comunicazione non verbale menzogna

La Psicologia della Menzogna svelata

Articolo di Giorgia Luisi

La comunicazione menzognera è considerata una forma di discomunicazione. Questo termine fa differire la comunicazione “standard” da quella ironica, seduttiva e menzognera, tre tipologie di discomunicazione. Ciò che rende la discomunicazione e la comunicazione così diverse è l’aspetto implicito o esplicito che prevale nell’una e nell’altra (Anolli, L., 2002, p. 273). Nella prima, predominano gli atteggiamenti impliciti e il divario fra il “detto e il “non detto” è piuttosto ampio; nella seconda, invece, l’aspetto esplicito è preponderante e la comunicazione risulta, dunque, coerente. Nonostante possa apparire come qualcosa di negativo, la discomunicazione reca con sé anche dei vantaggi. Difatti, può essere considerata anche un’opportunità poichè aumenta la libertà dei partecipanti alla comunicazione e le opportunità comunicative (Anolli, L., 2002, p. 274). Tuttavia, è innegabile che la discomunicazione mostri degli elementi atipici rispetto a quelli a cui ogni individuo è abituato. Per questo motivo in psicologia si parla di precarietà comunicativa per definire una condizione in cui non vengono seguiti i cardini della comunicazione standard (Anolli, L., 2002, p. 274).

Anche per quanto riguarda la comunicazione menzognera, negli anni sono stati svolti numerosi studi. Sono stati utilizzati principalmente due metodi di ricerca: gli studi naturalistici sul campo, volti a studiare i comportamenti ingannevoli nella vita quotidiana; gli studi sperimentali di laboratorio, che avevano lo scopo di analizzare i processi che operano durante una conversazione menzognera. Secondo tali studi, si è analizzato che negli Stati Uniti il 61,5% dei messaggi comunicati da 130 soggetti erano in qualche modo ingannevoli (DePaulo et al., 1996, pp. 979-995). Inoltre, è stato analizzato che ogni individuo mente circa ogni dieci minuti (Vitale, I., 2013). Negli studi che sono stati condotti non si è tenuto conto dell’entità della menzogna raccontata; questo perché la gravità della menzogna è un aspetto soggettivo e valutato esclusivamente basandosi sulla morale e sull’etica di ogni singolo individuo. Perciò, questo risulta un aspetto secondario negli esperimenti che sono stati svolti; la cosa che si delinea di particolare importanza è che si mente molto più spesso anche di quanto noi stessi ce ne rendiamo conto.

La comunicazione ingannevole ha tre caratteristiche prototipiche che la rendono tale: il contenuto deve essere necessariamente falso; il soggetto deve essere consapevole di stare mentendo; ci deve essere l’intenzionalità di ingannare il destinatario (Anolli, L., 2002, p. 289). Queste tre proprietà danno vita alla definizione di menzogna che è stata fornita all’inizio del capitolo. Tuttavia, come è stato detto le menzogne non sono tutte uguali e di conseguenza vengono utilizzati vocaboli differenti per denominare le sottocategorie rilevate. L’omissione è la prima; consiste nel “non dire” ed è il sottogruppo di inganni più utilizzato nella vita quotidiana. La motivazione di ciò consiste nel fatto che permette all’interlocutore di non mentire in senso stretto e dà la conseguente possibilità di non sentire su di sé il senso di colpa derivante da una menzogna esplicita. In definitiva, si omette un’informazione fondamentale e pertinente al discorso affrontato per tutelare se stessi. La seconda categoria è l’occultamento. Non è molto differente dall’omissione e la differenza sostanziale consiste nel fatto che vengono nascose alcune informazioni, ma ne vengono fornite altre secondarie.
La terza è la falsificazione; il parlante fornisce informazioni del tutto false senza omettere od occultare parti di discorso. La quarta e ultima sottocategoria è il mascheramento; vengono celate informazioni importanti, ma nello stesso tempo vengono fornite informazioni false.
Dalla descrizione appena fornita si evince che verità e menzogna non sono necessariamente due binari paralleli destinati a non toccarsi mai ma, invece, si incrociano costantemente. Infatti, si può parlare di continuum fra le quattro sottocategorie (Anolli, L., 2002, p. 288).
Il termine bugia o menzogna viene spesso utilizzato genericamente nella vita quotidiana ma, come è stato detto, l’espressione reca in sé numerose divisioni lessicali che forniscono diverse sfumature al concetto di menzogna; le bugie, dunque, non sono tutte uguali e proprio per questo motivo identificarle non è semplice come a volte si pensa.
Nel corso degli anni sono stati fatti degli studi dettagliati sul processo menzognero e si ritiene sia importante citare i tre più importanti modelli teorici formulati.
La prima teoria è stata elaborata nel 1992 da Steven McCornack ed è stata denominata Information Manipulation Theory (IMT). La teoria della manipolazione dell’informazione è basata sulla convinzione che i comunicatori ingannevoli manipolano e trasformano l’informazione sia distorcendo gli eventi, sia falsificandoli esplicitamente (Anolli, L., 2002, p. 289). Infatti, il processo comunicativo si basa sul principio di cooperazione di Grice fondato su quattro cardini: qualità, quantità, pertinenza e modo. Nel momento in cui viene intrapreso un percorso conversazionale vengono applicate tali regole. Tuttavia, come è stato detto, la comunicazione menzognera è considerata discomunicazione; di conseguenza durante questo tipo di comunicazione tutte o alcune di queste “norme” verranno disattese. In aggiunta, le dimensioni di quantità, veracità, pertinenza e chiarezza, che ognuno è in grado di controllare durante una comunicazione standard, vengono violate in maniera esplicita.

