Psicoanalisi del Gioco d’Azzardo Patologico

Articolo di Laura Koelliker

Il primo ad operare delle riflessioni sul gioco d’azzardo in un’ottica psicoanalitica è stato Von Hattingberg (1914). L’autore ha fornito una spiegazione di natura sessuale alla paura e alla tensione che sono caratteri peculiari del gioco.
Questi elementi rifletterebbero delle tendenze masochistiche di origine pregenitale, comparse durante l’infanzia, per il senso di colpa legato alla gratificazione anale.
Freud interpreta la coazione al gioco d’azzardo come una forma di autopunizione; attraverso il gioco infatti si cerca di padroneggiare il bisogno di perdere, che servirebbe a cancellare i sensi di colpa scaturiti dal complesso edipico.
Uno dei contributi più recenti dell’orientamento psicoanalitico si deve a Rosenthal (1987); egli spiega il comportamento dei giocatori patologici attraverso la presenza di un disturbo narcisistico di personalità. I giocatori sembrano dover provare a loro stessi, per riuscire a difendersi da un radicato senso di debolezza, il loro valore, la loro forza e capacità attraverso meccanismi di difesa arcaici, ricostruendosi continuamente l’illusione di onnipotenza.

Secondo Rosenthal (1992), materialmente quanto detto sopra si manifesterebbe attraverso una messa in atto rappresentata dalla tendenza a giocare per controllare l’incontrollabile; infatti l’aspetto del gioco che attrae di più i giocatori è l’imprevedibilità del risultato.
Il concetto di illusione indica un fenomeno peculiare. Esso è l’espressione di una primaria e rudimentale forma di relazione del bambino con la realtà esterna, che all’inizio è ovviamente rappresentata soltanto dalla madre.
Questo modo di relazionarsi servirà al bambino ad imparare pian piano ad adattarsi alla realtà esterna avendo fiducia in essa, conducendolo così verso un processo di integrazione “psiche-soma”.
Perché ci sia illusione, dice Winnicott (1951), è necessario che l’oggetto oggettivamente percepito (il seno – la realtà esterna) si sovrapponga all’oggetto soggettivo del bambino (l’oggetto creato dall’infante nel momento del bisogno).
La madre svolge un ruolo di adattamento nei confronti del bambino così che ci sia corrispondenza tra i bisogni infantili e la cura materna consentendo la condivisione di un “vissuto comune” tra madre e bambino. La madre inizialmente deve offrire un adattamento “quasi perfetto” ai bisogni del bambino, così facendo gli permetterà di vivere l’esperienza della sua magica onnipotenza. Questa è un esperienza primaria che fonda un vissuto esperienziale in cui l’oggetto si comporta secondo leggi magiche: esiste quando viene desiderato. L’illusione è che è che esista una realtà esterna che corrisponde alla capacità del bambino di creare, questo è reso possibile dal sovrapporsi dell’oggetto oggettivo e l’oggetto soggettivo. attraverso la fondamentale illusione di “essere con” l’oggetto, di intessere con esso uno scambio inconsapevole, in cui una comunicazione profonda e silenziosa produce sensazioni rassicuranti e pervadenti”. (Winnicott, 2004, pp. 47)
Secondo Bollas il bambino inizialmente, come sostengono anche Winnicott e Gaddini, fa esperienza di Sé attraverso le sensazioni fisiche che sono indotte dalle trasformazioni somatiche. Cioè fa esperienza attraverso un “conoscere simbiotico” (Bollas, 1989) che è caratterizzato dall’inconsapevolezza di un’altra presenza
Bollas afferma che la qualità e le modalità delle cure materne, piuttosto che la quantità, sono di fondamentale importanza per lo sviluppo dell’individuo. È importantissimo perché sarà proprio questo bagaglio esperienziale ad essere ricordato dal soggetto ed eventualmente riattualizzato in circostanze successive. Infatti il modo in cui l’adulto si relaziona e gestisce il proprio Sé è frutto sia dell’esperienza infantile, sia dell’interiorizzazione del processo trasformativo genitoriale che della madre cha accudisce il bambino come suo oggetto.
Alla base della motivazione, in età adulta, della ricerca di un oggetto che permetta di trasformare il Sé e rievocare esperienze pregresse soddisfacenti, ci sono le caratteristiche di questa peculiare modalità di relazionarsi tra madre e bambino.
La sensazione di trasformazione che produce la relazione con l’oggetto, è un’esperienza che può essere ricreata in particolari circostanze della vita adulta. In questo modo è possibile rivivere sensazioni arcaiche, che risalgono ad un’epoca precoce dello sviluppo dell’ Io.
L’adulto che da bambino non ha esperito delle esperienze positive, che non avrà vissuto e beneficiato di esperienze rassicuranti, tenderà, con tutta probabilità, a ricercare un oggetto trasformativo che possa hic et nunc
