La Psicologia del Cuore può salvare la tua vita

La malattia cardiaca improvvisa è una di quelle patologie che mettono a rischio il senso di continuità dell’individuo, provocando in chi ne è vittima la necessità di ridefinire il significato del proprio tempo passato, presente e futuro. Il “non riconoscere” se stessi e il proprio corpo comporta un’impossibilità nell’esprimere la propria sofferenza.

L’esperienza che prende forma nel momento in cui avviene l’incontro tra paziente e psicologo rappresenta lo scenario entro cui accogliere la sofferenza emotiva del paziente insieme ai suoi significati più nascosti.

Il dolore psichico difatti, svelando la fragilità dei singoli e la loro l’unicità, lacera la ragione, costringendo l’essere umano ad interrogarsi su di sé:
Perché proprio a me? Nel caso di un paziente cardiopatico, colpito ad esempio da un infarto al miocardio, la sofferenza psichica è data da un “disturbo della comunicazione”, che non permette al paziente di esprimere il proprio disagio.

Il dolore psichico può essere:

  • al di “sotto” della parola, in quanto la sofferenza “pietrifica” e rende muti;
  • al di “sopra” della parola, quando viene espressa attraverso la farneticazione o un eccesso di parole che non sono in grado di “rendere giustizia” al dolore provato.

Il colloquio con lo psicologo può rappresentare quindi la possibilità che si realizzi l’esperienza dell’incontro autentico, in quanto il paziente potrà fare dono di qualcosa di sé, che per lo psicologo, già attraverso il “preludio emotivo” dato dall’anamnesi delle informazioni e dai dati contenuti nella cartella clinica del paziente, avrà un carattere di novità e sorpresa rispetto alle idee, alle teorie sulla psicopatologia, all’esperienza dell’incertezza e che sarà determinante per la buona riuscita del colloquio.

L’incontro con il paziente implica, quindi, per lo psicologo il predisporsi all’ascolto di un atto di dono. Nel colloquio, infatti, l’ascolto assume una dimensione di cura dell’atto di donare, che si espande attraverso la capacità di cogliere e accogliere ciò che il paziente esprime di sé; quindi, come sostiene Scabini, la cura ha una doppia valenza di dono e gratuità.

Di fondamentale importanza per la buona riuscita del colloquio è il ruolo del Silenzio.

Il silenzio è definito spesso in senso negativo, come qualcosa di “vuoto”, di “assente”, una lacuna da colmare. Nell’ottica del colloquio clinico il silenzio, sia del paziente che dello psicologo, è parte integrante dell’incontro.

A tal proposito riporto di seguito “il resoconto del colloquio clinico con Stefano” scritto all’interno del testo Mente e Cuore – una clinica psicologica per la malattia cardiaca di Compare A., Molinari E. e Parati G.2:

“Stefano era entrato nella stanza dirigendosi direttamente alla sedia dopo una rapida stretta di mano e con lo sguardo rivolto verso il basso. Di fronte a me avevo la sua cartella clinica: anni 42, infarto del miocardio. Degenza in terapia intensiva dopo il pronto soccorso d’urgenza. Sposato, con una figlia di 8 anni. Il colloquio con lo psicologo era stato richiesto dal cardiologo del reparto di riabilitazione con l’indicazione “visita psicologica di routine. Sospetto tono dell’umore depresso”.

 

Stefano aveva le braccia conserte.
“Perché sono qua?”, “Perché devo fare questa visita?”

Queste furono le frasi con cui Stefano esordì. Il tono della voce era fermo, deciso. I suoi occhi erano pieni di rancore.

“Quando mi dimetteranno? Lei lo sa?”.
“Chi l’aspetta a casa?” gli chiesi.
“La mia vita. Quella che questa malattia mi vuole togliere” mi rispose.

Ci fu silenzio. Lo sguardo di Stefano cambiò direzione; si rivolse alla finestra. Le sue mani stringevano forte i suoi avambracci quasi come se fosse alla ricerca di un abbraccio o di una stretta che potesse contenere le sue emozioni che da lì a poco avrebbero rotto gli argini.

I suoi occhi cominciarono ad inumidirsi e con voce tremante disse: “Non è giusto, non me lo meritavo”. Al silenzio della voce sostituì il linguaggio delle sue lacrime. Stefano lavorava come responsabile all’interno di un’azienda. Questa posizione era stata raggiunta con molta fatica partendo da un titolo di studio di scuola superiore.