La seconda teoria proposta è l’Interpersonal Deception Theory (IDT). Elaborata da Buller e Burgoon fra il 1994 e il 1996, pone il suo fulcro nell’aspetto strategico della comunicazione menzognera e lo contrappone all’informazione veritiera. Secondo l’IDT il mentitore rielabora le proprie informazioni false per renderle credibili e presentarsi affidabile. Il successo o meno dello scambio comunicativo menzognero viene dettato da entrambi i soggetti, i quali vengono definiti “contendenti”; si ha successo se il mentitore è in grado di rendere credibili le proprie informazioni e se il ricevente non è in grado di decifrare i segnali di menzogna.
È stata creata, inoltre, una distinzione tra comunicazione strategica e comunicazione non strategica. La prima si riferisce alla consapevolezza del mentitore di ciò che sta comunicando.
Utilizzando un processo strategico, il soggetto è cosciente di stare mentendo all’altra persona, con l’intento di convincerla della propria affidabilità. Le strategie comunicative impiegate sono: incertezza, l’invio di messaggi poco chiari; reticenza, periodi di latenza più lunghi, risposte brevi; dissociazione, allontanamento dalla propria esperienza personale per distaccarsi dalla menzogna; protezione dell’immagine e della relazione, presentare se stessi in modo positivo.
La comunicazione non strategica, invece, è basata sugli indizi di smascheramento (leakage cues), ossia atteggiamenti involontari e incontrollabili dal mentitore che, ad un occhio attento, possono rivelare la reale intenzione del soggetto. L’IDT li suddivide in tre categorie: rivelatori di attivazione emotiva e di nervosismo, che si esplicitano in un aumento del tono della voce, errori di pronuncia e lapsus verbali, aumento del movimento di gambe e piedi; rivelatori di affetti negativi, attraverso una riduzione del contatto oculare e un aumento dell’utilizzo di frasi negative; rivelatori di incompetenza comunicativa, attraverso ripetizioni, utilizzo di brevi frasi, mancanza di sincronia tra verbale e non verbale.
La terza e ultima teoria proposta è la Deceptive Miscommunication Theory (DeMiT), tradotta come “teoria della discomunicazione menzognera”. Tale tesi è stata elaborata in tempi recenti, nel 2002, da tre psicologi italiani: Anolli, Balconi e Ciceri. La teoria divide il processo comunicativo menzognero in menzogne ad alto contenuto e menzogne a basso contenuto; la differenza sostanziale consiste nel fatto che le prime comportano delle conseguenze rischiose sia per il mentitore, il quale viene scoperto, sia per il partner, che si sente danneggiato e ingannato. Inoltre, la comunicazione menzognera segue le regole della gestione locale (local management) degli scambi conversazionali (Anolli, L., 2002, p. 290); in questo modo si possono distinguere i “mentitori ingenui”, i quali spesso falliscono, dai “mentitori abili” che, al contrario, hanno successo.
Da quanto è stato descritto si può comprendere che raccontare una bugia, nonostante sia qualcosa che si inizia a compiere già da bambini, non è un processo semplice ed immediato, anzi, comporta un dispendio di energie mentali e fisiche per evitare di essere scoperti. Per tale motivo si parla di impegno cognitivo della comunicazione menzognera. Infatti, secondo alcuni studiosi il processo menzognero risulta cognitivamente più pesante da elaborare, poiché è necessario essere coerenti con la situazione contingente; inoltre non è da sottovalutare anche il carico emotivo, più o meno elevato, che il mentitore deve sostenere.
Sulla scia di queste considerazioni sono state avanzate diverse ipotesi a favore o contro tale affermazione.