L’illusione ha un significato, un valore, per lo sviluppo infantile, solo nella corrispondenza con il mondo esterno; quindi non si sostituisce ad esso. L’illusione in questo senso diventa il modo attraverso il quale, gradualmente, il bambino viene a patti con la realtà. Lo fa nel modo meno traumatico per il bambino, che nelle sue prime fasi di vita è troppo vulnerabile.
Come è compito della madre far sperimentare al bambino la sua onnipotenza e fargli vivere l’illusione, sarà suo compito anche quello di procedere gradualmente a disilludere il bambino, in maniera tale che lui possa sviluppare un adattamento sano e fiducioso alla realtà oggettiva.
Christopher Bollas (1987) definisce l’illusione un atto trasformativo.
L’immaturo apparato psichico del bambino non gli permette di comprendere le sue necessità, di elaborare e rappresentare simbolicamente gli eventi della sua vita e di riconoscersi come un’individualità distinta e separata dall’oggetto esterno, così è l’esterno che dovrà sopperire a queste difficoltà facendosi promotore del benessere del bambino.
In questo senso il rapporto del bambino con l’oggetto d’amore primario è trasformativo. Trasformativo perché il rapporto produce e modifica le sensazioni vissute dall’infante in relazione alle esperienze a cui andrà incontro nelle prime fasi della sua vita.
Bollas identifica la madre come un processo, piuttosto che come un oggetto perché il rapporto che si crea tra madre e figlio attivando processi di trasformazione e cambiamento altera l’esperienza del Sé infantile. “È questa trasformatività che da senso alle esperienze infantili, adempiere ad un ruolo che in passato i genitori non hanno ricoperto. Le mancate cure, o le cure “manchevoli”, “parziali” sortiscono un effetto che resta e si manifesta nella struttura dell’ Io adulto, che mostrerà una struttura dell’Io molto fragile che potrebbe avere risvolti patologici.
“L’esperienza di abbandono vissuta dal bambino assume un connotato traumatico perché, avvertita su un piano unicamente sensoriale, nell’incapacità di mentalizzarla e comprenderla, viene conservata nel mondo interiore, divenendo parte della struttura di personalità e dell’identità dell’uomo adulto. Il fallimento genitoriale nel trasformare un’esperienza realmente vissuta in una conoscenza significativa di essa, può comportare l’arresto e l’isolamento del Sé infantile. Il trauma subito e non riconosciuto rischia dunque di strutturarsi come parte del Sé individuale e, non oggettivato né “datato”, costituisce una costante minaccia di ripresentazione dell’esperienza traumatica in situazioni di vita successive”. (Winnicott, 2004, pp. 48)
Quindi, nella vita adulta, la ricerca di un oggetto trasformativo sarà alimentata dal desiderio e dalla speranza di poter vivere un rapporto peculiare, particolare con un oggetto speciale. La particolarità di questo oggetto sarà quella di essere in grado di entrare in contatto con la parte più autentica e nascosta del proprio Sé e con quegli aspetti di sé che possono essere soltanto “sentiti” e quindi ri – esperiti, perché non sono ne conoscibili ne pensabili; non lo sono perché risalgono ad un tempo che precede lo sviluppo delle facoltà cognitive. “Questa ricerca comporta, infatti, l’utilizzo di una «memoria preverbale dell’Io» che dà al soggetto la possibilità di ricordare non con la mente, bensì con il corpo, di rivivere le sensazioni di un tempo, non come rappresentazione simbolica e datata di esse, bensì come reali e attuali esperienze somatiche, che modificano lo stato del corpo, del proprio mondo interno e dell’ambiente circostante”. (Winnicott, 2004, pp. 51)
Anche Eugenio Gaddini articola la sua teoria rispetto al tema dell’illusione intorno al ruolo degli aspetti, secondo lui preponderanti, della sensorialità4. Secondo Gaddini il funzionamento della psiche è mediato da due aree che vanno a costituire parte della “organizzazione mentale di base” (Gaddini, 1984) e rappresentano due modalità differenti di percepire e stabilire della relazioni con l’oggetto. Queste due aree sono rispettivamente: l’area psico-sensoriale (che è percettivo – imitativa) e l’area psico-sensoriale (che è incorporante – introiettiva). (ivi, 1974)
Gaddini asserisce che l’oggetto viene “sentito” soggettivamente attraverso le sensazioni procurate dalle modificazioni corporee prima ancora di essere percepito visivamente come immagine allucinata. Quindi il bambino, inizialmente, percepisce, piuttosto che lo stimolo reale, le modificazioni dello stato corporeo indotte dallo stimolo interno o esterno che sia. Le stimolazioni producono quindi sensazioni corporee. La funzione della fantasia, in questo senso, si sviluppa a partire dalle prime esperienze del corpo e rimane, inizialmente, un’esperienza nel corpo, una fantasia nel corpo5. Sarà solo poi che si verranno a costituire le prime fantasie sul corpo, che sono le prime rappresentazioni mentali del Sé corporeo.

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