A questo suo traguardo lavorativo aveva sacrificato gli affetti più cari: il tempo con la moglie e con la figlia.
“Capisce dottore sarò declassato!!”.”Cosa penseranno di me?” aggiunse tra le lacrime.

Il dolore lo sovrastava e continuò a piangere nel corso di tutto il colloquio, disorientato dalla rabbia e dal rancore che sentiva per il “tempo interrotto” e per “l’impotenza” di fronte ad un evento di cui avrebbe voluto sbarazzarsi.

Gli occhi rossi e le lacrime scandivano le parole, accompagnavano i ricordi e le memorie di cui la narrazione di Stefano era il precipitato. Questa prima impressione fu molto intensa e qualificò immediatamente il clima emotivo del mio ascolto”. Da qui si può evincere il potere che il silenzio ha nel dare la possibilità al paziente di esprimere la propria sofferenza: le lacrime, con la successiva esplosione del pianto sono chiari segnali attraverso cui il paziente esprime le proprie emozioni; l’assenza di queste in contesti di sofferenza è associata all’impossibilità di comunicare. Per quanto riguarda lo psicologo, il suo silenzio produce il cosiddetto ascolto “autentico” del paziente.

L’ascolto dello psicologo può essere così visto come:

  • sforzo di comprensione: il silenzio non è sinonimo di passività, ma di tensione verso la comprensione del paziente. Si parla di “tensione” in quanto, per il conseguimento dell’ascolto autentico, si cerca di superare il senso di estraneità suscitato dal paziente;
  • cassa di risonanza: il silenzio dello psicologo può aiutare il paziente a produrre un discorso con sé stesso in prima istanza, e successivamente con lo psicologo;
  • “ascolto” del controtransfert: la comprensione del paziente non si ottiene solo ascoltando le sue parole o i suoi silenzi, ma anche attraverso le reazioni emotive dello psicologo come rabbia, paura, scetticismo, distacco, compassione o tenerezza. Attraverso tali emozioni è possibile riconoscere il modo di essere del paziente.

La malattia cardiaca non sconvolge solo la vita di chi ne è vittima, ma anche quella di coloro connessi con essa: il partner e i familiari, ripercuotendosi su quel sistema di relazioni familiari precedentemente istauratesi, innescando nuovi e faticosi processi di adattamento all’interno delle famiglie colpite.
Quanto detto ora può essere rappresentato grazie al “Modello Circonflesso dei Sistemi” di Olson, che riporta il caso di un paziente di 54 anni, sposato, con figli, colpito da infarto al miocardio (IM). Le famiglie “colpite” subiscono importanti e drastiche modificazioni lungo le dimensioni di:

  • Coesione: è il legame/impegno emozionale reciproco;
  • Flessibilità: è la qualità di cambiamento nella leadership, nei ruoli e nelle regole relazionali.

Nel caso analizzato da Olson il “cambiamento” del sistema familiare attraversa 4 stadi:

  • Stadio 1: prima dell’IM la famiglia è strutturalmente separata: la leadership è democratica, i ruoli sono stabili e vi sono poche modificazioni delle regole;
  • Stadio 2: al momento dell’IM la famiglia subisce un cambiamento, assumendo una condizione di famiglia caoticamente invischiata: la forte vicinanza emozionale, la leadership carente e i ruoli non definiti, lo stravolgimento di molte abitudini quotidiane sono alcuni elementi che caratterizzano questa fase;
  • Stadio 3: tra la terza e la sesta settimana dall’IM la famiglia diventa più rigida, rimanendo per certi versi ancora invischiata: alcuni tratti di questa fase sono il potere esercitato solo da uno, l’elevata dipendenza tra gli individui, una maggiore reattività reciproca e una rigidità che può essere interpretata come il tentativo di ristabilire l’ordine familiare iniziando a riorganizzare alcune abitudini;
  • Stadio 4: dopo sei mesi dall’IM il funzionamento familiare diviene strutturalmente connesso: si instaura vicinanza emozionale e lealtà verso il rapporto, la leadership ritorna ad essere democratica e i ruoli tornano ad essere stabili; nonostante ciò la famiglia diviene molto più chiusa e strutturata per far fronte alle difficoltà del paziente.

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