La prima teoria proposta è quella del cosiddetto carico cognitivo. Secondo tale ipotesi raccontare una menzogna sarebbe più difficile cognitivamente rispetto a dire la verità. Non tutti gli studiosi hanno accettato questa linea di pensiero; uno fra questi è Steven McCornack, già citato precedentemente per la teoria dell’IMT, il quale nel 1997 ha sostenuto che in alcune situazioni particolarmente complicate dire la verità sia più difficile rispetto a raccontare una menzogna, basandosi sul fatto che anche i messaggi veritieri siano effettivamente dei racconti non prestabiliti e talvolta non coerenti con la situazione contingente, ma pur sempre reali (Anolli, L., 2002, p. 292).
Il secondo aspetto presentato riguarda la variabilità del carico cognitivo. Per rendere chiaro tale argomento è necessario approfondire i concetti di menzogne a basso contenuto e menzogne ad alto contenuto, riportate qualche riga sopra nell’ambito della DeMit. Si è parlato, infatti, solamente delle conseguenze che queste hanno sul mentitore e sul suo partner; tuttavia, si ritiene importante sottolineare più dettagliatamente le loro differenze, questa volta nell’ambito dell’impegno cognitivo. Vengono considerate menzogne a basso contenuto quelle utilizzate durante una conversazione quotidiana senza nessuna sorta di premeditazione. Ne fanno parte, per esempio, le bugie pedagogiche le quali sono accettate socialmente. Inoltre, l’impegno cognitivo per tali menzogne non è molto elevato.
Le menzogne ad alto contenuto, come è stato detto, comportano seri rischi per il mentitore. Il dilemma a cui ci si trova di fronte consiste nel decidere se dire la verità e assumersene le responsabilità e le possibili conseguenze sgradite, oppure raccontare una menzogna orchestrata ad arte per far sì che l’interlocutore di creda. Spesso, viene scelta la via di mezzo per dimezzare le informazioni false e così il senso di colpa. Il carico cognitivo in questo caso è elevato e si manifesta nel verbale e soprattutto nel non verbale.
Il terzo e ultimo aspetto da tenere in considerazione riguarda la pianificazione e l’elaborazione cognitiva del messaggio menzognero. Partendo dal presupposto che qualsiasi genere di comunicazione non è risultato del lavoro di solo uno dei comunicanti, ma dell’insieme di coloro che sono coinvolti nella conversazione, colui che decide di mentire deve essere credibile nel suo operato. Tuttavia, qualora il soggetto non fosse in grado, possono verificarsi due situazioni tra loro opposte: la prima possibilità è un eccesso di controllo su se stessi, chiamato ipercontrollo, durante il quale il soggetto limita i movimenti corporei e rende più grave il proprio tono di voce; il secondo caso è una mancanza di controllo, in cui il mentitore aumenta i gesti corporei, soprattutto delle mani e rende più acuta la propria voce (Anolli, L. e Ciceri, R., 1997; Akehurst, L. e Morris P., 1997; Vrij, A. e Heaven, S., 1999; in Anolli, L., 2002, p. 293). In entrambi i casi si tratta di mentitori poco abili che con tutta probabilità saranno scoperti. I mentitori in grado di ingannare il proprio interlocutore sono coloro che mantengono la propria impostazione simile se non uguale a quella assunta durante una comunicazione veritiera.
Queste pagine sono servite per spiegare nel dettaglio la letteratura e le teorie che sono state formulate nel contesto della comunicazione menzognera. Come è stato fatto per il capitolo sulle micro-espressioni facciali, nel prossimo paragrafo si passerà alla pratica e verranno spiegate le principali tecniche utilizzate da un abile mentitore e i segnali corporei individuabili per scoprire la menzogna.

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