A voler essere precisi, sono stati alcuni studiosi ad aver corretto il testo originale, modificando la parola  χθονός (chthonόs) con la parola χερός (cheròs) (la traduzione sarebbe, nel primo caso: “…. e non lasci questo paese?”). Se accettiamo questa correzione il riferimento alle mani è ovvio. Tenere le mani era un gesto di supplica  che qui Medea usa in modo strumentale per guadagnare tempo.

Se non teniamo  conto  di  questa correzione e consideriamo  il significato: “perché non lasci questo paese” , è utile ricordare come, una volta uscito di scena Creonte, Medea resta sola con il coro e accenna nuovamente ai suoi propositi di vendetta. Ed è proprio per questi suoi scopi – dice Medea – che si è abbassata a blandire Creonte e a supplicarlo con le sue mani

 

Verso 370

οὐδ΄ ἂν προσεῖπον οὐδ΄ ἂν ἡψάμην χεροῖν

.. e non lo avrei toccato con le mie mani

Quindi in questi versi ci viene svelato il gesto che Medea avrebbe compiuto una trentina di versi prima.

Ulteriore indizio è poi costituito dalla Medea che Ennio scrisse ispirandosi ampiamente al dramma di Euripide. Cicerone, nel commentare questa tragedia enniana, rimase colpito proprio dalle mani dell’attore, dalla gestualità grazie alla quale persuase il malcapitato re di Corinto.

 

VERSI 496-498

L’importanza del contatto delle mani in contesti di supplica e di giuramenti è evocata   da Medea anche nei versi 496-498:

 

φεῦ δεξιὰ χείρ͵ ἧς σὺ πόλλ΄ ἐλαμβάνου͵

καὶ τῶνδε γονάτων͵ ὡς μάτην κεχρῴσμεθα

κακοῦ πρὸς ἀνδρός͵ ἐλπίδων δ΄ ἡμάρτομεν[3]

Medea quindi, durante il suo acceso dibattito con Giasone, sta ricordando ad alta voce le appassionate promesse che questi le aveva rivolto in passato, toccandole la mano destra e abbracciandole le ginocchia. Nel pronunciare questi versi, è probabile che Medea abbia dato ulteriore enfasi alle sue parole facendo convergere l’attenzione del pubblico sulla sua mano destra, magari sollevandola o afferrandosi il polso con la sinistra. In questi casi, però, non possiamo essere troppo precisi. Quel che è certo, è che anche Medea era stata a sua volta, in un momento della sua storia precedente a quello raccontato sulla scena da Euripide, vittima del potere persuasivo di questo tipo di gestualità.

 

VERSO 1008

Un altro esempio interessante di analisi dei gesti in tragedia, è al verso 1008. Il pedagogo dice: “Perché dunque guardi a terra e piangi così?”. In tutte le messe in scena moderne del dramma, l’attrice, naturalmente, piange. Così fa la Callas nel film girato da Pasolini. Faceva lo stesso anche in Grecia? In questo caso no! Perché l’attore aveva la maschera, e una maschera non può piangere. In questo caso quindi, il pianto di Medea era affidato alle parole del pedagogo e all’atteggiamento disperato e forse ai singhiozzi dell’attore-Medea. Cosa deduciamo da questo esempio? Le maschere impedivano agli attori non solo di piangere, ma anche di esprimere emozioni attraverso il viso. Questo dato è molto importante perché è sul viso che noi abbiamo il maggior numero dei muscoli del nostro corpo, e infatti è soprattutto attraverso le espressioni facciali che noi esprimiamo le nostre emozioni. Ed è proprio questo il principio che sfruttano le moderne emoticon, che tanta parte hanno nella nostra comunicazione quotidiana. Dal momento che gli attori Greci non avevano la possibilità di servirsi delle espressioni del volto, dovevano compensare con altri strumenti: certamente, con i gesti del corpo e con le modulazioni della voce, ovvero con il piano non verbale e paraverbale.

Uno dei momenti più drammatici della tragedia euripidea è senza dubbio l’uccisione dei bambini. Leggendo, tutti immaginiamo l’orrore del gesto compiuto dalla mano di Medea che infierisce su quei piccoli corpi. Certamente lo immagina il pittore che ha dipinto un famosissimo vaso risalente al 330 a.C. E invece è importantissimo sottolineare come il momento dell’uccisione dei bambini non avvenisse in scena. Gli spettatori sapevano che Medea li stava uccidendo perché se ne udivano le grida (si chiamano, appunta, grida retro sceniche). In Grecia, infatti, non era lecito rappresentare un’uccisione in scena per motivi di natura religiosa. Non dimentichiamo, infatti, che i festival teatrali erano in Grecia anche feste religiose.

Altro spunto interessante: dal momento che non sappiamo quali gesti effettivamente Euripide avesse pensato per la sua opera, i registi che la mettono in scena oggi fanno delle scelte personali e sempre diverse. Nello scegliere un gesto piuttosto che un altro (e lo stesso discorso vale per i costumi, per le musiche, per la traduzione…) compiono un’opera di interpretazione. Ed è sempre molto affascinante riflettere sui gesti con cui un regista mette in opera un dramma antico.

 

Bibliografia

Massimo Di Marco, La tragedia greca : forma, gioco scenico, tecniche drammatiche, Roma, 2000.

Leonardo Fiorentini, Le mani di Medea fra scena e testo (Enn. fr. 90 Manuwald),

«Dionysus ex machina» IV (2013), pp. 120-132.

Luigi Enrico Rossi, Livelli di lingua, gestualità, rapporti di spazio e situazione drammatica sulla scena attica, in Lia de Finis (a cura di), Scena e spettacolo nell’antichità: atti del Convegno internazionale di studio, Trento, 28-30 marzo 1988, Firenze, 1989, pp. 63-78.

Euripide, Medea, a cura di Laura Suardi

Euripide, Medea, a cura di Mario Vitali, Edizioni Canova Treviso

[1] Cfr. Euripide, Medea, vv. 46-47 nella traduzione di Mario Vitali: “Ma ecco i bambini, che hanno smesso i loro giochi, stanno arrivando, non pensano per nulla ai mali della madre: la mente dell’infanzia non ama il dolore”. Le parole della nutrice, oltre a esprimere l’inconsapevolezza dei figli di Medea, sono anche un’indicazione pratica agli attori che capivano così di dover entrare in scena.

[2] “Porgete, o figli, porgete le braccia alla madre per un’ultima carezza. O care braccia, o cara bocca, o aspetto e volto nobile dei figli miei, siate felici… laggiù: la felicità di questa vita ve l’ha tolta vostro padre. O dolce abbraccio, o tenere membra, e dolcissimo respiro di bimbi!” (Traduzione di M. Vitali). Si sottolinea che χείρ indica la mano e il braccio come unità; la δεξιά era la mano del saluto e anche della riconciliazione.

[3] “O destra mia, che tu spesso stringevi, o mie ginocchia, come falsamente fummo accarezzate da un uomo tristo, come fummo ingannate nelle nostre speranze!” (Traduzione di M. Vitali). Interessante l’analisi di Taccone (in Euripide, Medea, a cura di Mario Vitali, Edizioni Canova Treviso, p. 122) che evidenzia che il verbo χρώζω (sfiorare) non indica qui “un’azione superficiale non accompagnata da sincerità e profondità di sentimento. E aggiunge Mario Vitali (ibidem): “Non si tratta di carezze che sfiorano appena per superficialità, ma al contrario di carezze delicate, che la donna ha sentito come carezze d’amore, e che invece erano finzioni (…)”.

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